Un’intervista con Kim Deal, rockstar di provincia
Foto di Marisa Gesualdi, per gentile concessione di Spin Go!

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Musica

Un’intervista con Kim Deal, rockstar di provincia

In occasione dell'uscita del nuovo album delle Breeders e del tour che le porterà in Italia, abbiamo intervistato la cantante e chitarrista (e ex-bassista dei Pixies), che ci ha fatto capire un paio di cose sul rapporto tra movimento #MeToo e musica.
Giacomo Stefanini
Milan, IT

Quando le Breeders sono tornate in Europa, con la loro storica formazione che comprende le gemelle Kim e Kelley Deal alle chitarre, Josephine Wiggs al basso e Jim Macpherson alla batteria, a risuonare per intero il loro capolavoro e grande successo del 1993 Last Splash, io me le sono perse. I motivi sono molteplici. Tanto per cominciare, non sono un grande fan delle reunion karaoke, quelle in cui è tutto un "ve la ricordate questa?". E poi, diciamo la verità, l'altro motivo è che non volevo condividere le Breeders con voialtri. Sì, voialtri, il pubblico del festival, la gente che ci va perché ha sentito dire che una di loro era nei Pixies ("quelli di Fight Club!1!!1") o perché ha ricevuto in regalo una smartbox per il Primavera Sound.

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Lo so, abbiamo già stabilito che io sono uno snob di proporzioni mastodontiche, ma in questo caso c'entra anche un'altra questione, che è la capacità soprannaturale delle canzoni di Kim Deal di conquistare il cuore di chi le ascolta. "Safari", "Divine Hammer", "No Aloha", persino la hit mondiale "Cannonball" sono in grado di farti sentire come se le avessi scritte tu, ma senza quel senso di vergogna che di solito si associa alla produzione di arte in proprio. Tanto che per passarmela bene a un concertone reunion delle Breeders nel 2013 avrei dovuto seguire un corso da cuckold.

Ora, finalmente, la formazione originale della band delle due gemelle è di nuovo in pista con un nuovo album e un nuovo tour mondiale, che passerà anche dall'Italia in giugno. All Nerve, il disco uscito venerdì scorso per 4AD, è anche meglio di quanto ci si potesse aspettare. Con il ritorno di Josephine e Jim si diradano le nebbie di negatività che avevano reso il precedente Mountain Battles, seppur molto bello, un mattone color canna di fucile che si adagiava senza troppi complimenti sul petto. All Nerve è sfacciato, sbarazzino, rockeggia forte (una cover degli Amon Düül II!) e si concede momenti di eterea euforia (vi sfido a mantenere gli occhi asciutti durante "Dawn: Making An Effort"). La voce di Kim, per quanto finalmente libera dall'influenza di alcol e droghe, mantiene il suo carattere ruvido, diretto, e a 55 anni compiuti sfoggia ancora quel ghigno a metà degno di una teenager dispettosa. Sinceramente, sembra davvero di aver ritrovato le Breeders di Last Splash 25 anni dopo – come se non fosse passato un anno.

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Era la sera di San Valentino, verso le otto di sera, quando ho chiamato Kim Deal via Skype, e nella mia testa pensavo ossessivamente a un modo per fare una battuta sull'argomento senza sembrare un fanboy viscido e inquietante. Non ci sono riuscito, quindi sono stato costretto a tagliare gran parte di quello che ho detto dall'intervista che potete leggere qua sotto. Per fortuna Kim è una persona affabile, che ama ridere e conversare, ha senso dell'umorismo e voglia di raccontare quello che pensa senza filtri. Ecco il risultato.

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Noisey: Ciao Kim, come stai? Pensavo fossi già in tour.
Kim Deal: Ciao, sto bene, grazie. Il tour inizia il primo aprile, quindi ora sono a casa mia a Dayton, in Ohio. La settimana prossima iniziamo le prove, ci troviamo tutte in cantina da me.

Wow, grazie per questa immagine. Parliamo un po’ del disco, mi piacerebbe partire dal titolo. All Nerve sembra un po’ una dichiarazione di forza, di tenacia…
Beh, in realtà è il titolo di una canzone, viene tutto da lì. Sai, quando hai finito di registrare e si entra nella fase di missaggio e mastering, lì viene il bello, la parte divertente, cioè quando ci si mette lì e si dice: “Ok, chi ha un buon titolo per il disco?” All’inizio ne abbiamo proposti un paio, ma non erano un granché. La mia idea era “Howl”, da “Howl At The Summit” che è un’altra canzone del disco, ma poi ho pensato che c’è una famosa poesia di Allen Ginsberg con lo stesso titolo, sarebbe un po’ strano. E a un certo punto, la ex-ragazza di Josephine ha detto: “Che ne pensate di ‘All Nerve’?” Ed è piaciuto a tutte. Anche se l’avevamo già usato per la canzone, mi sembra un buon titolo.

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Sì, e poi sembra comunicare questa idea di forte indipendenza, anche il testo della canzone che dice “Non mi fermerò / Ti investirò / Il coraggio non mi manca”, mi ha fatto pensare che è un ottimo titolo per una band che torna sulle scene dopo tanto tempo con la formazione originale.
Non ci avevo pensato, hai ragione! Ma per me quella canzone parla soprattutto di quei momenti… sai quando ti sembra di star perdendo contatto con la realtà? E di essere così assolutamente convinta di una cosa che nessuno potrebbe essere in grado di convincerti del contrario? Ecco, quello.

In un’intervista hai dichiarato che in questo album hai usato per la prima volta tecnologie digitali in studio, una novità assoluta per te. Come ti sei trovata?
È vero, sono un po’ dubbiosa al riguardo. È strano. Sai, abbiamo registrato tutto il disco in analogico, su nastro. Niente computer, niente ProTools. Poi siamo arrivate a una certa parte di una certa canzone, e mi è venuta voglia di registrarci sopra qualcosa d’altro, e lavorando su nastro ti devi limitare a tipo 23 tracce. Io volevo provare alcune cose, ed ero nello studio di Steve Albini a Chicago, Electrical Audio, con un tecnico che lavora lì e che è mio amico da molti anni, Greg Norman. E Albini, naturalmente, lavora esclusivamente in analogico, ProTools non lo guarda nemmeno. Il che di solito è perfetto per me. Ma in questo caso volevo provare alcune cose strane, quindi ho pensato di lavorarci con Greg, e lui ha detto “facciamo che apro ProTools così possiamo provare tutto quello che ci pare”. Solo che una volta che cominci poi è difficile fermarsi. Lui stesso mi ha detto che non saprebbe distinguere una registrazione fatta in analogico da una fatta in digitale ormai. Alla fine comunque abbiamo aggiunto qualche cosa in digitale soltanto su due canzoni, non è che ci siamo date alla pazza gioia. Io ho portato fisicamente i nastri con me a New York e lì abbiamo mixato in digitale, altra prima esperienza per me.

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Ora che sei riuscita a rimettere in piedi le Breeders, continuerai anche a registrare la tua musica da solista o le due cose si escludono a vicenda per te?
Beh, a dir la verità ho ancora un 7” già pronto che non è ancora uscito, quindi potrei pubblicare quello. E con questo credo facciano sei singoli, che tra lati A e B fa dodici canzoni, quindi si potrebbe anche pensare a un album! Potrei metterle tutte insieme, così la gente può ascoltarle tutte in fila senza dover cambiare lato a ogni canzone.

Com’è stato tornare in studio con la formazione originale delle Breeders?
Beh, avevamo già fatto il tour nel 2013 in cui suonavamo Last Splash dall’inizio alla fine. Ma il fatto di aggiungere nuove canzoni è davvero super esaltante. Non vediamo l’ora di partire e provare le cose dal vivo. Anche suonare Last Splash è stato molto bello, perché la gente conosce le canzoni e le ama molto.

kim deal breeders new album last splash all nerve 2018

Mi incuriosisce capire che rapporto hai con l’Ohio, perché devi sapere che io sono un appassionato dell’Ohio, uno Stato che ha prodotto il meglio della musica outsider americana. So che tu hai un rapporto di amicizia molto stretto con Robert Pollard dei Guided By Voices, che è uno dei fulgidi esempi di quella singolarità ohioana a cui faccio riferimento. Che idea ti sei fatta della musica del tuo Stato?
Per me si parla prima di tutto di funk. Qua c’erano gli Ohio Players, gli Slave… per me, essendo di Dayton, il funk è stato più importante e significativo del punk, che era più vivo al Nord, ma qua nel Sud dello Stato il funk andava veramente forte. E poi negli anni Novanta era una figata quaggiù: c’erano i Brainiac, le Breeders, i Guided By Voices… era un posto davvero divertente dove stare. Per quanto riguarda le particolarità della musica dell’Ohio rispetto ad altri posti, probabilmente è una cosa che percepisci meglio tu di me, perché io da dentro non la vedo, forse si capisce meglio da fuori.

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Un’altra cosa interessante sulla tua carriera è che per quanto tu sia stata parte della generazione che ha fondato il college rock, l’alt-rock, l’indie rock, come lo vogliamo chiamare, le tue influenze sono sempre state mainstream, anche agli inizi non avevi il fascino dell’underground, dell’opposizione al paradigma rock dominante.
Ecco una cosa che ha a che fare con il posto in cui vivevamo. Qui nel Midwest eravamo tutti immersi in cose come Schenker Brothers, Molly Hatchet, UFO, Black Oak Arkansas, Brownsville Station, Rainbow, [Ted] Nugent, Rush… super ruock. Non è che volessi suonare come i Brownsville Station, ma era quello che girava ai tempi.

Per un periodo, in coincidenza con l’esplosione alternativa di inizio anni Novanta (e quindi con il secondo album delle Breeders), sei stata una vera e propria rockstar, eppure sembra che tu non abbia cercato di gettare benzina sul fuoco del successo, continuando a mantenere una vita e un approccio alla musica di basso profilo.
Non so bene che cosa intendi, nel senso che sì, ho presente che ci sono stati due momenti di grande successo: “Cannonball” [il primo singolo tratto da Last Splash] e la reunion dei Pixies a metà anni Duemila. In quei momenti ero spesso in radio e in TV o in giro per il mondo in tour. Però considera che io vivo a Dayton dal 1992, magari sarò stata anche molto famosa, ma quaggiù non è che tu te ne accorga più di tanto. Non ho mai avuto bisogno di trasferirmi perché, fortunatamente, andando in tour non rimanevo quaggiù abbastanza a lungo da annoiarmi. Poi sono stata a New York per qualche mese, California per un anno e mezzo… ho sempre pensato che avrei dovuto trasferirmi a Londra. Però sai come va… Tu hai sempre abitato in Italia?

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Sì, sono passato da un paesino a una cittadina a una grande città. A volte voglio tornare in campagna, a volte penso che dovrei trasferirmi in una vera metropoli. Quello che volevo chiederti però, in definitiva, è: rimpiangi mai di non aver sfruttato il tuo successo maggiormente? Ti capita mai di desiderare una vera posizione da stella del music business?
Ah, ora capisco cosa intendi. Ora ti racconto com’è nata “Cannonball”. Avevo il microfono da armonica di mio fratello, e quello che dovrebbe fare chiunque si trovi per le mani il microfono da armonica di suo fratello è attaccarlo a un amplificatore, io avevo un Marshall, e iniziare a urlarci dentro. Perché è l’idea migliore quando hai un fratello che suona l’armonica. Gli rubi il microfono e lo attacchi al Marshall e inizi a urlare. Quindi è come se tu mi dicessi che non ho voluto scrivere canzoni di successo, ma il fatto è che “Cannonball” inizia con un feedback di voce super distorto, che non era proprio una cosa comune ai tempi. C’è solo uuuaaayyy [imita il feedback del microfono] e io che faccio “hello? hello?”, quindi non è che fosse una canzone programmata per andare in radio, però ci è andata lo stesso. Quindi l’idea che io abbia deciso di mantenere un basso profilo e abbia snobbato la mia grande opportunità… per me non funziona così. Per me funziona che se penso che una canzone sia fica, la suono. Non è un mio problema che alla gente piaccia o meno… preferirei che piacesse, ma non è necessario per niente. Ho il mio gusto, non potrei mai scrivere canzoni che piacessero al pubblico, ma non a me. Perché quello è il lavoro di qualcun altro, di sicuro non il mio. È il lavoro degli autori, dei producer, di gente che scrive musica con in testa l’idea di essere commercialmente appetibili. Il mio lavoro è di inventarmi roba che mi piaccia, sperando che piaccia anche a qualcun altro. Fine.

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Del resto questo approccio dà vita a canzoni molto più personali, e la conseguenza è che i fan delle Breeders percepiscono una forte connessione con te. È quello che mi ha detto una mia amica: "chiedile se si accorge che i suoi fan empatizzano con lei". Cosa ne pensi?
È davvero fantastico anche solo che lei abbia questa idea. È vero, abbiamo la sensazione che i nostri fan siano particolarmente affezionati a noi. È una bellissima sensazione.

Parliamo di cover. Riesci sempre a trovare delle canzoni particolari e inaspettate da suonare con le Breeders. Che cosa c’è dietro alla scelta di “Archangel Thunderbird” degli Amon Düül II per l’ultimo album e di “Chances Are” di Bob Marley sull’EP Fate to Fatal del 2009?
Hai scelto due ottimi esempi, perché sono semplicemente canzoni per cui ho sviluppato un’ossessione. Entro proprio in un loop da cui non riesco a uscire, ascolto per settimane sempre la stessa canzone senza sosta. Play-Rewind-Play-Rewind-Play-Rewind, come se avessi l’OCD. E questo mi porta a voler far entrare questa canzone nella mia vita, capisci cosa intendo? Però la cosa interessante è che, per esempio, “Chances Are” non potevamo certo cantarla come un gruppo reggae, non è il nostro stile, sarebbe andata malissimo. Ed è una canzone molto semplice, con delle armonie meravigliose, per cui l’abbiamo semplicemente resa meno complicata che potevamo, ma è molto diversa da come la faceva Bob Marley.

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Invece “Archangel Thunderbird” è una cosa molto strana! Stavamo registrando le voci con Steve Albini, quindi quando mi sono messa a cantare la canzone per lui, sai [canta] "When the everywhere eye / Asks you who is the emperor of the sky"… lui, che penso non avesse mai sentito l’originale, mi ha detto: “Ma perché canti in questo modo?” Io stavo cercando di farla esattamente come la faceva [Renate Knaup], perché l’avevo memorizzata esattamente così, e non avrebbe avuto senso cantarla in un modo diverso. Il fatto è che la metrica di questa canzone è davvero stranissima, quindi lui non riusciva a capire perché avessi deciso di cantare queste parole con questa metrica così assurda. Insomma, in questo caso la cover doveva suonare quasi esattamente come l’originale, altrimenti sarebbe stata un’altra canzone.

È proprio vero. Probabilmente il modo strano di cantare era dovuto anche al fatto che l’inglese non era la sua prima lingua…
Sì, ma Renate è davvero una voce straordinaria. Alle mie orecchie suona come se fosse in trip totale, ma probabilmente è solo il suo stile. Comunque ho fatto un’intervista con un giornale tedesco, e loro mi hanno detto che il krautrock alle loro orecchie suona un po’ pacchiano. Pacchiano! Ti rendi conto? Qua negli States la gente va pazza per il krautrock.

Dev’essere una cosa degli europei, anche noi qua in Italia ci vergogniamo un po'. Pensa che i Metallica recentemente hanno avuto l’idea di suonare una canzone di Vasco Rossi davanti al pubblico italiano, e nel video si sente la gente che urla “nooo!” Insomma, non abbiamo un buon rapporto con la nostra musica nazionale. Invece voi negli USA ne andate più orgogliosi…
[Ride] Beh, se tu venissi qua e suonassi una cover dei Nelson non ti assicuro che otterresti una reazione positiva… Ma a proposito di musica italiana, conosci gli Uzeda? Mi piacciono tantissimo, la cantante è bravissima, ho sempre pensato che io e lei dovremmo fare una canzone insieme. Li ho conosciuti perché registrano anche loro con Albini. Lei è anche in un altro gruppo che si chiama Bellini, dal vivo sono fortissimi.

Allora lanciamo un'appello a Giovanna Cacciola perché registri una canzone insieme a te! Tornando all'album, mi ha incuriosito la canzone “Spacewoman”, perché sembra molto diversa dal tuo stile, molto più narrativa.
Il ritornello di quella è stato scritto da una ragazza con cui ho scritto “The Root” un po’ di altre cose a Los Angeles, Morgan Nagler. Ho usato dei suoi versi che erano avanzati per il ritornello. Mi piaceva molto perché sembrava una cosa molto sincera, il che a me non viene per niente bene quando scrivo i testi. Quindi ho messo insieme un pezzo mio con un pezzo suo, ed è venuta fuori “Spacewoman”.

“Walking With A Killer” è una canzone che avevi già registrato da sola, e parla di cose terribili che fanno gli uomini…
Ma guarda, è più una canzone su una cittadina. Hai detto che vieni da un posto piccolo, quindi capirai cosa intendo. Immagina: c’è una strada che esce dall’abitato, non molto illuminata, e tu ci cammini. È fiancheggiata da un campo di grano ed è ancora abbastanza parte della città da poterla fare a piedi per andare a fare la spesa, ma allo stesso tempo è buia e deserta. Il grano è più alto di te e arriva fino al ciglio della strada. E passa una macchina a tutta velocità e tu sei l’unica persona sulla strada, ed è una notte d’estate e le notti d’estate sembrano sempre film dell’orrore, no? Mi piace un po’ quella roba.

Che cosa pensi del grande dibattito sul sessismo nell’industria dello spettacolo? Tu sei sempre stata una lavoratrice, testa bassa e chitarra in mano. Credi che sarebbe cambiato qualcosa se invece di iniziare negli anni Ottanta tu stessi venendo fuori oggi?
Lasciami pensare… Hai ragione, probabilmente le dinamiche di genere sarebbero molto diverse oggi, ma, se penso a che cosa troverei di diverso, quello non è il mio primo pensiero. Il mio primo pensiero è che oggi la musica è gratis, non riuscirei ad avere un guadagno, la musica è libera come le farfalle. E poi mi viene in mente la questione tecnica, il fatto di non dover trovare un otto tracce a nastro come ho fatto quando ero adolescente, oggi userei GarageBand. E probabilmente se fossi cresciuta in questi anni sarei una grande fan di GarageBand e ti starei facendo una testa così sul fatto che la prima versione era meglio e bla bla bla. Sicuramente le dinamiche di genere sarebbero molto diverse, ma per qualche motivo viste da qua sembrano l’ultimo dei miei problemi. Dev’essere proprio perché, come dicevi tu, sono sempre stata una lavoratrice, quindi immediatamente il mio pensiero va al lavoro.

Infatti a vederti, e a vedere il tuo lavoro, sembri tanto indipendente e forte da non venire minimamente toccata da problemi di sessismo. Ti è mai capitato di dover lottare contro questo tipo di cose?
Sai qual è il discorso? Che non lo so. A volte capita che, per esempio, mi trovi in uno studio e l’ingegnere del suono sia un po’ uno stronzo. Ma non so se è perché sono una donna o se è uno stronzo con tutte le band. Il mio sospetto è un po’ entrambe le cose. C’è chi mi chiede se il movimento #MeToo incoraggerà più donne a fare musica. E quando ci penso, mi sembra praticamente lo stesso discorso di coso, il capo dei Grammy [Neil Portnow], che ha detto “Le donne dovrebbero farsi avanti se vogliono vincere”. Le donne sono metà della popolazione. Le donne fanno musica. È naturale. Donne e musica, è un’accoppiata naturale. Non c’è bisogno di incoraggiare nessuna. Facciamo già tutto. Quindi l’idea che il movimento #MeToo dovrebbe avere un effetto sulle donne è… sbagliata. Quello che manca è una copertura adeguata sulla stampa. Tipo, metti che apro Rolling Stone, prima di trovare una donna devo scrollare fino alla dodicesima notizia, dopo tipo sei articoli sui videogiochi. La stessa cosa vale per i festival! Sicuramente loro risponderebbero che è perché le donne non fanno abbastanza copertura mediatica, abbastanza pubblicità. Quindi è un circolo vizioso.

Grazie Kim, e buon san Valentino!
Ci vediamo a Milano, vienici a trovare!

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