In vita mia ho scritto talmente tante volte di Paul McCartney che la cosa è diventata una specie di barzelletta presso i soliti conoscenti svegli, quelli insomma che quando ci parli ti viene da tirare fuori il celebre aforisma “co’ ‘sti amici a che me servono i nemici” (la dico in romano perché l’ho imparato così, e perché lo stesso concetto romano di “amicizia” aderisce in maniera pressoché perfetta all’aforisma di cui sopra). Già me li immagino, questi bo-bo (borgata-bohemien) della domenica, mentre commentano l’articolo che state leggendo: “Ma dai Valerio, un altro articolo su Paul McCartney? E il prossimo su che lo fai, sul Pigneto?”. Ah. Ah. Ah. Quante risate.
Stavolta però dovete concedermelo: non potevo esimermi dal commentare quella che per qualsiasi serio appassionato del Macca non può definirsi altro che notizia-shock. E cioè: Paul McCartney dice addio alla marijuana. La rivelazione arriva da un’intervista concessa da Paul al Daily Mirror: basta con l’erba, ormai c’ho un’età. “Embè?”, direte voi. “Un miliardario ultrasettantenne smette di farsi le canne: dove sta la notizia?”. Allora cari lettori, lasciate che vi spieghi: nella biografia di McCartney, è un evento che rischia di avere più ripercussioni dello scioglimento dei Beatles, o della morte di Lennon, o della scomparsa di sua moglie Linda, o delle cenette (rigorosamente vegetariane) coi nuovi amichetti Rihanna e Kanye West.
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Non sto scherzando: io alla storia che Paul sia morto nel 1966 e che sia stato sostituito da un sosia, non ci ho mai creduto (se così fosse, il Paul-sosia sarebbe comunque molto meglio del Paul-originale); ma se davvero ha smesso con l’erba, è veramente il caso di dirlo: prepariamoci a fare i conti con un’altra persona. Nell’intervista al Daily Mirror, McCartney spiega la decisione così: “ne ho fumata talmente tanta che adesso anche basta”. E dici poco! Queste mica sono scelte facili. Perché insomma, per l’uomo che nella sua carriera è riuscito a scrivere tanto inni satanici come “Helter Skelter” quanto le canzoni per l’orsetto Rupert, l’erba è sempre stata una missione, o anche una una religione, o anche un’ossessione, oltre che (suppongo) una dipendenza.
Una delle prime canzoni dedicate da Paul all’erba, “Got to Get You Into My Life” del 1966Al patologico chiodo fisso per la cannabis, sono legati anche i più eclatanti fatti di cronaca con protagonista Paul. Il più famoso tra questi resta l’arresto in Giappone nel 1980, quando all’aeroporto di Tokyo venne beccato con 219 grammi di fresca e profumata maria. Paul ce la mise tutte a convincere gli ufficiali della dogana che quegli innocui duecentodiciannove grammi erano la sua dose personale per una settimana di tour nel paese del Sol Levante, ma quelli ohibò, non gli credettero e lo sbatterono diritto in galera. Dieci giorni di carcere e poi addio, i conti li facciamo la prossima volta (per questo motivo Paul non è più potuto tornare in Giappone fino a tempi recenti).
Ma già negli anni Settanta c’erano state diverse controversie tra McCartney e la legge britannica, specie quando dei solerti poliziotti al servizio della Regina scoprirono che Paul aveva trasformato la sua fattoria in Scozia in una plateale piantagione a cielo aperto, e hai voglia a spiegare che “ma no, quale droga, sono spezie che usa Linda in cucina”: i poliziotti in genere non sono persone che brillano per ingegno, ma insomma, mica sono così stupidi. Chi Paul l’ha conosciuto bene, testimonia come l’ex-leader dei Beatles fosse noto (o meglio famigerato) per delle maratone di marijuana talmente intense da stendere il più hardcore dei rasta giamaicani: dopotutto, che sia sempre stato un fan del reggae non credo che sia un caso, no?
Le meno agiografiche tra le sue biografie sono zeppe di aneddoti in cui il nostro se ne sta totalmente rincoglionito a strimpellare la chitarra circondato da fumi irrespirabili e posaceneri stragonfi. I tre quarti di quelle strimpellate sono poi diventate le canzoni che hanno riempito i suoi dischi per quarant’anni buoni, e il punto è proprio questo: perché credetemi, non starei qui a parlare di Paul che si fa le canne se la marijuana non avesse esercitato sulla sua musica un’influenza che dire incalcolabile è poco. Ma ne parliamo poi, promesso.
La famiglia McCartney: Paul, Linda, bimba + joint. Bella l’espressione di lui.
Intanto un po’ di storia: narra la leggenda che la passione di McCartney per lo spinello risalga al 1964, quando a introdurlo ai paradisi dell’erba fu sua maestà Bob Dylan. Ne nacque una love story che—almeno fino alle ultime dichiarazioni—non ha conosciuto un attimo di cedimento. Come sappiamo, nella sua vita McCartney di droghe ne ha provate tante—dalle anfetamine dei primi giorni coi Beatles all’LSD della sua svolta lisergica, all’eroina che però “non mi è paciuta”—ma niente è riuscito a reggere il paragone con quelle piantine che poteva pure coltivarsi in casa. Era una passione condivisa anche da quella che per tutti noi mccartneyani autentici resterà l’unica, vera compagna di Paul, la compianta Linda sposata nel 1969 e morta nel 1998. Stando alle testimonianze, i due ci davano veramente dentro, e sono particolarmente illuminanti i ritratti che della coppia forniscono i soliti bene informati, specie nel periodo immediatamente successivo allo scioglimento dei Beatles (i quali, lo ricordo per i pochi che non lo sapessero, cessano ufficialmente le attività nel 1970).
In poche parole: nel 1969, Paul e Linda prendono e si trasferiscono in una fattoria in Scozia lontano da tutto e tutti. Cioè, più che una fattoria è un tugurio in mattoni e lamiera che ci piove dentro, una catapecchia che si regge in piedi per miracolo, insomma una baracca. Se a questo punto vi state chiedendo “con tutti i soldi che c’avevano, perché non si sono fatti un appartamento al Dakota come John Lennon?”, sappiate che non è questo il punto. Paul e Linda sono nel pieno della loro fase freakabbestia: si lavano poco, scopano un sacco, allevano indifferentemente bimbi, cavalli e capre, diventano vegetariani, canticchiano davanti al falò, e nei momenti liberi se ne stanno strafatti sul divano, oppure si danno al giardinaggio, a coltivare sappiamo bene cosa.
Sono gli stessi mesi in cui Paul incide il suo primo disco solista, chiamato semplicemente McCartney e uscito proprio nel 1970. Lo registra da solo in casa, suonando tutti gli strumenti con qualche saltuario aiutino della solita Linda, e il risultato lascerà a dir poco interdetti critici e fan. Rintronato dalle canne, abbandonato a se stesso e senza rompipalle di mezzo (insomma senza gli altri Beatles a mettere bocca), Paul sprofonda beatamente in una nube tossica e mezza scema, i cui effetti si traducono in una quantità di canzoni che solo definire tali è un esercizio di buona volontà. Sono semmai moncherini istupiditi, registrati in uno spartano lo-fi campagnolo e palesemente frutto di una mente obnubilata, tanto che un altro habitué dei paradisi artificiali come Claudio Rocchi prenderà l’ultimo brano dell’album, lo manderà al contrario, e lo piazzerà ad apertura del suo primo disco solista. Ma questa è un’altra storia.
McCartney insomma non è solo l’esordio del Macca post-beatlesiano; è principalmente il suo manifesto sulle gioie della vita in famiglia, che tradotto significa sfondarsi di canne in una topaia di campagna, farsi crescere la barba, e poi ancora sfondarsi di canne, pomiciare con le pecorelle (alle pecore McCartney non ha dedicato tante canzoni d’amore come a Linda, ma ci andiamo pericolosamente vicini), di nuovo sfondarsi di canne, ingurgitare una fetta di space cake dopo l’altra, e infine sfondarsi di canne, sfondarsi di canne, e sfondarsi di canne. Intanto, l’ex amico del cuore Lennon sta in America a blaterare idiozie sul Vietnam e sull’arte d’avanguardia: proprio lui, quello che in “Revolution” avvertiva i sessantottini di “non contare su di noi!” Quello per il quale “avantgarde is the French word for shit”! Ma vabè, passiamo oltre.
Un estratto “da McCartney”, del 1970. Più che i Beatles ricorda gli Half Japanese.Venendo a McCartney: se il disco suona mezzo scemo, allegrotto e tutto storto, è perché evidentemente sono questi gli effetti che la marijuana produce su Paul come persona, e di riflesso sulla sua musica. Capiamoci: il disco è un capolavoro, anche se ci vorranno trent’anni prima che la gente lo capisca; verrà in effetti “riscoperto” solo dalla generazione indie anni 2000, e di colpo quello che sembrava l’aborto di uno scoppiato finito a fare l’eremita in Scozia si trasformerà in uno dei titoli più hip di sempre (per tornare al paragone con Lennon: inutile dire che nel frattempo robaccia tipo “Imagine” è finita nel cassonetto dei ricordi imbarazzanti, ma di nuovo, non infieriamo).
Nessun altro disco firmato da Paul nei Settanta—quando metterà su il gruppo-fantoccio Wings—riesce a tenere testa alla demenza stonata di McCartney, anche se ogni album da lui prodotto in quel decennio contiene almeno un paio di brani (ahem) marijuana-inspired. Ram del 1971 è per esempio un altro capolavoro di campagna zeppo di brani che profumano di skunk, Wild Life non ne parliamo, Red Rose Speedway c’ha altre cose stranissime tipo “Loup” e quella baldanzosa marcetta iniziale che è “Big Barn Bed“, e su Wings at the Speed of Sound robe come “Let Em” In può averle scritto solo un tizio mezzo addormentato dopo un’intossicazione da THC. E poi ci sono reggaettini cretini tipo C Moon e Seaside Woman: insomma, la casistica è ampia.
Molti di questi brani vennero accolti dalla critica dell’epoca come imperdonabili scivoloni nell’easy listening più kitsch, o nel peggiore dei casi come incomprensibile monnezza partorita a getto continuo dallo stesso tizio che nel 1965 aveva scritto “Yesterday”. La domanda ricorrente in effetti era: “Com’è possibile che Paul si sia ridotto così? Come può credere questo signore che inventò il Sgt Pepper, che praticamente da solo architettò la suite di Abbey Road, che nel 1966 faceva esperimenti di musica elettronica e si ascoltava Stockhausen, che un ascoltatore possa perdere tempo appresso a canzoncine idiote di due minuti che sembrano suonate dalla banda di un asilo nido?”. La risposta a questo punto dovreste conoscerla.
“Ram On” del 1971: inutile che stia a ricordarvi l’indissolubile legame tra ukulele, effetto-eco e canne.Forse è una fissazione mia, ma sono convinto che questi ameni quadretti di frivolo disimpegno beone, non possano essere compresi se non figurandosi il bel Paul che con la barba incolta se ne sta sul divano infestato dalle pulci, a strafarsi di erba assieme all’inseparabile Linda, con l’ukulele sempre a portata di mano e i bimbi che giocano con le caprette in giardino. Siamo onesti: solo uno completamente rimbambito dalla troppa erba può partorire scempiaggini tipo “Cook of the House” e pensare che siano pubblicabili. Non è che Paul ha una soglia della decenza bassa, è che proprio non ce l’ha; sapete com’è, no? La marijuana abbassa le inibizioni ecc ecc. E lui se ne sta lì, sfatto all’ultimo stadio, col sorrisino ebete mentre in piena fame tossica addenta la crostata cucinata da Linda, e pensa: “Ah, che simpatica questa canzone! Adesso ci faccio un disco”. Assomiglia un po’ a quell’amico fuorisede che si fa mandare la White Widow dall’Olanda, e che quando vai a trovarlo ti obbliga a sentire le sigle dei cartoni animati pensando che siano fiche. E tu stai lì a spiegargli che no, in realtà non si possono sentire, ma poi l’amico la White Widow te la fa assaggiare e tu vieni colto dall’illuminazione e va a finire che te ne esci tipo “Cristoddio, ma che ficata è questo pezzo? Come si chiama? “L’incantevole Creamy”? Rimettila da capo, subito!”
A questo punto tocca citare l’altro magnum opus mccartneyiano sull’erba (che è poi l’opus magnum mccartneyiano tout-court), e cioè McCartney II del 1980. Sin dal titolo, il disco viene presentato come il seguito del McCartney uscito dieci anni prima: come quello, Paul lo registra da solo in casa, sempre col solito codazzo di pecorelle in giardino, bimbi smocciolanti che giocherellano con gli strumenti, e una quantità di marijuana tale che se non fosse un baronetto starebbe dentro per spaccio internazionale a vita (in effetti, McCartney II è anche l’album che riflette sulla sua fresca esperienza nelle galere giapponesi: lo strumentale “Frozen Jap” è un riferimento esplicito).
Uno dei reggae più demenziali mai incisi da Paul, la residentsiana “Check My Machine” dalle session di “McCartney II”, 1980.A differenza del suo antecedente del 1970, alle chitarre acustiche e ai fustini del detersivo usati come tamburi, McCartney II sostituisce le algide tastiere elettroniche e le drum machine della contemporanea new wave: ne viene fuori uno stortissimo capolavoro apocrifo post-punk, che non sfigurerebbe nella discografia di gruppi tipo i Residents. È anche un disco su cui ho scritto talmente tanto che non so più cos’altro aggiungere: il mio primo articolo a riguardo è di dodici anni fa, e all’epoca “Temporary Secretary” (un brano il cui testo parla di un datore di lavoro in disperata ricerca di una segretaria: il livello è questo, avete capito bene) era una perla esotica che immancabilmente riusciva a sorprendere chi McCartney l’ha sempre identificato con “Michelle”. Adesso, è un pezzo che conoscono veramente tutti ed è diventato un classico dell’indie-hip anni 2000. Detto tra noi: gente tipo Ariel Pink a questo disco deve praticamente tutto.
Gli anni Ottanta sono considerati non a torto il periodo creativamente più basso di McCartney, anche se un disco come Press To Play del 1986 è pieno di sbandate inspiegabili; alla sua uscita fu letteralmente demolito dalla critica, e tuttora c’è chi lo considera il suo peggiore in assoluto (vista la media con cui la critica ha sempre accolto le uscite di McCartney, capite che è quasi un record): è quindi assai probabile che sarà il prossimo titolo mccartneyano a essere riabilitato.
Uno dei pezzi più indecifrabili della discografia di Paul, il falsetto synth-dub di “Good Times Coming”, da “Press To Play” del 1986. Immaginatevi come si è divertito ad ascoltarlo in cuffia con tutti quegli echi, i reverse e gli effetti panpot. Ovviamente poi il brano va a finire in vacca con lui che cazzeggia perché gli prende beneDai Novanta in poi, Paul è tornato su livelli mediamente accettabili, nel senso che ha più o meno fatto pace con la critica. Nel frattempo non si è fatto mancare alcune bizzarre incursioni nel campo dell’elettronica, della house, della musica contemporanea, nella classica-sinfonica, insomma: tutto quello che gli passava per la testa mentre con una canna in mano si dilettava nella sua altra passione, la pittura. A proposito: adesso fatevi un bel tiro e ditemi se un quadro come questo non avrebbe potuto farlo lo stesso amico fuorisede di cui prima:
Nell’intervista al Daily Mirror, Paul confessa comunque di aver smesso una prima volta con la cannabis nel 2002, quando la sua nuova moglie Heather Mills gli intimò un perentorio: “o me o le canne” (parole di Paul, giuro). La Mills è sempre stata invisa ai mccartneyiani DOC, quelli per i quali “dopo Linda il nulla”, e certo ricatti del genere non depongono a suo favore. Suvvia, è come chiedere a uno dei più grandi musicisti del Novecento (dai, fatemelo dire) di rimanere a secco di carburante.
In ogni caso, la perfida Heather non ci è riuscita: Paul ha continuato bellamente a stonarsi e i due hanno divorziato nel 2006. Si è risposato nel 2011 con questa Nancy Shevell che mi sembra abbastanza ok, e adesso fa i pezzi con Kanye e Rihanna, suona “Temporary Secretary” dal vivo (una cosa che dal popolo indie è stata salutata come l’evento dell’anno: riuscite a crederci?), e intanto fa il nonno. Ha smesso con la marijuana, il che significa sul serio “fine di un’epoca”. E io davvero non so come altro chiudere se non invitandovi, la prossima volta che date un tiro d’erba, di piazzarvi sul divano e mettere sul piatto una delizia al profumo della cara vecchia Acapulco Gold come “Singalong Junk”. Funziona meglio del disco dei Boards Of Canada che sentite di solito, credetemi. Cioè, quasi, dai.
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