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Quella volta che Babbo Natale ha insegnato il consumismo ai marziani

Storia di un film cult che unisce robot di carta stagnola, buoni sentimenti e pessime morali.

Il Natale è da sempre quel magico periodo dell’anno in cui milioni di italiani si riuniscono davanti alla tv per santificare la ricorrenza di Mamma ho perso l’aereo, la moltiplicazione del Signore degli Anelli in sei serate, il miracolo dell’eterna giovinezza di Fantaghirò, ma soprattutto per festeggiare la vigilia con Una poltrona per due.

C'è però un film — mai arrivato in Italia ma disponibile per intero su YouTube — che meriterebbe di diritto l'ingresso nel canone cinematografico natalizio di tutti noi: Santa Claus Conquers the Martians. Questo capolavoro degli anni Sessanta mette insieme previsioni di colonialismi interplanetari, esportazione del consumismo natalizio e una vaga critica ai regimi comunisti.

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Considerato uno dei film più brutti al mondo da Harry Meved nel suo libro The Fifty Worst Films of All Time (1978), il lungometraggio del 1964 fonde fantascienza e buoni sentimenti, robot fatti di carta stagnola e una renna di nome Nixon, rappresentando di fatto una sorta di precedente storico per tutti gli special natalizi di serie sci-fi televisive come Doctor Who, The Twilight Zone, X-Files e quant’altro. Ma il miscuglio di alieni, alberi di Natale e storie strappalacrime nello spazio non è necessariamente un’idea fortunata — se avete mai visto lo Star Wars Holiday Special del 1978 saprete di cosa parlo — e Santa Claus Conquers the Martians rientra di certo tra gli esemplari veramente brutti del genere.

Ugualmente, a distanza di svariate decadi, offre uno spunto di riflessione affascinante.

I piccoli marziani non sono infelici perché non si divertono, sono infelici perché non hanno giocattoli con cui divertirsi

Verdi come il Grinch e credibili come gli Umpa Lumpa, i marziani si presentano come una società dalla struttura sociale estremamente rigida, che per mezzo di un’educazione ipnopedica, pasti in pillola e di una gestione del tempo militaresca, reprime il senso di libertà dell’infanzia e trasforma ogni marziano in un piccolo adulto fin dalla tenera età.

A questa repressione corrisponde però un crescente livello di distrazione nei giovani, che si incollano alla televisione terrestre, ipnotizzati dalle trasmissioni sul Natale. L’unica soluzione è alleggerire il peso del regime dalle spalle dei piccoli alieni. Così, un gruppo di temerari, guidati dal sovrano stesso del pianeta, parte per il Polo Nord, con l’intento di rapire Babbo Natale e concedere ai bambini del pianeta rosso la gioia di un giorno di festa.

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Una volta sulla Terra, però, confusi dai troppi fake Santa in cui si imbattono, i marziani sono costretti a chiedere aiuto a due dei bambini più fastidiosi della storia del cinema, grazie ai quali riescono a compiere la propria missione e tornare a casa con il simpatico vecchietto. Non tutti i marziani sono però felici di questa importazione culturale e la fabbrica di giocattoli viene sabotata dal duro e malvagio Voldar, personaggio caratterizzato da un paio di baffoni che rimandano inequivocabilmente all’iconografia di Stalin e, per estensione, alla minaccia del Comunismo — un tema già oggetto di metafore fantascientifiche in un altro film del decennio precedente: L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel.

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Dettaglio della locandina del film. Immagine via: IMDB

Ma il bene e il consumismo trionfano sempre nei film di Natale. Il lieto fine è servito dopo ottantuno estenuanti minuti — conditi da viaggi interplanetari senza basi scientifiche, finte scazzottate, product placement di mobili della Fritz Hansen (azienda di design danese tuttora in attività) non troppo abilmente integrati e il sospetto che il caro San Nicola abbia visto nel suo viaggio su Marte l’incipit di una colonizzazione dell’intero sistema solare per il suo franchise.

Un film che negli anni Sessanta porta Babbo Natale su Marte — per salvare un popolo rigido e incapace di divertirsi — reitera un tipo ben specifico di lieto fine, fondamentalmente materialista. L’iconografia di Babbo Natale per come lo conosciamo (grasso e vecchio) è simbolica dell'opulenza generata della rivoluzione industriale e manifatturiera — spiega Ressell W. Belk nel suo saggio del 1987 A Child's Christmas in America: Santa Claus as Deity, Consumption as Religion — e la lettera stessa che i bambini scrivono a Natale è una forma di introduzione alla cultura del consumo, perché è previsto che i bambini chiedano solo oggetti materiali.

I piccoli marziani non sono infelici perché non si divertono, sono infelici perché non hanno giocattoli con cui divertirsi, ci dice il film. E come è sempre accaduto nella storia del mondo, anche in Santa Claus Conquers the Martians, i colonizzatori non fanno altro che trasmettere al nuovo popolo una visione specifica, che in questo caso coincide con le consumistiche tradizioni del vecchio mondo.

Nonostante (o grazie a) la sua bruttezza — certificata dal fatto che questo è l’ultimo film a cui hanno lavorato il regista Nicholas Webster e gli sceneggiatori, Paul L. Jacobson e Glenville Mareth —, però, S anta Claus Conquers the Martians è un film che finisce per essere affascinante, che merita di essere visto (o almeno conosciuto) per il messaggio in pieno spirito natalizio che trasmette: l’insensata produzione e l’ossessivo consumo di beni inutili è la chiave della felicità nella nostra società.

Considerati i balzi in avanti compiuti nella ricerca aerospaziale da aziende come la SpaceX e come il turismo spaziale commerciale rappresenti già un grosso campo di investimento, forse, lo sarà anche quando vivremo davvero su Marte.