La pastaia egiziana che resiste alla gentrificazione milanese

Pastaia Isola Milano

“E da quanto sei in Italia?”
“Vent’anni, ma dieci li ho passati chiusa in casa, mio marito non mi lasciava uscire”

Nel 2007 Safaa è senza soldi e senza lavoro. Parla italiano ma è straniera. Ha trovato la forza di lasciare il marito, che si era rivelato possessivo e violento, ma vive nella paura delle sue vendette. Ha evitato per un soffio che il figlio venisse affidato ai servizi sociali. Lo Stato le dà sei mesi di tempo: per trovare un lavoro e mantenere il permesso di soggiorno. Allora lei cammina, per le strade di Milano, ogni giorno, e gira tutti i pastifici della città, col figlio di 3 anni in braccio, il curriculum stampato in mano. Entra, chiede: cercate qualcuno? Esce e passa al successivo.

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Adesso che mi racconta come ha superato questo momento buio provo a spiegarmi la fierezza che le ho sempre visto addosso, nei modi, nel tono della voce, tutte le volte che sono andata a comprare la pasta fresca nella sua bottega. Di solito prendo i passatelli o la pasta ripiena, se non sono già pronti li ordino, lei li prepara sul momento e me li fa trovare mezz’ora dopo, mi guarda negli occhi e mi dà istruzioni categoriche su come cucinarli. Fa così con tutti. Della sua storia mi aveva già affidato qualche stralcio, ben prima che avessi idea di scriverla.

“Di dove sono secondo te?” mi chiese una volta.
“Libano?” tirai a caso.
“Sbagliato: Egitto”
“E da quanto sei in Italia?”
“Vent’anni, ma dieci li ho passati chiusa in casa, mio marito non mi lasciava uscire”.

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Safaa nel suo negozio. Tutte le foto dell’autrice

Lo dice sorridendo e per darmi pace penso sia un sorriso di orgoglio, di rivendicazione. Insomma, finisce che la sua storia la ripercorriamo per intero una mattina di luglio, nel laboratorio dietro al negozio; lei cucina e io mi infilo nello spiraglio tra l’impastatrice e i fornelli.

“Vuoi la mia storia come donna o la mia storia come donna araba?” mi ha chiesto all’inizio. Nata e cresciuta al Cairo, negli anni Novanta lavora alla reception di un hotel di lusso, visto che parla bene inglese e francese. Poi si innamora e sposa un uomo egiziano che fa il pizzaiolo in Italia.

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Il negozio di Safaa a Isola

Lo raggiunge nel ‘97, hanno un figlio, ma dopo pochi anni il marito rivela ira, ignoranza, vendetta, sono le parole che usa lei. Trova infine la forza di lasciarlo e attraversa un periodo a guardarsi le spalle, e a nuotare tra le burocrazie: per tenersi il figlio, per proteggerlo dal marito, per poter restare in Italia. “Il primo pensiero fu di tornare in Egitto dalla mia famiglia, ma lì non mi sarei sentita sicura. Una volta andai a denunciarlo al commissariato del Cairo, avevo i lividi sulle braccia, mi chiesero: signora scusi, chi sta denunciando, suo marito? E non si vergogna? Queste cose vanno risolte in casa.”

Safaa

Nel pastificio, in questa mattina d’estate, non entra quasi nessuno, e noi andiamo avanti a parlare senza pause per qualche ora. È un negozio spoglio, con poca pasta in esposizione: Safaa la prepara giorno per giorno, e in gran parte su richiesta, perché sia sempre fresca e non ci siano avanzi. Affaccia su una strada trafficata del quartiere Isola, col tram che passa davanti e quando passa lascia la stanza in penombra.

Mi piaceva l’idea di imparare una cosa italiana come la pasta

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Mentre racconta, Safaa prepara gli gnocchi: schiaccia le patate e poi toglie la buccia rimasta, anche il più piccolo frammento di buccia lo vede e lo toglie. “Dovevo ricominciare tutto da capo”, “dovevo trovare il mio posto”, usa frasi così, di una che è consapevole di sé e anche di quello che è una buona narrazione. Ricomincia, mi dice, da un corso di formazione sulla pasta fresca, trovato per caso tra le proposte della regione Lombardia: “Mi piaceva l’idea di imparare una cosa italiana come la pasta”. Dopo quello, inizia il conto alla rovescia per trovare lavoro in 6 mesi, la sua ricerca forsennata, porta a porta, per i pastifici di Milano. Per mantenersi improvvisa un catering marocchino a base di cous cous che diventa popolare tra le famiglie della scuola di suo figlio. La ricerca finisce bene: viene assunta in uno storico pastificio di via Canonica, dove lavora per sei anni.

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Un posto che le ha insegnato tutto, ma non vuole dirmi il nome: “È concorrenza”. “Lavoravo come dipendente ma ragionavo come imprenditrice, immaginando un domani di aprire il mio pastificio. Non eseguivo, decidevo.” Parla di quegli anni con un misto di gratitudine e risentimento, che forse è quello che si prova sempre verso i propri maestri, quando si decide di abbandonarli, che la forza di abbandonarli. Nel 2013 apre il suo pastificio, quello dove ci troviamo.

A guardarla oggi sembra che non potesse finire che a fare l’imprenditrice, ma credo che dieci anni fa questo richiedesse un maggiore sforzo di immaginazione. Ha provato ad avere un socio, ma non ha funzionato. Ha provato a prendere dipendenti, ma ha rinunciato: “Non avevano manualità, non avevano passione, volevano solo lo stipendio”. Quindi fa tutto da sola alternandosi tra laboratorio e negozio, facendo tardi la sera, se serve, a preparare la pasta per il giorno dopo: “Ad esempio se devo fare il ripieno di carciofi”. Dice “La mia vita è solo lavoro” e le credo.

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“Il suo negozio sopravvive, da sei anni, a pochi metri da due piccoli supermercati, in un quartiere dove le botteghe non smettono di chiudere per fare posto all’ennesima hamburgeria”

L’impasto per i cappelletti si fa con farina e uova, poi si aggiunge l’acqua fino a ottenere l’elasticità giusta, è tutta una questione di sensibilità perché la quantità d’acqua cambia con le stagioni, con le condizioni generali di umidità. Safaa risolve questa e altre mie lacune, ad esempio su come si distinguono i diversi tagli di pasta fresca: le tagliatelle classiche sono larghe un centimetro, le fettuccine o mezzanelle 7,5 millimetri, i tagliolini 2,5 millimetri. Le pappardelle sono le più larghe, circa due centimetri, e vanno fatte sul momento perché così larghe sono delicate, si spezzano facilmente.

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Per pranzo facciamo bollire qualche minuto i cappelletti con ripieno di asparagi che ha preparato la mattina e li mangiamo in laboratorio, improvvisando un’apparecchiatura su uno dei banchi di lavoro. Le capita spesso di pranzare qui. “Credo di aver superato il punto di confusione tra due culture” mi dice “sono musulmana, non ho rinunciato alla mia identità araba, ma mi sento anche italiana, non sono qua per restare ai margini, voglio sentirmi parte di questa cultura.”

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Parliamo del Decreto Sicurezza dell’attuale Governo (decreto legge 4 ottobre 2018 n.113), che ha portato da 2 a 4 anni i tempi per ottenere la cittadinanza. Parliamo di suo figlio, 15 anni, nato e cresciuto in Italia, che per essere italiano deve ancora aspettare. Sconfiniamo nella cultura pop: “mi piace molto Morgan, perché è libero, spontaneo, si vede che è impastato con la musica” e poi “anche Manuel Agnelli è bravo, ma è più trattenuto, impostato, troppo milanese”. Mi parla delle sue abitudini alimentari: “Non bevo alcol, caffè o tè, non ne ho bisogno.Faccio colazione con una centrifuga di prezzemolo o di sedano”. Sulla parete del laboratorio è appesa una scritta in arabo “è un verso del Corano, dice: chi ha la pazienza di fare il passaggio terreno, avrà la ricompensa di Dio.” Per lei, mi spiega, il passaggio terreno è fare il lavoro come si deve, cercare la precisione.

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Safaa è ormai la pastaia dell’Isola. Non gliel’ho detto, ma nella mia testa le ho già affidato un’altra missione, un altro fardello sulla sua vita complicata: far vivere un barlume di autenticità nel quartiere dove io e lei ci siamo trovate a vivere. Il suo negozio sopravvive, da sei anni, a pochi metri da due piccoli supermercati, in un quartiere dove le botteghe non smettono di chiudere per fare posto all’ennesima hamburgeria pensata e progettata con lo stampo delle tendenze di mercato, da qualcuno che dentro a quel locale non ci lavora e a cui non puoi domandare cose come la larghezza esatta di un tagliolino.

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Lei resiste, con l’accento arabo e il piglio intransigente, il volto bellissimo: severo e malinconico a seconda di come ci batte la luce. Da sola ha fatto di tutto e da sola può salvare almeno la sua strada dall’omologazione, ritagliarci dentro un po’ di varietà. Come dice lei: “Dobbiamo essere vari. Variare aiuta la creazione, rende la vita larga, quanto più larga è la tua ampiezza di vedute.”

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