“Non bisogna lasciare niente al caso. Il panino deve essere equilibrato e per farlo si mette il 60% di milza, il 30% di polmone e il 10% di trachea.”
La storia che sto per raccontare è quasi finita in un collasso e nella momentanea paralisi. Dopo le pizze rosse, i supplì e i maritozzi ho consapevolmente scelto di fare un altro food tour, questa volta in trasferta. Sono tornato in Sicilia, come quando mi sono ingozzato di granite.
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Uno dei tour più duro di sempre, quello alla ricerca di buonissimi pani ‘ca Meusa di Palermo, in compagnia dell’amica e collega Alice Sagona che mi ha guidato, Virgilio delle frattaglie, attraverso alcuni dei migliori panini con la milza di Palermo in ben tre, densissime, ore.
Cos’è il pani ‘ca meusa
“Dentro un pentolone di rame ribollivano tre dita di sugna di maiale che osservavo rapito e spaventato”
Facciamo un ripasso di cosa sia il pani ‘ca meusa. Il panino con la milza è uno dei cibi di strada più conosciuti del capoluogo siciliano insieme ad arancin* (unica pietanza dove mettere asterisco o schwa serve a non farsi nemici) e pane e panelle. Il pani ‘ca meusa ha origini antichissime: si dice risalga a 1100 anni fa e che sia una pietanza inventata da macellai ebrei. Per motivi religiosi questi non potevano accettare denaro dalla vendita della carne, così trattenevano le frattaglie, che cucinavano e vendevano ficcate in un panino. E nonostante già a fine ‘400 la popolazione ebraica sia stata cacciata da Ferdinando II d’Aragona, detto “Il Cattolico”, la ricetta è rimasta nel bagaglio tradizionale palermitano.
Tra l’altro Palermo secondo Forbes è la capitale europea dello street food e tra le prime cinque al mondo. Ed è anche una delle poche in cui lo street food è effettivamente street a tutto tondo: venduto per strada e consumato per strada. E allora partiamo, e lo facciamo proprio da un baracchino forse il più famoso di Palermo: quello di Rocky Basile alla Vucciria.
P.S. Prima che commentiate inferociti, vi ricordo che questa non è la lista dei migliori pani ‘ca meusa di Palermo: è una lista di quanti (buoni o presunti tali) sono riuscito a trangugiarne in una manciata di ore.
Rocky: il pani ‘ca meusa su strada più famoso di Palermo
Devo dire la verità: ho un po’ imbrogliato. La primissima tappa del mio tour non è stata di mattina, ma verso l’una di notte della sera prima, quando mi sono lasciato convincere a provare il panino di Rocky. Rocky non è solo un meusaro: è il re della Vucciria e accompagna le notti dei palermitani affamati che bramano uno spuntino. Rocky Basile, al tempo Rosolino Basile, si piazza con il suo baracchino a via Vittorio Emanuele 211 da decenni ed è una fonte inesauribile di storie su Palermo. Arriviamo a piedi dopo una manciata di Negroni preceduti da svariati ettolitri di vino. Ho un’altra verità da confessare: era il primo panino con la milza della mia vita.
Dentro un pentolone di rame ribollivano tre dita di sugna di maiale che osservavo rapito e spaventato mentre facevo una fila bella nutrita. Ogni due/tre panini il ragazzo aiutante di Rocky ficcava la mano in una busta di plastica piena di frattaglie e le buttava nella sugna bollente. Poi con gesti veloci, senza fermarsi un attimo, le girava in continuazione e le schiaffava in un panino con un po’ di sale e limone. Rocky mi ha spiegato che, fatto in questo modo, il pane ‘ca meusa prende nome di “schietta”. Tempo fa qui veniva anche il pittore Renato Guttuso a mangiare la sua milza.
Finalmente arriva la cosiddetta vastedda: un panino morbido con sopra semi di sesamo, tondo, pieno zeppo di milza colante e altre interiora. Abbastanza riluttante lo assaggio. Oltre a un innalzamento del colesterolo che ho sentito nelle vene, forte e chiaro, il sapore era una bomba: umami, succoso, testimone di una sugna da cui sono già passate tonnellate di milza.
La prima tappa era andata, innaffiata con una fresca birra Forst che a quanto pare è la birra per eccellenza per accompagnare il pani ‘ca meusa. Il tutto è costato all’incirca 3 euro. Non rimanevano che le preghiere per svegliarsi il giorno dopo e continuare.
Il pane ‘ca meusa maritato: Franco u Vastiddaru
“Il panino con la milza non è mai solo milza. Noi, per esempio, ci mettiamo anche il polmone e la trachea di mucca”
Tecnicamente il tour era già iniziato, visto che nella notte non sono affatto riuscito a digerire il panino. Mi sveglio verso le 9 dopo un sonno turbolento dovuto alle 2000 calorie di pura sugna e carboidrati e per le 10 incontro Alice, che farà le foto di questa follia, ai Quattro Canti (e che mi darà i giusti consigli). La prima vera tappa è Franco u Vastiddaru, qualche centinaio di metri più giù rispetto a Rocky.
Franco u Vastiddaru è un’istituzione tanto quanto Rocky ma, a differenza sua, è in un locale che si affaccia su strada e su una piazzetta molto piacevole. Qui il figlio del mitico Franco (scomparso nel 2015), Antonio, ci da due pani ‘ca meusa alla ridicola cifra di 5 euro, 2,50 a panino.
Alice si è buttata prendendone uno tutto per sé, ignara di quello che sarebbe accaduto nelle ore a venire. Per questa seconda tappa la scelta è ricaduta sulla versione “maritata”, vale a dire con un velo di caciocavallo sopra le frattaglie fumanti. La foto testimonia come il concetto di “velo” a Palermo sia a dir poco ridicolo. Ci sediamo con i nostri panini e accompagniamo il tutto con una birra, in una colazione da campioni che mi ricorda quando, anni fa, ho fatto un’intera colazione a base di frattaglie.
Il caciocavallo gli da un quid salatino che fa faticare ancora di più, ma non per questo mi fa gettare la spugna. Alice, mentre io già ho paura al pensiero delle prossime tappe, si mangia il suo come se niente fosse: “Alcuni miei amici, dopo una serata, se ne mangiano anche due di fila.”
Prima di andare via cerco di scambiare due chiacchiere con Antonio, che diffida dai giornalisti ma mi dà comunque delle spiegazioni: “il panino con la milza non è mai solo milza. Noi, per esempio, ci mettiamo anche il polmone e lo scannarozzato”. Che sarebbero parti cartilaginose della trachea della mucca, il che spiega perché fosse a tratti più duro al morso.
Il filoncino ‘ca meusa: da Zu Totò
Io e Alice abbiamo passeggiato per una mezz’oretta prima di riprendere a ingurgitare milza: non avevamo calcolato che fosse domenica, quindi due degli indirizzi che volevamo fare erano chiusi (Il Pani câ Meusa di Porta Carbone e da Chiluzzo alla Kalsa, per la cronaca, entrambi consigliatissimi dai locals). Scoraggiati e abbastanza provati ci stavamo per dirigere verso la tappa di cui leggerete dopo, quand’ecco apparire un localino sulla strada con un uomo molto panciuto seduto dentro e milza fumante.
“I ragazzi di oggi non vogliono lo scannarozzato perché dicono che è troppo grasso. Non sanno cosa si perdono.”
“Questo no, non l’ho mai sentito nominare,” mi dice Alice. “Andiamo avanti.”
Eppure qualcosa mi diceva che quel signore placido mi avrebbe regalato emozioni. Così siamo tornati indietro — e per fortuna. Da zu Totò (da zio Totò) ho assaggiato il miglior pani ‘ca meusa di Palermo.
Alice, che vive a Palermo, chiede a zu Totò perché mai non l’avesse mai visto prima. Zu Totò risponde testuale: “Perché apro quando mi va e chiudo quando finisco il pane.” Aprono solo sabato e domenica, per la cronaca. Il dettaglio, invece, è il pane: fino a questo momento avevo solo visto le vastedde, i panini tondi. Qui invece mi proponevano un filoncino con la crosta leggermente dura. La signora Giacomina, moglie di Totò, intanto rimestava la milza e le altre frattaglie nella sugna e mi suggeriva di assaggiarlo schietto che più schietto non si può: senza nemmeno il limone.
Ricordo ancora il momento in cui l’ho morso: è stato lo stesso in cui mi sono definitivamente innamorato di loro e del pane con la milza. La parte croccante, il modo in cui il filoncino si acchiappa il sugo: tutto entra sontuoso nella bocca a squilli di trombe che annunciano una morte imminente, sì, ma una morte molto buona. “I ragazzi di oggi non vogliono lo scannarozzato, la trachea,” mi dice Zu Totò, che lavora qui da 60 anni — e suo padre prima di lui. “Non lo vogliono perché dicono che è troppo grasso. Non sanno cosa si perdono.”
Dopo foto di rito e un sorriso stampato addosso per il resto della giornata, ci siamo incamminati a malincuore. Doppio bonus per loro: si può pagare con la carta di credito e fanno pure delivery.
La catena dei pani ‘ca meusa: Antica Focacceria San Francesco
Stranamente ringalluzzito, invece che moribondo, mi incammino con Alice verso un’altra istituzione di Palermo e non solo: l’Antica Focacceria San Francesco. L’Antica Focacceria è il baluardo del pani ‘ca meusa in Italia. Hanno avuto il coraggio (e la ragione, a quanto pare) di esportare questo piatto anche fuori da Palermo: ad oggi contano 10 locali e solo uno è a Palermo, mentre gli altri li potete trovare a Milano, Roma, Catania, Brescia, Mantova, Caserta e Trieste.
“Una volta la povera gente non poteva permettersi nemmeno le frattaglie, quindi prendevano la focaccia farcita solo con ricotta e caciocavallo”
Al di là della questione franchising, la storia dell’Antica Focacceria San Francesco è incredibile: nel 1834 un cuoco al servizio di nobili, Salvatore Alaimo, si stufa e decide di aprire una “focacceria”. In una cappella sconsacrata mette la sua professionalità al servizio del popolo, serve Garibaldi, si inventa la focaccia maritata e viene additato dalla nobiltà per aver osato servire la pasta con le sarde, fino ad allora appannaggio degli aristocratici palermitani.
Ho aspettato fino ad adesso per dirvelo: il pane che viene usato, la famosa vastedda, è anche detto focaccia. Ecco perché focacceria.
Dopo una fila interminabile e confusa, finalmente possiamo ordinare. E qui scopro un’altra cosa interessante. Per loro la focaccia maritata è con milza, caciocavallo e ricotta grattuggiati, mentre invece la schietta non è senza formaggio: è solo formaggio.
“Una volta la povera gente non poteva permettersi nemmeno le frattaglie, quindi prendevano la focaccia farcita solo con ricotta e caciocavallo,” mi spiega il signore che intanto prepara i panini [NdR: non ha voluto dirmi il suo nome]. “È stato il signor Alaimo nel 1851 a creare la focaccia maritata, per permettere anche ai poveri di mangiare un po’ di carne a un prezzo modico.”
Ci sediamo all’interno e guardiamo già sazi e abbastanza nauseati i nostri pani solo con milza, polmone e limone (3 euro l’uno). Un morso. Niente. Due morsi. Niente. Quasi nessun sapore. “Essendo una catena le frattaglie sono abbattute e rigenerate,” mi spiega Alice. “Siamo tutti concordi con il fatto che per giudicare un buon pani ‘ca meusa vale una regola massima: più farà male al tuo sistema immunitario, più sarà autentico.” Lasciamo i nostri pani ‘ca meusa approvati dall’Unione Europea abbastanza intonsi e ce ne andiamo.
Il meusaro che balla: Nino u Ballerino
Sono le 13,ho un aereo tra due ore e Alice deve scappare a pranzo. Mi aspetta una decisione difficile: correre per un chilometro e immolarmi per il bene vostro e del tour o godermi il sole andando tranquillo in aeroporto? Dai, su, quattro erano davvero troppo pochi. Ed è così che sono andato in corso Calatafimi al chiosco di Nino u Ballerino.
Nino u Ballerino è una leggenda. Tutti a Palermo sanno chi sia. Nino non prende un cartellone pubblicitario per il suo business, nossignore. Nino scrive il suo nome con le luci delle sagre, in rosa shocking, in un arco sopra la strada. Da Nino la musica è sempre alta perché lui non prepara il pani ‘ca meusa, lui lo danza. Quando sono arrivato, di corsa e sudatissimo, lui era lì a preparare focacce con la meusa alla velocità della luce (7 secondi a panino, li ho contati, 10 se maritato). Il nome di ballerino se l’è guadagnato perché, mentre cuoce le frattaglie nella sugna, lui non si limita a girarle: luiballa.
Si muove con tutto il corpo, a ritmo di musica sparata a pallettoni, ma sempre concentratissimo sulla cottura. “La mia famiglia fa focacce con la milza da quattro generazioni,” mi spiega Nino. “Hanno iniziato nel 1902 con il mio bisnonno. Sono nato nel 1970 e ho iniziato a fare questo mestiere quando avevo 4 anni. ”
Nino mi spiega anche la proporzione perfetta per un pani ‘ca meusa fatto come si deve: “Non bisogna lasciare niente al caso, soprattutto il tipo di frattaglie che ci metti dentro. Il panino deve essere equilibrato e per farlo si mette il 60% di milza, il 30% di polmone e il 10% di trachea.” Mi siedo su una della panche, abbastanza esausto e comincio a mangiare l’ultimo panino del tour.
La proporzione frattagliosa di Nino sembrava essere azzeccata: non era mai troppo scioglievole né troppo pieno di parti gommose e grondava buon sughetto da tutte le parti. Il mio stomaco cominciava a chiedermi pietà e gorgogliava furiosamente, minacciando di esplodere, mentre Nino si sporgeva per vedere se mi stessi gustando il suo panino con la milza. Sì, Nino, ma capiscimi anche tu. Alla fine, esausto e con il rischio di perdere l’aereo, mi sono incamminato portandomelo via — e con la chiara intenzione di regalarlo a un passante. Ma il pani ‘ca meusa non si lascia dire di no, così, un morso dopo l’altro, me lo sono pappato tutto, ben contento di averlo fatto.
Mi sono pentito solo dopo, quando l’aereo ha iniziato a decollare e sembrava che il mio corpo stesse per esplodere da un momento all’altro. Per fortuna i carboidrati mi hanno steso e così sono rimasto vivo per raccontarvi, ancora una volta, un altro pazzo, sconsiderato, food tour.
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