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Perché le persone più incompetenti si credono migliori degli altri

Dalla sua pubblicazione nel 1999 sul Journal of Personality and Social Psychology, lo studio di David Dunning e Justin Kruger della Cornell University torna a riproporsi ciclicamente sui media, dimenticato e regolarmente riscoperto in concomitanza di eventi di attualità in cui si fa sfoggio di incompetenza — ovviamente, ogni riferimento alle recenti nomine politiche è puramente casuale. In quindici anni, “l’effetto Dunning-Kruger,” ormai diventato un cult, ha guadagnato il suo posto nella Hall of Fame della psicologia, occupando un posto che si trova da qualche parte a metà strada tra l’esperimento di Milgram e la legge di Murphy. Dietro al suo titolo un po’ caustico —  Unskilled and Unaware of It: How Difficulties in Recognizing One’s Own Incompetence Lead to Inflated Self-Assessments — lo studio presenta, con un fine umorismo, una serie di risultati interessanti riassumibili nel seguente modo: ebbene sì, di solito i più incompetenti sono quelli che hanno la più alta opinione delle loro capacità.

Per stabilire questi risultati, Dunning e Kruger hanno testato quattro gruppi di volontari in merito a competenze differenti come l’umorismo, la grammatica o il ragionamento logico, chiedendo loro di valutare le prestazioni dopo ogni test. Dopo quattro prove, i risultati erano perfettamente chiari: i soggetti che sono andati peggio erano convinti di essere stati i migliori, mentre quelli più competenti sottovalutavano le loro capacità. Per confermare l’esistenza di questa distorsione cognitiva denominata “effetto di eccesso di fiducia,” Dunning e Kruger hanno riconvocato i soggetti che hanno ottenuto i risultati migliori e peggiori poche settimane più tardi… per fare correggere cinque copie dei testi e ri-valutare la loro performance alla luce di quelle della concorrenza. Anche in questo caso, come ormai avrete capito, la fiducia in sé dei meno competenti non è stata minimamente scalfita. Tuttavia, per lo meno, coloro che avevano ottenuto i risultati “migliori,” hanno rivisto la loro opinione di sé in positivo.

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A più di quindici anni dalla sua prima identificazione formale, la distorsione cognitiva che ci rende degli “idioti fiduciosi,” per utilizzare la definizione coniata da Paul Dunning su Pacific Standard, non è mai stata messa in discussione, oltre ad essere anche confermata regolarmente da altri lavori. Ad esempio, il 4 maggio 2016, i ricercatori della McGill University di Montreal hanno pubblicato sulla rivista PLOS ONE uno studio che dimostra come gli automobilisti che presentano le abitudini più pericolose alla guida (in termini di velocità, guida in stato di ebbrezza o rispetto del Codice Stradale) erano anche coloro che si lamentavano maggiormente degli altri automobilisti, senza mai mettere in discussione la propria visione della sicurezza stradale. Un caso classico di Dunning-Kruger. Il mondo è quindi condannato a essere popolato da stupidi palloni gonfiati che si stimano più del dovuto? Non necessariamente. Perché l’effetto Dunning-Kruger è un fenomeno molto più sottile.

Cognizione e metacognizione

Come spiegato su Ars Technica in un’analisi approfondita del fenomeno, le conclusioni dei due psicologi non sono poi così straordinarie. Chiedete a qualcuno di valutare le proprie capacità in un ambito qualsiasi, sarà altamente improbabile che vi risponderà francamente che non ne sa nulla o che non è in grado di fare quella determinata cosa. Prendete, ad esempio, lo sketch di Jimmy Kimmel, girato durante l’edizione del 2014 del festival indie South by Southwest, in cui viene chiesto al pubblico dei concerti cosa pensa di una serie di band inventate di sana pianta: piuttosto che provare la tutto sommato  piccola umiliazione di ammettere la propria ignoranza di fronte alla telecamera, la maggior parte degli intervistati preferisce balbettare banalità non troppo specifiche, con l’aria di chi padroneggia alla perfezione l’argomento. Purtroppo, gli esseri umani sono fatti così: irrimediabilmente fiduciosi nelle proprie capacità e incapaci di ammettere la propria ignoranza.

Ma se la mancanza di meta-cognizione (la capacità di valutare se stessi) non è un difetto in sé, diventa in breve tempo problematica quando si tratta di introdursi nella gerarchia di un gruppo: se abbiamo una tendenza naturale a posizionarci ai piani alti di un determinato gruppo, possediamo anche la capacità di capire che la media di un gruppo è, per l’appunto, media. Di conseguenza, se siamo tra i migliori, gli altri devono necessariamente essere peggiori per contrasto. Ed è qui che iniziano i problemi, perché non solo noi non siamo i più adatti a giudicare noi stessi, ma lo stesso vale anche per la nostra capacità di giudicare gli altri.

Su Pacific Standard, Paul Dunning riformula i risultati del suo famoso studio ammettendo che “è la logica stessa a presupporre questa mancanza di lungimiranza: perché un incompetente possa riconoscere le proprie mancanze in un determinato ambito, dovrebbe per l’appunto possedere quelle stesse competenze che gli mancano.” Considerate, ad esempio, la padronanza della grammatica: come possiamo sapere se padroneggiamo o meno le sue regole se per prima cosa non le conosciamo? Ecco quale meccanismo ha illustrato in sostanza l’effetto Dunning-Kruger: il rapporto tra cognizione e metacognizione, ciò che rende estremamente difficile la valutazione di una capacità propria o degli altri, quando non la si possiede. Una grande verità in tutto e del tutto lapalissiana. Ma non preoccupatevi, non siamo condannati a restare per sempre degli “idioti fiduciosi”: lo studio di Dunning e Kruger mostra anche che, una volta indirizzati a dovere, improvvisamente, gli incompetenti diventano più consapevoli delle loro debolezze — e, di conseguenza, anche della forza degli altri. Tuttavia, il rapporto tra cognizione e metacognizione non spiega l’eccesso sistematico di fiducia riscontrabile tra i meno dotati o la mancanza di fiducia, allo stesso modo sistematica, delle persone più dotate. Per comprendere questi aspetti, sostiene Dunning, dobbiamo addentrarci direttamente nel cervello umano.

Siamo macchine della disinformazione

Per lo psicologo, il problema non risiede nella mancanza di informazioni, ma nella disinformazione causata dalla nostra mente. “Una mente ignorante,” scrive Dunning in Pacific Standard “non è un contenitore vuoto e immacolato, ma un guazzabuglio pieno di esperienze fuorvianti e inutili, teorie, fatti, idee, strategie, algoritmi, euristiche, metafore e intuizioni che, purtroppo, assumono la forma di conoscenze accurate. Questo miscuglio è una sfortunata conseguenza di uno dei nostri maggiori punti di forza in quanto specie. Siamo dei grandissimi decodificatori e teorizzatori. “In altre parole, il nostro cervello e la sua immaginazione senza limiti sono macchine per disinformare, che creano tutta una serie di certezze a partire da zero, a dispetto della razionalità. Accoppiato alla nostra incapacità di valutare correttamente le nostre capacità, questo talento innato per la creazione di “sapere” ex nihilo ci trasforma tutti in ignoranti sicuri delle loro capacità. Peggio ancora, alcuni di queste false certezze hanno origine durante l’infanzia, prima ancora che ce ne rendiamo conto. 

Infine, spiega lo psicologo, la nostra ostinazione a difendere la nostra visione delle cose a dispetto di cosa ci prova che la realtà è un’altra (come nel caso degli “incompetenti” dell’esperimento del 1999 che hanno continuato a credere di essere talentuosi anche dopo aver “corretto” dei test svolti da persone più capaci di loro) deriva da una serie d i”credenze sacrosante,” che non possiamo mettere in discussione senza incappare in uno shock violento chiamato dissonanza cognitiva (uno shock così potente che spinge, per esempio, alcune persone a credere, che Mandela sia morto nel 1980.) Mettere in discussione quella serie di certezze sacrosante mette in crisi tutta la propria visione di sé. Un tipo di operazione che la nostra mente si rifiuta di svolgere in maniera categorica. Quindi preferiamo credere quanto ci è più comodo rispetto a scontrarci con la verità dei fatti, per quanto questa sia inconfutabile: a volte, siamo semplicemente ignoranti e avremmo tutto da guadagnare ammettendo semplicemente la nostra ignoranza piuttosto che arrampicarci sugli specchi. Ma la maggior parte di noi continuerà a far finta di sapere quello che non sa e le gerarchie aziendali continueranno pertanto a essere governata dal principio di Peter, in base al quale un dipendente riesce a raggiungere un livello oltre il quale non può andare a causa della sua incompetenza. Per sfuggire all’idiozia troppo fiduciosa di sé, conclude Dunning, ricordiamoci che la vera sapienza risiede nella coscienza dei propri limiti intellettuali. Sappiamo, come riassunto da Socrate, di non sapere nulla. Confessare la propria ignoranza è già un primo passo verso la conoscenza.