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Quali sono i rischi (per noi) della cyberguerra di Google contro l’ISIS

La cyber-guerra che la Silicon Valley, su mandato del governo USA, sta conducendo contro l’Isis a quanto pare sta funzionando. Le ultime notizie su una vicenda che ha ormai una lunga storia—ma che ha subito una svolta in seguito agli incontri tra imprese hi-tech e funzionari USA nel febbraio 2016—riguardano i nuovi strumenti messi a punto da Google attraverso il suo think thank Jigsaw (che, guardacaso, proprio da febbraio ha cambiato missione focalizzandosi sulla geopolitica) e l’utilizzo di YouTube. Il problema è capire a quale prezzo tutto questo stia avvenendo.

Per farla breve: il programma sfrutta una combinazione di pubblicità basate sulle ricerche degli utenti su Google e YouTube. Quindi, se una persona attratta dallo Stato Islamico cerca qualche informazione usando Google (per esempio “come essere reclutati dall’Isis”), l’algoritmo che regola il motore di ricerca individua che le parole chiave mostrano una certa inclinazione nei confronti dello Stato Islamico e fa intervenire il meccanismo noto come “Redirect Method”. A questo punto, di fianco ai risultati ottenuti dalla ricerca, appariranno una serie di pubblicità in inglese e in arabo che rimandano a contenuti su YouTube che mostrano la “verità” sullo Stato Islamico. “Penso che sia un metodo molto promettente”, ha detto il sottosegretario di Stato Richard Stengel durante un evento sul tema al Brookings Institute.

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L’idea è venuta alla responsabile sviluppo e ricerca di Jigsaw, Yasmin Green, dopo aver sentito la storia di una tredicenne londinese attirata dall’Isis che, guardando i loro video su internet, pensava di avere a che fare con una “Disneyland islamica”. Stando a quanto riporta Wired, il piano di Google sta funzionando: nel giro di due mesi più di 300mila persone sono state condotte su canali YouTube anti-Isis con una frequenza di click, rispetto alle pubblicità tradizionali, 3 o 4 volte più alta.

Uno dei video su cui vengono rediretti gli utenti che mostra la difficile vita di una donna a Raqqa.

La Silicon Valley sta finalmente riuscendo laddove il governo USA da solo—in particolare il progetto “Think Again, Turn Away”, che pensava di sottrarre reclute all’Isis con dei messaggi che portavano impresso il marchio governativo—aveva fallito. Il cambio di strategia si è basato soprattutto sul coinvolgimento attivo di leader islamici moderati, scuole, ospedali, ONG che operano direttamente nei territori più caldi. A loro, gli Stati Uniti offrono supporto tecnico ed economico per produrre i video che verranno poi visualizzati dalle aspiranti reclute, dopo esservi state condotte attraverso i link di Google. Così, nessuno dovrebbe accorgersi che il tutto è orchestrato dal governo USA.

Se ne parla oggi perché Google sta diffondendo i primi risultati del progetto, ma la cosa è nota almeno da febbraio 2016, quando il direttore della comunicazione di Google, Anthony House, aveva improvvidamente annunciato: “Stiamo lavorando perché su internet emerga una narrativa contraria all’Isis.” Oggi vediamo i risultati di quel programma; così come vediamo i risultati della “caccia al terrorista” condotta da Twitter.

Due mesi fa, Twitter ha infatti annunciato che il traffico a favore dello Stato Islamico era crollato del 45%. Dietro a questo importante risultato c’era sempre il governo Usa e la sua agenzia Global Engagement Center, guidata da Michael Lumpkin, che si occupa di tutta la comunicazione online anti-terroristica.

Su Twitter, ovviamente, il meccanismo per contrastare la propaganda dell’Isis è diverso: anche in questo caso si sfruttano associazioni e figure credibili del mondo arabo ma allo scopo di diffondere, per esempio, grafici e mappe che mostrano le difficoltà sul campo dell’Isis, video che mostrano quanto sia dura la vita nel califfato, come le donne vengano maltrattate, come vengano privati della loro innocenza i bambini e altro ancora. Sempre evitando che si capisca chi c’è dietro a tutto ciò.

Il risultato è che, oggi, per ogni contenuto pro-Isis su Twitter ce ne sono sei contro e che la media dei follower degli account legati ai terroristi islamici è passata da 1.500 a 300.

Chi ci può garantire che, in futuro, ogni nostra ricerca su Google non venga inondata da messaggi che diffondono una narrativa comoda ai governi?

Le due strategie, quella su Twitter e quella su Google, sono però molto diverse. La prima si occupa esclusivamente di diffondere sui social network messaggi legati a una certa narrativa. Su Google, invece, si tratta di selezionare contenuti ad hoc che appaiono in seguito a determinate ricerche.

Oggi, questo, avviene per contrastare l’Isis, quindi nessuno si sogna di dire che “non si deve fare”. Magari qualche voce critica in più si leverà visto che (come si è già saputo) questa strategia non si limiterà a combattere i terroristi stranieri: “durante la fase due ci concentreremo sull’estrema destra violenta in America. Siamo consci del fatto che l’estremismo non riguarda solo lo Stato Islamico”, ha detto Ross Frenett, co-fondatore della start-up londinese Moonshot CVE, partner di Jigsaw in questo progetto, durante il già citato un evento al Brookings Institute.

Prima la lotta di Google all’Isis, poi la lotta di Google all’estrema destra violenta. Forse, un domani, Google e il governo USA prenderanno di mira i “comunisti” e poi i socialisti elettori di Bernie Sanders. E chi ci può garantire che, tra qualche tempo, ogni nostra ricerca su Google che non sia conforme allo status quo non venga inondata da messaggi che diffondono una narrativa comoda ai governi? Non è detto che le cose debbano andare così, ma il rischio c’è.

A quanto pare, la Silicon Valley ha fatto almeno parzialmente marcia indietro rispetto a qualche mese fa, quando rifiutava sdegnosamente di manomettere i propri algoritmi per combattere lo Stato Islamico: “Se accettiamo di mostrare un risultato invece che un altro su richiesta del governo USA”, diceva un anomino rappresentante (di Google?) a BuzzFeed News, “che cosa fermerà le altre nazioni dal farci la stessa richiesta? Che cosa impedirà a certi paesi di modellare in base alla loro agenda i risultati delle ricerche fatte dai loro cittadini?”.

E infatti, i risultati delle ricerche non vengono ancora modificati: vengono mostrate delle pubblicità accanto ai risultati originali. Ma fino a quando andrà avanti questa distinzione? La sensazione è che il vaso di Pandora si sia cominciato ad aprire.