“Pensavo di essere stupida” – La vita segreta delle donne con l’ADHD

Ottobre è il mese per la consapevolezza sull’ADHD. Per l’occasione abbiamo tradotto e pubblicato, in forma leggermente editata, l’articolo scritto da Maria Yagoda, collaboratrice di Broadly affetta da ADHD.

Ricordo che durante il viaggio decisamente poco confortevole verso il Better Together Festival del 2016 ero seduta di fianco a Courtney, una donna che mi dava l’impressione di “avere il controllo”. Aveva gli occhi vigili, una risata esuberante e dei capelli biondissimi, di quelli che avrei fatto qualunque cosa per avere. A 27 anni era tutto quello che non mi sentivo io: una donna allegra che non piange in bagno. Dopo due minuti di chiacchiere, ho scoperto che la realtà era un po’ diversa. A Courtney era stato diagnosticato il disturbo ossessivo compulsivo alle medie, seguito da ansia e depressione al liceo, e l’ADHD [ sindrome da deficit di attenzione e iperattività] solo cinque mesi prima del Festival. A quel punto si chiedeva se l’OCD fosse stata un errore diagnostico, poiché molti rituali che metteva in atto erano più che altro legati alla necessità di navigare nel caos dell’ADHD.

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“Se mi avessero dato questa diagnosi all’università, se l’avessi saputo, sarebbe stato tutto diverso. Nel primo semestre mi hanno bocciata a un corso, e la cosa mi ha completamente distrutto l’autostima,” mi ha raccontato Courtney. “Pensavo di essere stupida. Non capivo niente. Leggevo la stessa pagina dieci volte e non mi restava niente in testa. Mi sembrava proprio che mancasse qualcosa. Mi dicevano, ‘Devi studiare di più!’ ma ero quella che studiava più di tutti.”

Ecco perché per milioni di donne è così difficile farsi diagnosticare l’ADHD—sempre che ci riescano. Non solo l’ADHD può somigliare alla depressione, all’OCD o al disturbo d’ansia (e viceversa), ma terapeuti, genitori ed educatori non sembrano riuscire nemmeno a immaginare che una ragazza di buone maniere—per non parlare di una donna di successo—possa lottare con una condizione di solito associata ai maschi iperattivi.

Il Better Together Festival consisteva in un giorno dedicato alle donne con l’ADD [ sindrome da deficit di attenzione] su iniziativa della psicologa Michelle Frank e della psicoterapeuta Sari Solden, pioniera dell’idea che donne adulte come me e Courtney, e migliaia di altre, possano avere qualcosa in comune con i ragazzini iperattivi. Non era tanto una conferenza, quanto un incontro, ed era stata costruita con le migliori premesse possibili per donne che tra i loro timori principali annoverano il non conoscere nessuno e dover stare sedute ferme per dieci ore.

Dal palco, Solden si è rivolta al centinaio di donne d’età compresa tra i 20 e i 70 anni, e qualche uomo, tutti seduti a tavoli bianchi e tondi. Solden sorrideva ed emanava un’energia calda, incoraggiante, mentre parlava delle “ferite che le donne portano con sé.” Il fatto che non dovessi continuamente cercare di nascondere la mia condizione, e che fossi libera di pasticciare un foglio o mangiarmi le unghie, era un grande sollievo. Quando ho detto agli altri al mio tavolo che non vedevo bene perché avevo perso il secondo paio d’occhiali in una settimana, mi hanno fatto cenni di comprensione e incoraggiamento.

Una delle grandi scoperte della scienza anni Novanta, passata largamente in sordina, è che anche gli adulti possono avere l’ADHD. In rapida successione, sono arrivati molti corollari a quella scoperta: anche se non sei più iperattivo, puoi continuare a vivere difficoltà. Per la diagnosi dell’ADD non è necessaria l’iperattività. È stata Solden, nel 1993, a iniziare a mettere insieme i pezzi con il libro You Mean I’m Not Lazy, Stupid or Crazy?! , per poi continuare nel 1995 con Women with Attention Deficit Disorder.

“Molti miei pazienti hanno problemi di disorganizzazione, ma sono le donne a vergognarsene di più,” mi ha detto Solden. “Abbiamo quindi cominciato a prendere in esame le differenze di genere—non tanto per come si manifestano, ma per come le donne le affrontano, a causa degli stereotipi sessuali. La nostra era una prospettiva femminista. Ci chiedevamo: cosa succede alle donne che non rispondono a queste aspettative?”

Aspettative che includono: ricordarsi di preparare la cena, ricordarsi che i bambini devono aver fatto i compiti, togliere i panni dalla lavatrice prima che passi una settimana, etc. Molte donne si sentono in difetto quando non riescono a stare dietro a queste cose. Ma ai tempi in cui Solden aveva scritto il libro, in pochi pensavano che quelle stesse donne (o le donne in generale) potessero avere l’ADHD.

Se è vero che oggi il fatto che anche le donne possano soffrire di questa condizione è comunemente accettato, la vergogna non diminuisce di conseguenza. Le donne continuano a sentirsi frustrate e fraintese.

“Alla fine, se fosse solo ADD, non sarebbe un problema,” ha detto Solden. “Ma molte donne—dato che non è stata loro diagnosticata l’ADHD da piccole poiché non erano iperattive, né lente—hanno dovuto affrontare un sacco di vergogna. Sono spesso forti, creative e intelligenti, ma hanno difficoltà che nessuno capisce, incluse loro.”

Terry Matlen, assistente sociale e psicoterapeuta a cui è stata diagnosticata l’ADHD a cinquant’anni, mi ha detto che il senso di disperazione e vulnerabilità possono continuare a lungo. “Molte mi hanno fatto capire il loro dolore,” mi ha detto Matlen. “La cosa che mi rattrista di più è che spesso queste donne hanno diagnosi di depressione, ansia, e altre patologie. Curate per quelle, non migliorano.”

“Ho due lauree—come è possibile, se non sono nemmeno in grado di arrivare al fruttivendolo all’angolo?” ha continuato Matlen. “Anche cose che sembrano molto semplici, come ricordarmi di consegnare a scuola i documenti dei miei figli, non riesco a farle. Non sempre gli altri mi capiscono.”

Nel 2013, uno studio dei Centers for Disease Control and Prevention ha sottolineato che 6,4 milioni di bambini americani tra i 4 e i 17 anni hanno ricevuto cure per l’ADHD, con un incremento del 16 percento rispetto al 2007. Ovviamente questo ha destato molte preoccupazioni e reazioni, tra cui l’idea, diffusa tra i media, che le diagnosi siano troppe e non sempre realistiche. I primi studi clinici degli anni Settanta prendevano in esame soprattutto bambini maschi iperattivi, rendendo abbastanza complesso applicare gli stessi parametri alle ragazzine, e alle donne. Anche quelle che riescono a farsi diagnosticare correttamente, non sempre riescono a fuggire l’imbarazzo di avere un problema che non somiglia per niente all’idea che ne hanno le persone. Devi sempre dare spiegazioni, o nasconderti.

I sintomi dell’ADHD possono manifestarsi più tardi nelle ragazze che nei ragazzi, e possono anche essere diversi: non tanto correre in giro per la classe lanciando biglie, quanto avere un esaurimento sopra la cesta della biancheria dopo averci perso dentro un passaporto. Secondo uno studio del 2005 pubblicato sul Journal of Clinical Psychology i sintomi dell’ADHD sono meno evidenti nelle bambine, e meno distruttivi, e questo ovviamente inficia le possibilità di diagnosi precoce. Non senza conseguenze: secondo la American Psychological Association, le ragazze con l’ADHD hanno due-tre volte più possibilità di tentare il suicidio o farsi del male rispetto a quelle che non ce l’hanno.

Le donne con l’ADHD tendono a rimproverarsi costantemente. Poiché spesso la diagnosi avviene quando sono già adulte, hanno preso intanto l’abitudine di attribuirsi colpe per la loro incapacità di “tenere le fila di tutto” come le loro madri, figlie, amiche.

Ad Annie Marie Nantais è stata diagnosticata l’ADHD cinque anni fa, quando ne aveva 40. Adorava fare la maestra elementare, ed era molto brava. Insegnare l’aveva tenuta concentrata su qualcosa per 19 anni, ma era sempre più difficile per lei stare dietro al lavoro. “L’ADHD lasciata a se stessa, con tutti i documenti che dovevo tenere sotto controllo, e il mio ruolo all’interno di un team così efficiente… stava diventando tutto troppo,” ha raccontato.

Nantais ha continuato a sentirsi insufficiente e a cercare di nascondere la diagnosi ai colleghi anche dopo la diagnosi. Succede a molte donne nella sua condizione: nascondere i sintomi in tutti i modi, mettere su una “maschera competente”. “Magari cercano spasmodicamente di controllare il loro comportamento, di mantenere una facciata ‘appropriata’,” diceva la dottoressa Ellen Littman in un saggio del 2012. “Se questo è funzionale sul breve termine, il prezzo è altissimo: alla ricerca di una perfezione che reputano necessaria, vivono un’ansia e una sensazione di esaurimento costanti. Poiché lottano per ottenere quello che ad altre donne viene naturale, si sentono anche delle impostore, e temono di poter essere scoperte in ogni momento.”

I farmaci alleviavano i sintomi di Nantais, ma non la vergogna. “Non sapendo nulla dell’ADHD, ero ancora legata ai ‘se solo’,” racconta Nantais. “‘Se solo’ mi impegnassi di più, ‘se solo’ riuscissi a organizzare, allora sì che sconfiggerei l’ADHD.”

Una cosa che molte donne scoprono proprio con la diagnosi è che non sono stupide o inutili. Ora, invece che faticare inutilmente per mantenere una “maschera competente,” Nantais si permette di adattare a sé l’ambiente che la circonda.

Anche Sarah, insegnante di yoga 26enne e impiegata, ha messo in opera la stessa tecnica. Dopo che al primo anno di liceo le è stata diagnosticata l’ADHD, fortunatamente molto in anticipo rispetto alla media, è stata sottoposta a qualsiasi trattamento farmacologico: Ritalin, antidepressivi. Ora non prende niente. Per molte donne, inclusa me, i farmaci sono un punto di non ritorno sia in positivo che in negativo. Per Sarah, ci sono molti elementi di disturbo in un ambiente lavorativo. È stato lo yoga ad aiutarla a trovare la sua dimensione.

“La meditazione ti permette di diventare osservatore di quello che ti succede,” dice. “‘Oh, questo bel colore mi distrae dal report che il mio capo vuole entro fine giornata.’ Ok, sei distratta, ma è un bel colore, quindi goditelo. Forse non sono proprio la persona più adatta a una corporate, ma per fortuna le persone intorno a me sono flessibili.”

L’esperienza di Sarah non è così comune. Una donna mi ha detto di aver dovuto calmare una cliente imbufalita per qualche minuto di ritardo. “Ho dovuto spiegarle che non era colpa sua, ma mia,” ha detto. Quando ho perso la carta di credito aziendale, la mia, le chiavi dell’ufficio e le mie chiavi—tutto in due settimane—il mio capo non ha capito e si è imbufalito. Anche io non capivo, è difficile adattarsi. Ora, lavoro il triplo degli altri per non far notare che sono più lenta e meno efficiente. Spesso questo mi fa sentire stupida.

Ma “stupida”, in questo ambito, non vuol dire niente.

Questo articolo è tratto da Broadly.