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Perché ‘The Circle’ racconta il nostro futuro prossimo

Microtelecamere collegate alla rete sparse ai quattro angoli del globo, una pressante richiesta di trasparenza che si trasforma presto in sorveglianza e un social network potente al punto da sottrarre autorità ai governi. È il futuro (prossimo) tratteggiato in The Circle, romanzo distopico di Dave Eggers oggi adattato per il cinema in una fedele trasposizione con protagonisti Tom Hanks ed Emma Watson.

Il sogno in cui crede di trovarsi Mae Hollande, appena assunta in un colosso tech che sembra ispirarsi direttamente a Google, diventa l’incubo di un mondo in cui la privacy viene cancellata e la libertà di restare offline (come scopre il suo ex fidanzato, Mercer) ha un prezzo carissimo.

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Se ci si guarda un po’ attorno, la domanda è d’obbligo: il nostro mondo è così diverso? La vostra casella di posta elettronica è probabilmente Gmail, collegata al vostro profilo Google Plus (che avete anche se non usate), che forse è anche l’account che usate su YouTube (sempre di Google) e che fa sì che la vostra foto appaia sul browser Google Chrome. Il risultato, come anche per la sacra triade Facebook-Instagram-WhatsApp, è che la vostra identità personale è in mano a corporation private, in grado di tratteggiare il vostro profilo — come ha dimostrato uno studio del 2015 — con una precisione superiore a quella di amici, colleghi e parenti.

Da qui a pochi anni, questo esasperato controllo eseguito a fini commerciali si potrebbe estendere ancor più, privandoci della libertà di circolare per le strade senza correre il rischio di diventare protagonisti di qualche video virale a nostra insaputa. Non è distopia, ma realtà. Basti pensare alla decisione di Snapchat di lanciare sul mercato gli Spectacles: occhiali da sole in grado di girare brevi video e scattare foto. L’obiettivo, come ha scritto il New York Times, è fare sì che “girare filmati senza soluzione di continuità diventi parte integrante della nostra vita quotidiana, che si incastra con il desiderio dell’azienda di avere un flusso continuo di video e immagini”.

Ma questo è niente: tra qualche tempo le città potrebbero essere invase da droni che riprendono tutto ciò che succede. E la cosa più curiosa è che non ci sarà bisogno di un governo totalitario per arrivare a questo punto: lo faremo noi, di nostra spontanea volontà, se davvero entreranno in commercio i droni dotati di camera a 360° su cui starebbe lavorando (ma il tutto è ancora in fase sperimentale), ancora una volta, Snapchat.

Per capire meglio come tutto ciò rischi di trasformarsi in una sorta di totalitarismo digitale bisogna dare un’occhiata ai progetti in corso in Cina, dove dal 2014 si sta lavorando alla costruzione di un “sistema di crediti sociali” che raccoglie tutti i dati dei cittadini per via digitale allo scopo di dare loro un punteggio e classificarli in buoni e cattivi (tutti i dettagli si possono trovare su questo sito governativo cinese).

Avete pagato le tasse, rispettato il codice della strada, fatto attività di volontariato e saldato tutti i vostri debiti? Se la risposta è sì, potrete avere una corsia preferenziale, per esempio, nella graduatoria delle case popolari o dei concorsi pubblici; altrimenti, verrete scavalcati da chi ha conquistato migliori posizioni in questa classifica del “buon cittadino”.

Il progetto, che dovrebbe venir completato nel 2020 ma che sta sollevando non poche perplessità anche in Cina, ha lo scopo di “costruire un ambiente socio-economico onesto e affidabile”, come si può leggere sul sito ufficiale. Sarebbe facile liquidare la questione con un’alzata di spalle segnalando come la Cina non sia certo un campione mondiale di democrazia, se non fosse che l’utilizzo dei nostri dati privati a scopi di sorveglianza si sta facendo rapidamente largo anche nella nazione che storicamente si è appuntata proprio quella medaglia al petto: gli Stati Uniti d’America.

Immagine: screenshot dell’autore dal sito dell’ESTA

Dall’inizio del 2017, i viaggiatori che vogliono entrare negli USA sfruttando il programma ESTA (la procedura semplificata ed elettronica per l’ottenimento del visto) sono invitati a inserire le url dei loro profili di Facebook, Twitter, Instagram, LinkedIn eccetera, per consentire alle autorità di dare un’occhiata alla loro vita privata e decidere se non sia il caso di fare qualche domanda in più all’arrivo negli States (o magari rifiutare direttamente il visto). Almeno per il momento, la procedura non è obbligatoria; ma il policy director della Casa Bianca Stephen Miller ha già fatto sapere che questo metodo potrebbe a breve essere ampliato (volete andare negli USA e avete scritto da qualche parte “Donald Trump muori”? Meglio cancellare).

Nella stessa direzione, ma con motivazioni diverse, va la decisione del parlamento USA di smantellare le leggi sulla privacy online varate dall’amministrazione Obama per consentire agli internet service provider di vendere alle agenzie pubblicitarie la cronologia delle ricerche sul web, che racconta praticamente tutto delle nostre vite. A nulla sono valse le proteste della EFF, Electronic Frontier Fondation, che ha evidenziato il pericolo che queste nuove norme aprano le porte alla sorveglianza di massa.

A giovarsi di questa dinamica sono i tech-miliardari della Silicon Valley, che vedono il loro ruolo sociale espandersi molto oltre la semplice dimensione imprenditoriale.

Ci sono anche dei vantaggi, ovviamente: condividere queste informazioni con la banca potrebbe farvi avere uno sconto sul mutuo, così come installare un dispositivo che consenta all’assicurazione automobilistica di controllare il vostro stile di guida (e non solo) potrebbe renderla più economica. Se tutto questo non vi piace, potete sempre scegliere di condividere meno informazioni possibili o addirittura dedicarvi a una sorta di eremitaggio digitale e rinunciare alla vita “social”. D’altra parte, nessuno vi obbliga ad avere Facebook, giusto?

“Ci si può davvero permettere di ‘disconnettersi’ dalle compagnie assicurative, dalle banche e dalle autorità che vigilano sull’immigrazione?”, si chiede Evgeny Morozov sul Guardian. “In linea di principio, sì; se si è in grado di affrontare i costi sociali e finanziari associati (e in rapida crescita) all’anonimato. Chi desidera disconnettersi, dovrà pagare un prezzo per questo privilegio: mutui più elevati, pacchetti assicurativi più cari, più tempo sprecato nel tentativo di convincere le autorità aeroportuali delle vostre intenzioni pacifiche”. Non paghiamo ancora il prezzo a cui è costretto Mercer in The Circle (no spoiler), ma sicuramente siamo sulla buona strada.

A giovarsi di questa dinamica sono i tech-miliardari della Silicon Valley che, proprio come l’Eamon Bailey del film, vedono il loro ruolo sociale espandersi molto oltre la semplice dimensione imprenditoriale. E se i maglioncini indossati da Tom Hanks (che interpreta Bailey) hanno portato un po’ tutti a fare il paragone con Steve Jobs, al momento il personaggio che più di chiunque altro sembra avvicinarglisi è un altro: il solito Mark Zuckerberg.

Per capire a cosa stia puntando il fondatore di Facebook non bisogna fare altro che dare un’occhiata alla sua interminabile lettera-manifesto, pubblicata a febbraio, in cui tratteggia un futuro in cui il suo social network vada molto oltre la missione di “connettere il mondo” per diventare una vera “comunità globale” — anzi, una “infrastruttura sociale” che ci faccia sentire sicuri, informati, socialmente impegnati e che contribuisca a risolvere i mali del mondo.

Quasi una nazione virtuale, come ha scritto Bloomberg, i cui valori traggono ispirazione da un leader che nessuno ha eletto e che è diventato multimiliardario grazie alla vendita dei dati personali di quegli stessi utenti che adesso vuole far sentire parte di un’unica comunità globale.

Realtà come Facebook, ma anche come Google e in parte Apple, stanno iniziando a sovrapporre i loro ruoli a quelli che sono storicamente stati prerogativa assoluta della politica. La politica, da parte sua, non si lamenta; ben contenta di liberarsi da incombenze che è sempre più in difficoltà a soddisfare.

E così, la app Salute ci sprona ad alimentarci meglio, a dormire di più e a fare più attività fisica, diventando una sorta di sistema sanitario preventivo che un domani, anche in questo caso, potrebbe punire economicamente chi decide di farne a meno; Google Maps è in grado quasi da solo di trasformare le nostre città in smart city e di smistare il traffico come nemmeno il più preparato squadrone di vigili urbani potrebbe mai ambire a fare; mentre Facebook, come sempre, si è ritagliato il ruolo più ambizioso, scoprendo di avere il potere di spronare gli elettori ad andare a votare molto più efficacemente di qualunque altro strumento classico — secondo uno studio dell’Università del Texas, Facebook può incrementare il voto del 16% contro il classico 3-8% delle mail, telefonate, porta a porta e quant’altro.

Il cortocircuito definitivo potrebbe compiersi nel 2020 o 2024, se davvero Mark Zuckerberg ha in mente di candidarsi alla Casa Bianca (come da voci, non troppo fondate, circolate qualche mese fa). In quel caso, si creerebbe un conflitto d’interessi tale da rendere risibile quello di Silvio Berlusconi. E, soprattutto, renderebbe il mondo social-distopico disegnato in The Circle ancora più vicino alla realtà.