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Tecnologia

Il film distopico anni '80 che racconta il femminismo di lotta

Abbiamo parlato con la regista del film ‘Born in Flames’ di fantascienza, Donald Trump e riappropriazione “violenta” dei media.
Giulia Trincardi
Milan, IT

Negli ultimi anni, il femminismo è tornato a essere un argomento di ampia — ma spesso faticosa — discussione. Per quanto le sue tematiche non abbiano mai cessato di esistere in una varietà di contesti — dai gruppi di attivismo politico per i diritti LGBTQ alle aule accademiche di filosofia sociale — solo di recente la definizione stessa del termine ha cominciato a essere filtrata dal mezzo di internet, che tende però ad appiattire qualsiasi discorso complesso.

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Definirsi "femminista" oggi sembra più facile che mai, ma comprendere appieno la necessità di un'azione conseguente alla teoria non è altrettanto scontato e, ancora una volta, i media giocano un ruolo importante nella partita.

Dagli eventi del 2014 del #GamerGate, alla rivendicazione di artiste pop come Beyonce, passando per la campagna di Hillary Clinton in vista delle elezioni del 2016 e alla Women's March che ha mobilitato milioni di persone dopo la vittoria di Donald Trump, il dibattito su cosa definisca una femminista ha trovato una nuova prolifica piattaforma nella comunicazione via rete.

Eppure, gran parte di questa rinnovata discussione tende a restare in superficie e a trasformare il femminismo in un'etichetta paradossalmente accondiscendente e rassicurante. Indossare una maglietta con scritto "this is what a feminist look like" diventa troppo spesso un gesto magico (e virale) di appropriazione e auto-assoluzione, mentre gruppi sociali meno privilegiati restano esclusi o ignorati.

Ecco perché vedere oggi il film Born in Flames è come fare un viaggio rigenerante in un universo parallelo e distopico, in cui donne appartenenti a contesti sociali differenti riescono a trovare un senso comune alla loro lotta, senza perdere la coralità complessa delle proprie voci individuali.

Il film — che sarà proiettato al cinema Beltrade di Milano in occasione dell'evento Black Maria Cinema — è stato girato a New York tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta dalla regista Lizzie Borden.

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Ambientato in un'America alternativa — dove una rivoluzione pacifica socialista ha instaurato un governo apparentemente votato all'uguaglianza — Born in Flames costruisce una narrazione simil-fantascientifica sull'ipocrisia di un sistema che dichiara intenti egualitari, ma rifiuta l'idea che le donne possano definire autonomamente il proprio ruolo all'interno della società.

Tra brigate anti-stupro, stazioni televisive prese in ostaggio e un flusso continuo di musica trasmessa da due radio pirata, Born in Flames costruisce una potente metafora di ribellione, dove la distruzione dei media diventa il simbolo della riappropriazione dell'identità femminile in senso lato.

Per quanto sia stato inquadrato dalla critica come un film di fantascienza politica, l'intento è stato piuttosto quello di fare un film che ponesse innanzitutto molte domande. "Quali sono le cause che scatenano un atto di violenza definitivo? Che cosa serve per essere davvero in grado di controllare il discorso, per essere in grado di definirci da sole?", ha spiegato a Motherboard la regista Lizzie Borden, il cui percorso nel mondo dell'arte tradizionale l'ha portata presto a interrogarsi sul ruolo delle artiste donne nella società.

"Una cosa buona degli eventi recenti è che molte donne si sono arrabbiate, molte donne che forse non sapevano neanche quanto già lo erano"

"Per colpa della critica ero diventata troppo consapevole dei destinatari ultimi della mia pittura," ha detto Borden. "Non ero più innocente e, allo stesso tempo, tutte le artiste donne che consideravo importanti erano schiacciate perché usavano il proprio corpo — spesso nudo — nel loro lavoro. In quel momento ho capito che il discorso era politico, e riguardava il corpo delle donne."

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Nello stesso periodo, Borden ha iniziato a interrogarsi sulle dinamiche del dibattito femminista dell'epoca, la cui voce dominante "apparteneva comunque alla classe borghese e bianca," ci ha raccontato. L'idea di Born in Flames è nata nel momento in cui Borden si è accorta dell'assenza delle donne di colore dal dibattito. "Non conoscevo donne di colore in nessuno degli ambiti che frequentavo. Sono andata ovunque per cercare donne di colore da coinvolgere nel film, sono andata nei bar, al YMCA, etc. Neanche io riuscivo a riconoscermi in voci come quella della giornalista e attivista Gloria Steinem, che appariva troppo corporate," racconta la regista.

L'idea di lasciare fuori dal film la dimensione più mainstream del dibattito femminista, ci ha spiegato Borden, è legata alla volontà di lasciare alle protagoniste del film la possibilità di esprimere liberamente il proprio punto di vista, evitando qualsiasi tipo di conformazione al discorso dominante al tempo.

"Non ho voluto scrivere una sceneggiatura in senso proprio, perché non volevo mettere in bocca a queste donne le mie parole." ha detto. "Persino la parola 'femminista' non funzionava per le donne di colore di quell'epoca, volevo che il film fosse piuttosto un coro di voci."

Gli elementi visivi del film vogliono provocare una riflessione sulla metamorfosi del ruolo delle donne all'interno della società: immagini di lavoratrici in fabbrica e in cantiere alternate a inquadrature di preservativi infilati da mani femminili rimandano a un'idea di indipendenza materiale della donna, tanto economica quanto socio-familiare. Il ritmo fluido del montaggio rende il film una sorta di trasmissione continua e a tratti surreale, come la scena in cui una brigata di donne vigilanti in bicicletta compare dal nulla e stronca un tentato stupro.

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La cantante e regista Adele Bertei nel ruolo di Isabel, speaker della radio pirata Radio Ragazza. Screenshot per gentile concessione di Black Maria Cinema.

Si può parlare di fantascienza, certo, ma per Borden la scena ha più a che fare con l'idea di una premessa magica e potente, il cui eco risuona nelle marce degli ultimi mesi.

"L'idea che ci sarebbe stata una brigata di donne in bicicletta che appare per magia per strada nel momento in cui qualcuno rischia uno stupro per me è una premessa meravigliosa, come si organizza una cosa del genere, da dove arriva?" ha raccontato la regista. "In un certo modo sarebbe straordinario che donne provenienti da estrazioni e razze diverse unissero le proprie forze per lottare, lo vedo anche oggi, con le marce che sono state fatte nei mesi scorsi. C'è una lotta in tutto il mondo. In Born in Flames c'è ancora uno sforzo nel voler trovare una lingua comune."

Il gesto, l'azione — anche violenta — soppianta ancora una volta qualsiasi discorso teorico, facendo trovare alle sue protagoniste un elemento di unione nel desiderio — estremamente basilare — di non voler subire una violenza sessuale.

Il mondo distopico di Born in Flames ricorda sicuramente quello di oggi — basta pensare alla difficoltà con cui i media si relazionano al movimento Black Lives Matter e a come per molte donne di colore, prima ancora della pari retribuzione tra i generi, sia ancora necessario lottare per la propria sicurezza personale, in una società che insiste a tollerare e condonare dinamiche di palese razzismo.

"Nella mia riflessione sul femminismo," racconta la regista, "ho capito che la priorità per ogni donna è essere al sicuro dalla violenza sessuale, e possiamo trovare un punto comune e universale in questo, su ciò che vogliamo. Possiamo lavorarci, anche senza usare una parola come femminismo, che è retaggio di una dimensione socio-culturale specifica. Non si pensa abbastanza alle differenze che giocano la razza e l'estrazione sociale in questo discorso."

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"Per una donna ricca," prosegue Borden, "ottenere un aborto non è difficile come lo è per una donna povera. E questo discorso vale anche per l'immigrazione. Una donna che viene dalla Svezia non deve affrontare, tendenzialmente, le stesse difficoltà di una donna che viene da, per esempio, El Salvador. Nel discutere di femminismo bisogna considerare tutti questi privilegi interni al nostro genere, quando parliamo di unità tra le donne."

"Non puoi fare niente di più sconvolgente della verità che viene raccontata dalle notizie oggi giorno"

In questo senso, spiega Borden, "dobbiamo fare un lavoro di de-costruzione, parola per parola. Mi identifico come femminista, ma posso e devo riconoscere che si tratta di una parola da borghesia bianca. Dobbiamo cominciare a guardare alla lingua perché ci separa da altre etnie con cui dobbiamo invece unire le forze."

"Quando riguardo Born in Flames oggi, rivedo gli stessi problemi nel mondo che mi circonda, anche peggiori," ha detto poi Borden, riferendosi alla paradossale attualità del suo film oggi. "Abbiamo fatto dei passi indietro nei nostri diritti, e la cosa mi rende triste, ma dopo la tristezza arriva un senso di rabbia. E una cosa buona degli eventi recenti è che molte donne si sono arrabbiate, molte donne che forse non sapevano neanche quanto già lo erano."

L'elemento paradossale nel confrontare il film con la situazione attuale però, spiega Borden, è vedere come le cose siano rimaste le stesse, ma il contesto urbano intorno si sia modificato. "New York è cambiata. Durante la mia recente visita qui, sono stata in un Hotel vicino a dove ho girato il film in quegli anni, quando qui le strade erano piene di graffiti. Ora appare così gentrificato," racconta, "prima era fatiscente, ora è tutto pulito e dipinto. Oggi sembra di vivere in un passato distopico, mentre il film parla di un futuro distopico."

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Parlando di come affrontare queste tematiche oggi, Borden ha detto che, se avesse realizzato Born in Flames adesso, forse non sarebbe stato qualcosa di diverso da un film, perché il cinema è vittima di una distribuzione difficile e meno efficace di altri mezzi odierni.

D'altronde, ha proseguito, parlare di ciò che accade quando solo le notizie trasmesse dai canali principali di informazione sono così sconvolgenti e presentate in modo così martellante, quasi non ha senso. "Non puoi fare niente di più sconvolgente della verità che viene raccontata dalle notizie oggi giorno", ha detto. Il suo interesse è invece continuare costruire nuove forme di narrazione, e raccontare in modo alternativo storie di donne che vivono ai confini, sul fronte di una guerra che si gioca proprio sul loro corpo.

La brigata di vigilanti in bicicletta che nel film allontanano due stupratori dalla loro vittima. Screenshot per gentile concessione di Black Maria Cinema.

"Mi identifico come femminista, ma sono anche pro-porno, un argomento attorno al quale c'è un dibattito complesso. Sto cercando di fare una serie che parli di spogliarelliste e sono in contatto con una donna che fa questo mestiere e che si batte per i diritti delle lavoratrici del sesso," ha detto. "Però vorrei esplorare questo mondo come quello di un western, vorrei descrivere questa situazione attuale prendendo le distanze dal modo in cui viene dipinta dalla cronaca."

"Tornare al mondo delle lavoratrici del sesso è importante per me perché so che il corpo delle donne è il campo su cui si combattono le guerre e quando [l'attuale presidente] Trump ha definito 'locker-room talk' l'essersi vantato di aver commesso delle molestie sessuali, è diventato ancora più impellente parlare di come casi del genere spingano a una pericolosa normalizzazione della cultura dello stupro."

In un panorama internazionale dove parlare di femminismo è ancora difficile e perdersi nelle definizioni rischia di rallentare la messa in atto di una ribellione efficace a un sistema iniquo, il coro sfaccettato delle protagoniste di Born in Flames appare estremamente lucido e autentico. È possibile percepirlo intimamente anche solo nella voce delle speaker delle due radio pirata e nella musica che trasmettono.

"Penso che Born in Flames sia sempre stato destinato a trattare questi argomenti," ha concluso Borden. "Ma non volevo che fosse un testo rigido. Per questo volevo che ci fosse così tanta musica, volevo che fosse un coro fluido, che desse la sensazione di una protesta in marcia."

Il film "Born in Flames" di Lizzie Borden sarà proiettato al cinema Beltrade di Milano venerdì 5 maggio, in occasione della serata Black Maria Cinema. L'evento è parte del progetto LIANELINEAALIEN di Dafne Boggeri, curato da Giulia Tognon per lo spazio no-profit Marsèlleria.