Questo articolo è frutto della collaborazione di VICE con GRIOT, un magazine online e un collettivo di creativi, artisti e cultural producer che celebra la diversità attraverso le arti, la creatività e la cultura, e le storie ad esse connesse di afrodiscendenti e altre culture in Italia e nel mondo.
Due settimane fa ho scritto un articolo sulla mia esperienza di italiana nera cresciuta in mezzo a episodi di razzismo più o meno interiorizzato. Tra le altre cose raccontavo dei vari nomignoli affibbiati alle persone nere, e nei commenti al post in molti hanno contestato proprio questo aspetto: secondo alcuni, termini come cioccolatino o pantera sono in realtà innocui—”non offensivi,” spiegava una ragazza, aggiungendo “a me dicono mozzarellina, gattina o panda ma mica mi arrabbio!”
Videos by VICE
Spesso in effetti chi li usa non ha davvero idea che possano infastidire e mettere a disagio chi ha davanti, né sa—a volte finge di non sapere—che sottintendono una forma di prevaricazione, tanto fanno parte del vocabolario quotidiano.
Poiché non volevo che una riflessione a riguardo rappresentasse solo la mia posizione personale, ho invitato altre persone che si sono a vario titolo trovate ad affrontare il tema a condividere il loro punto di vista—come “riceventi” dell’appellativo o altrimenti.
MARTA SACHY , 36 ANNI, ANTROPOLOGA
Marta è cresciuta in un paesino di 3200 anime vicino a Lecco da padre italo-francese e madre mozambicana, e la sua adolescenza è stata influenzata dal boom della Lega Nord—il quartier generale delle camicie verdi era a meno di 50 km da casa sua. È stata chiamata varie volte “pantera” e “caffèlatte”.
“In Italia e in Europa, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, c’è quello che molti studiosi definiscono razzismo silente. L’Italia poi è molto retrograda nella sua discussione sul razzismo, che c’è ed esiste. Certamente dipende dall’ignoranza, ma anche dal fatto che la rappresentazione degli africani in Italia è spesso negativa. Per esempio molti per definirmi usano la parola ‘mulatta’, non sapendo che viene da ‘mulo’, che definisce l’incrocio tra una cosa bella, il cavallo—riferito al bianco—e una cosa meno bella, l’asino—riferito alla donna nera.
Le parole non sono neutre. Si riferiscono sempre a regimi di verità che richiamano altre rappresentazioni, discorsi idee e immagini mentali che si creano intuitivamente per associazione. La storia ci insegna che, per giustificare e garantire la dominazione, la rappresentazione dei neri è sempre stata volta a inferiorizzare. Per questo le parole ‘cioccolatino’ e ‘pantera’ possono essere offensive. Non è tanto la parola in sé ma tutto quello che evoca, partendo dall’oggettivazione che siamo diversi e che io ti vedo prima di tutto come nera.
Chi subisce un razzismo quotidiano ha il diritto di non apprezzare questi nomignoli, che non possono essere paragonati ad altri analoghi usati per i bianchi semplicemente perché le logiche di potere rendono le posizioni non comparabili. Si dovrebbe cominciare a riflettere sul perché i neri si sentano così, senza pensare che siamo un gruppo di complessati o vittime che vedono il razzismo in ogni dove. Vi dico una cosa: il razzismo è ovunque ed è estenuante. Molte volte siamo i primi a tacere, a soprassedere e a far finta che vada tutto bene. Ma non possiamo sganciare una parola da tutto quello che richiama e dalla lotta per l’accezione rispettosa della nostra diversità, contro ogni riduzionismo.”
INVERNOMUTO
Simone Bertuzzi e Simone Trabucchi, in arte Invernomuto, sono un duo di artisti. Tra le altre cose hanno realizzato il video-saggio MALÙ – Lo stereotipo della Venere Nera in Italia . Il film esamina la costruzione dell’immagine del corpo femminile nero nella società italiana, dall’età coloniale al cinema Mondo degli anni Sessanta e Settanta, alle campagne pubblicitarie degli anni Ottanta, al caso Ruby.
“La rogna sono decenni di superficialità, stereotipi e ostruzionismo alla mescolanza delle culture. In MALÙ – Lo Stereotipo della Venere Nera in Italia abbiamo tentato di far emergere come decenni di storia non abbiano sostanzialmente cambiato il modo in cui il corpo femminile nero viene rappresentato e percepito, a partire dalla cosiddetta Venere Ottentotta di oltre un secolo fa. Non è un processo facile scrollarsi di dosso tutti questi decenni di melmazza qualunquista e discriminatoria, ma è più che necessario e urgente problematizzare parole e contesti.
Il fascismo giocò la carta della conquista del corpo femminile come prima arma di propaganda, e questo virus si è insinuato nell’immaginario collettivo e non ha mai lasciato questo paese: il mondo movies, la tv berlusconiana. Al centro del discorso sull’esotico c’è sempre una guerra sottile che ha come campo di battaglia il corpo femminile. Con MALÙ partivamo da un’analisi nel tentativo di smontare uno stereotipo.
Per noi, ‘pantera’ e ‘cioccolatino’ sono appellativi che indubbiamente celano una mentalità razzista, anche se inconsapevole. Ci viene in mente il personaggio di ‘O Principe, in Gomorra: frequenta Azmera, una ragazza nera, e tiene sul tetto di casa una pantera. Il personaggio stesso è molto curioso, intrappolato in un’impasse tra ostentazione del potere ed eccentricità. Lui continua a paragonare la ragazza alla pantera, lei continua a sottolineare quanto quel povero animale incatenato le faccia pena. La pantera viene portata in un deposito nascosto, O’ Principe viene ammazzato e non si capisce che fine faccia Azmera. Speriamo sia altrove, senza pantere e senza cioccolatini, a vivere una vita in pace e amore.”
FRANCESCA DE ROSA, 31 ANNI, RICERCATRICE E AUTRICE
Francesca è nata in Colombia e cresciuta in un piccolo paese della provincia di Caserta, ha un background in studi culturali ed è contributor di GRIOT.
“Sono cresciuta nella desolazione e nella complessità che solo l’hinterland del casertano sa offrire. Una casa che non sempre è stata ospitale, dove ho imparato presto a fare i conti con l’essere considerata altra, tra l’esotico e lo stereotipo. Il mio arrivo in Italia è coinciso con una forte ondata migratoria—principalmente nigeriana e ghanese—dal Nordafrica verso l’entroterra campano. In quel contesto, so che la linea del colore andava comunque a mio favore: non troppo nera ma neanche bianca, ero spesso alle prese con domande e fantasie legate alle mie origini.
Quando mi trovavo fuori dalla comfort zone della famiglia, ero vittima delle prese in giro dei compagni delle elementari, condite dai classici ‘marocchina, sporca, immigrata’; e già al liceo all’uscita da scuola gli uomini mi facevano offerte sessuali, mi invitavano a salire in macchina, chiedendomi quanto prendessi.
Sono cresciuta anche con i soliti vezzeggiativi ‘affettuosi’ come cioccolatino, la Negra, gli apprezzamenti da strada come l’immancabile panterona. Ma le parole non sono uno spazio neutro: anche quando nascoste nelle migliori delle intenzioni possono stabilire un potere e rappresentare una trappola. Sono il risultato di un passato coloniale con cui difficilmente l’Italia fa i conti, e anzi spesso ne rimuove la memoria. Dobbiamo esprimerci contro un linguaggio che evoca e impone i segni nascosti di superiorità razziale, di un’egemonia culturale: non c’è nulla di uguale nel dire a una donna nera ‘pantera’ e a una bianca ‘gattina’.”
EDWARD BUCHANAN, 47 ANNI, DESIGNER
Afroamericano trapiantato da Cleveland a Milano da più di vent’anni, dopo essere diventato a soli 24 anni designer director di Bottega Veneta, oggi Edward Buchanan è direttore del suo brand Sansovino6.
“Il problema è che queste parole vengono usate con affetto o per fare un complimento, ma di fatto sono parole stereotipate che di rimando vengono usate anche nei media italiani. E questo produce danni.
C’è sempre una storia dietro questi termini, una storia che molti non sono interessati a conoscere. Sin dalla schiavitù, le donne nere sono sempre state descritte come animali, sono sempre state feticizzate nella cultura mainstream—una sorta di fantasia sessuale selvaggia. Il corpo della donna nera da secoli viene oggettificato. E se questi stereotipi non vengono smantellati, questa narrativa continuerà all’infinito. E la pubblicità, in cui spesso il corpo nero è sinonimo di un afrodisiaco o peggio, dà immediatamente l’idea del permanere di atteggiamenti razzisti.
Ma non penso che in generale nemmeno l’uso di parole corrispondenti per bianchi [ come gattina o mozzarella] sia accettabile. Le trovo scorrette. E questa mia considerazione va oltre l’essere politically correct. L’unico modo per sconfiggere gli stereotipi è guardare alle persone come individui senza aggiungere quegli extra, altrimenti in questo paese continueremo a vedere la gente che lancia le banane ai politici.”
Johanne è la fondatrice di GRIOT. Segui GRIOT su Facebook e Instagram.