I canoni di bellezza imposti dalle norme sociali sono sempre stati il pilastro dell’insicurezza in ogni cultura.
Questa problematica tocca tutti, ma per una macro-categoria in particolare—le donne—storicamente si configura come discriminante da cui scaturiscono vere e proprie forme di oppressione: dalla discriminazione sul lavoro, lo svilimento dei loro traguardi, fino alle molestie sessuali derivanti dalla sistematica oggettivazione dei loro corpi.
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Tante donne odiano il proprio corpo, un problema sempre più evidente. In televisione e sui media è ancora preponderante uno specifico modello di donna, che contribuisce ad affermare lo standard della nostra epoca e della nostra società: bella, magra, truccata, sexy, giovane o ringiovanita dalla chirurgia.
Nei giornali, talk show o riviste, un elemento che non può mancare nella tua presentazione è il commento sul tuo aspetto—e non importa quale sia il lavoro che svolgi. Talvolta, come spesso (tristemente) accade, gli scatti rubati di queste donne in costume, anche minorenni, diventano notizia da prima pagina.
Molti sono gli studi che dimostrano come questo focus sui corpi, spesso oggettivati e ipersessualizzati, unita a questa pressione per la perfezione (aumentata con l’avvento dei social) abbia conseguenze sulla psiche: disturbi alimentari, bassa autostima e depressione sono solo alcune di queste.
È anche in questo contesto che sempre più spesso si inserisce il concetto di body positivity: un movimento originatosi nei gruppi della fat acceptance attivi negli anni Sessanta e Settanta e poi esteso a tutti i corpi non conformi, ma della cui rivoluzione culturale e sociale oggi si utilizzano soprattutto i concetti di self-love e accettazione di sé, resi celebri da messaggi come: “Cercare di conformarsi agli standard di bellezza imposti dalla società è dannoso. Ogni corpo è valido e bello così com’è.”
Mentre il movimento si propone di riconoscere tutti i corpi che si collocano al di fuori dei canoni attualmente accettati, infatti, la versione cavalcata dai brand e propagata dai social non riesce a chiarire le ragioni di fondo per cui così tante persone hanno relazioni difficili e violente con i loro corpi—e, nel frattempo, continua a escludere molti di quei corpi che avevano originato il movimento.
Rassicurare le donne sul fatto di essere “belle” e di essere tutte, a loro modo, un modello (reinventato) di bellezza è diventato un rito sociale. Alla donna che si dice “grassa” rispondiamo: “Ma va! Ma non sei grassa!” Come se cercassimo di convincere la persona che no, non ha questa caratteristica, questo difetto, questo peccato.
Talvolta aggiungiamo: “Ma sei bella!” in una dualità che pone, inconsciamente, da una parte le due caratteristiche—grassa e bella—in antitesi, come se l’ordine delle cose volesse che le due andassero in direzioni opposte e la presenza dell’una escludesse automaticamente quella dell’altra; dall’altra l’accento, ancora una volta, sul metro di giudizio universale dei corpi femminili: la bellezza.
Perché essere brutta è un’eresia, un crimine, una mancanza. La bellezza è requisito fondamentale che le donne devono possedere e se non sei bella, perlomeno bella ti devi sentire. Viviamo di questi automatismi, che altro non fanno che rafforzare le vecchie regole del gioco: cambia la prospettiva, ma non la vecchia mentalità che associa il valore degli esseri umani al concetto di bellezza.
Con il passare del tempo questa versione del movimento body positive è diventata un esempio lampante di mercificazione del femminismo. La locuzione si riferisce al modo in cui le ideologie e le cause femministe vengono appropriate da aziende per scopi di marketing, svuotate del loro significato politico e offerte al pubblico in una forma mercificata.
Questa strategia aziendale, che ha come unico scopo quello di vendere, sebbene illuda i consumatori di una qualche rivoluzione nel modo in cui vediamo i corpi delle donne, alla fine dei conti serve gli stessi standard di bellezza che afferma di voler combattere, spesso colorando di rosa pure quegli aspetti sociali storicamente oppressivi per le donne.
Che dire di una parte significativa del mondo della moda e della sua ipocrisia riguardo al tema? Di come donne taglia 44 vengano fatte passare per curvy, dopo aver minuziosamente ripulito con il pennello del Photoshop qualsiasi accenno di cellulite o smagliature? Di come i “difetti” siano diventati elementi fondamentali di qualsiasi brand si rispetti, non da sdoganare, ma da spettacolarizzare?
Un esempio lampante è quello dell’azienda Dove e la sua celebre campagna pubblicitaria “Real Beauty.” Iniziata nel 2004 con una mostra fotografica a Toronto, raffigurava “donne normali” e si poneva l’obiettivo di combattere i vecchi canoni di bellezza denunciando, tra le altre cose, l’abuso di Photoshop sulle immagini delle riviste.
Questa prima campagna è stata poi seguita da un’altra in cui comparivano donne dai fisici diversi (ma donne normopeso e abili sono davvero così diverse da quelle considerate accettabili nella realtà di tutti i giorni?), che indossavano slip e reggiseni bianchi e pubblicizzavano…una crema rassodante “testata su vere curve.”
Mentre il femminismo tenta di combattere l’oppressione strutturale contro le donne—in questo caso i canoni sociali e l’oggettivazione dei corpi—le aziende hanno interesse a mantenerla perché, in una società in cui nulla cambia in modo concreto, queste possono continuare a vendere i loro prodotti. La corsa al capitale è la forza trainante dietro ai tentativi degli inserzionisti di sfruttare le esperienze delle donne ai fini del marketing.
Anche volendo soffermarci sul buono di queste campagne e analizzando il messaggio (positivo) che vogliono mandare—“Sei più bella di quanto credi, non c’è ragione di avere insicurezze”—permane il fulcro del problema: ci si continua a concentrare sulla bellezza e a mantenerla come valore.
Queste formule semplicistiche delle dinamiche sociali sono molto comuni. Mi imbatto nello stesso meccanismo parlando di razzismo. Quando racconto le mie esperienze e muovo una critica contro comportamenti razzisti diffusi, mi ritrovo sempre di fronte quello che: “Io non vedo i colori, siamo tutti esseri umani e tutti meritiamo rispetto.” Un’interpretazione elementare della realtà che ci circonda, così nobile eppure così dannosa.
Spingere le persone a sentirsi belle a qualunque costo non cancella il fatto che debbano far fronte a una realtà che ricorda loro ogni giorno che non lo sono. Non aiuta—o meglio, potrà aiutarne qualcuna—ma per molte si configura come un’ulteriore imposizione: ti abbiamo dato la formula per sentirti meglio, se fallisci la colpa è tua.
Il problema è che alle donne viene ancora trasmesso il messaggio che senza il requisito di bellezza valgono meno. I nostri media sono ancora invasi da tipi di corpo e tonalità della pelle notevolmente omogenei, pubblicità su tecniche per bruciare i grassi, modi per nascondere macchie e imperfezioni e la possibilità sempre crescente di interventi di chirurgia estetica.
La verità è che gli standard di bellezza non sono mai stati così alti. È solo diventato un tabù ammetterlo. Capite bene che l’inclusività—intesa qui come rappresentazione—può essere un punto di partenza, ma non dev’essere percepita come il punto di arrivo. Espandere la gamma di chi può essere considerato bello non è sufficiente a combattere la discriminazione dei corpi non convenzionali.
Un affisso raffigurante una persona grassa non basta per combattere lo stigma, allo stesso modo in cui un cartellone in cui compare anche un uomo nero non basta a combattere il razzismo sistemico che noi persone nere subiamo, se non è accompagnato da un’analisi critica e radicale di queste dinamiche.
L’obbligo implicito di essere perennemente belle e “femminili” non abbandona mai le donne, che fin da piccolissime sono indottrinate verso la costante ricerca di validazione. Ed è questo che si deve cercare di combattere: non tanto il tipo di relazione che le donne individualmente dovrebbero avere con il loro corpo (dovrebbero essere ascoltate in tutte le loro realtà), quanto il valore sociale che si dà alla bellezza in relazione ai corpi umani.
Un valore che, direttamente o indirettamente, plasma anche il modo in cui percepiamo i nostri stessi corpi.
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