Per chi sta sui gradini più bassi delle gerarchie, il mondo della ricerca è un posto difficile. “Publish or Perish”, dicono, “pubblica o muori”. In ogni momento, ricercatori e dottorandi sono sotto costante pressione per pubblicare il maggior numero di lavori scientifici possibile, perché è solo tramite la pubblicazione che esiste qualche speranza di poter trovare altri fondi, fare carriera, e, nel migliore dei casi, emanciparsi dal precariato.
Per questo motivo, due delle preoccupazioni costanti nella vita di uno scienziato sono il non farsi battere sul tempo da gente che lavora nello stesso campo, e il non farsi fregare le idee prima che queste vengano pubblicate. Ma la realtà può essere più terrificante di qualsiasi incubo, come quando il tuo lavoro viene plagiato senza essere mai stato pubblicato.
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Micheal Dansinger è un professore associato di medicina e nutrizione alla Tufts University di Boston. Per cinque anni, dal 2010 al 2015, insieme alla sua equipe lavora ad uno studio di nutrizione su dieta e colesterolo in 160 pazienti americani. Dall’idea all’analisi finale, oltre quattromila ore di lavoro investite.
Cerca di pubblicare il suo lavoro sul prestigioso Annals Of Internal Medicine: scatta qui il normale processo di peer review, la revisione paritaria che, sulla carta, serve come garanzia minima che la qualità scientifica del lavoro sia sufficiente. Prima di essere pubblicato, in stretta confidenzialità, il lavoro viene spedito a dei revisori, che gli fanno le pulci e cercano di capire se i metodi usati sono affidabili e se lo studio è abbastanza innovativo da meritare spazio sugli Annals. Il lavoro di Dansinger viene respinto. Capita abbastanza spesso: si aggiusta quello che si può, si fanno analisi aggiuntive, e si riprova a pubblicare, magari su un giornale meno prestigioso.
Se non fosse che nel caso di Dansinger, l’articolo respinto viene pubblicato su un altro giornale dello stesso editore, EXCLI Journal, coi nomi di una equipe del Centro di Riferimento Regionale per la Cura dei Disturbi del Comportamento Alimentare e del Peso di Potenza. Uno dei revisori, che doveva assicurarsi della qualità dell’articolo, l’ha preso, ha cambiato l’identità delle 160 cartelle cliniche trasformando 160 americani in pazienti dell’Unità Metabolica del centro di Potenza, e l’ha ripubblicato lasciando tutto il resto identico.
Dansinger lo scopre facendo una normale ricerca bibliografica. Il primo autore della pubblicazione fraudolenta, Carmine Finelli, ammette che l’articolo è un plagio, e l’articolo viene ritirato a settembre. Non è chiaro se l’autore materiale del plagio sia Finelli o uno dei suoi 5 collaboratori ma, come primo autore, la responsabilità ricade su di lui. Potrebbe aver semplicemente messo il suo nome per guadagnare gloria su una pubblicazione per la quale non ha mai lavorato, un’altra pratica illecita ma tristemente comune. Anche perché altrimenti è difficile spiegare come uno scienziato possa non rendersi conto che i 160 pazienti che sta studiando sono dall’altra parte dell’oceano.
Uno dei revisori, che doveva assicurarsi della qualità dell’articolo, l’ha preso, ha cambiato l’identità delle 160 cartelle cliniche trasformando 160 americani in pazienti dell’Unità Metabolica del centro di Potenza, e l’ha ripubblicato lasciando tutto il resto identico.
Per quanto i casi di plagio scientifico purtroppo non siano così rari, la pubblicazione di Finelli è quasi senza precedenti non solo per la sfacciataggine, ma anche perché Dansinger, in una lettera sugli stessi Annals Of Internal Medicine che avevano rifiutato il suo studio, ha reso tutto pubblico.
“Caro plagiario,” apre la lettera, che nel punto saliente continua, “come certamente sai, rubare è sbagliato. Ed è particolarmente problematico nella ricerca scientifica. […] Medici e pazienti dipendono dall’integrità del processo di peer review.”
La lettera è accompagnata da un articolo del direttore editoriale degli Annals, Christine Laine, che rincara la dose. Intitolato “Le scorrettezze scientifiche fanno male,” spiega come non solo l’autore del plagio ha rotto la confidenzialità e violato ogni principio etico dietro la peer review, ma ha letteralmente inventato l’esistenza di 160 pazienti del sud Italia. Un medico italiano, anche in totale buona fede, avrebbe potuto prendere delle decisioni cliniche sbagliate perché quelli che credeva essere dati su pazienti simili ai suoi avevano una provenienza geografica e medica totalmente differente.
Per non parlare poi proprio dei 160 pazienti bostoniani che quando hanno acconsentito al trattamento dei loro dati personali e a sottoporsi a cambiamenti di dieta l’hanno probabilmente fatto con l’intenzione di aiutare la ricerca scientifica, e non la carriera di un plagiario dall’altra parte del mondo.
Darsinger, nella sua lettera non menziona chi tra gli autori della seconda pubblicazione sia effettivamente il responsabile del plagio. “Non voglio scatenare una caccia all’uomo; fare nomi sarebbe solo una vendetta e non e distrae dagli obiettivi più importanti”. I responsabili sono noti ai diretti interessati e alle istituzioni coinvolte, e c’è da sperare che, al contrario di altri casi di condotta scientifica scorretta in Italia, le sanzioni siano sufficientemente severe, come quando scienziati italiani vengono colti in flagrante all’estero.
Obiettivi più importanti come garantire che la peer review, seppur imperfetta, mantenga la sua integrità. E, come dice Laine nel suo editoriale, se la lettera di Dansinger dovesse prevenire anche un solo caso di plagio in futuro, potrebbe essere una delle pubblicazioni più importanti della sua carriera.