Sta piovendo e le gocce cadono sulle foglie di vite americana alle mie spalle. Sono completamente assorta in contemplazione di questa terra incontaminata: c’è un bosco fittissimo davanti a me e sotto di me, alla mia sinistra e alla mia destra, colline cariche di vigne immerse in un armonioso silenzio.
No, non sono in un romanzo di Faulkner, sono nel Sannio, fra le zone più vitate d’Italia. Precisamente a Castelvenere, nella tenuta di Raffaello Annichiarico. Ma andiamo per ordine.
Videos by VICE
La prima volta che ho sentito parlare di Podere Veneri Vecchio non sapevo neanche quale fosse la differenza tra un vino naturale e un vino convenzionale e la mia passione per i vini era un mero alcolismo specializzato.
Mi avevano parlato di questo microbiologo napoletano “folle” che, dopo tanti anni in città, nel ’99 aveva deciso con la moglie di trasferirsi nel beneventano per far crescere i propri figli in un ambiente pulito e inalterato, e che aveva poi cominciato a produrre questo vino “strano”, “integralista”, “alternativo”.
Poi una volta, non troppo tempo fa, un amico (il responsabile di questa mia recente fissazione per i vini naturali) mi ha invitato nel ristorante dove lavora ad una cena preparata riutilizzando gli scarti alimentari. Ad accompagnare le portate c’erano proprio i vini di Podere Veneri Vecchio e, a raccontarli, c’era Raffaello Annichiarico in persona. Ricordo che rimasi subito affascinata da quest’uomo che parlava di rispetto delle piante e di tutela del patrimonio genetico di un territorio, che doveva poi essere restituito attraverso la bottiglia.
Ricordo anche che trovai i suoi vini audaci e originali, ma pieni di grazia. Qualcuno più morbido e rotondo, qualche altro più timido ed ermetico, ma ognuno raccontava una storia. A quel punto mi promisi di andare a trovarlo. E così qualche mese dopo mi sono messa in macchina con Alessandra (la fotografa) e ho preso la Napoli-Bari sotto un diluvio universale (mai una volta che ci vada di culo col tempo, eh!).
Sai, la natura è così grande che non può essere costretta in dei protocolli o dei disciplinari.
Il vialetto d’ingresso è ricoperto di foglie e fuori al casolare in tufo grigio, costruito con pietre recuperate dal terreno delle stesse vigne, ci aspetta Raffaello.
“Vi faccio un caffè?”. Dentro il camino è acceso e tutto mi sembra familiare. “Scusate il disordine, ma sono arrivato poco prima di voi”. Posso giurarvi che a confronto la mia stanza potrebbe partecipare a un episodio di Sepolti in Casa su RealTime.
La grande biodiversità di questo territorio rende le piante capaci di difendersi da sole, non hanno bisogno di ulteriori trattamenti.
Posiamo le borse e scendiamo subito in vigna. “Quando è cominciato tutto?” gli chiedo durante il tragitto. Raffaello mi risponde: “Dopo mesi trascorsi sui manuali di enologia. Cercavo di capire come produrre un buon vino, ma quando poi sono andato a sporcarmi le mani con la terra ho capito che non avevo capito”.
“Cioè? Cos’è che non avevi capito?”
“Beh, sai, la natura è così grande che non può essere costretta in dei protocolli o dei disciplinari. Ma prima di allora non mi era chiaro. Almeno non così bene.”
Raffaello continua: “Questo è un terreno argilloso, siliceo, è fertile per natura. Ha una grossa componente vulcanica e non ha bisogno di fertilizzanti chimici. La grande biodiversità di questo territorio rende le piante capaci di difendersi da sole, non hanno bisogno di ulteriori trattamenti. Da alcuni anni non utilizzo neanche più trattamenti in zolfo e rame, ma tratto le vigne con piante autoctone come equiseto, bambù, ortica e borragine, che raccolgo e faccio macerare e fermentare.”.
Sul retro del casolare si estende una parete interamente coperta di vite americana e attraverso una piccola porticina, si accede alla vecchia cantina, mentre la cantina odierna è un po’ più giù, praticamente adiacente alle vigne. Qui avviene un lavoro ancestrale, antico: vengono utilizzati solo lieviti autoctoni, fatte solo fermentazioni spontanee e un bel lavoro su bucce e fecce che daranno grande corpo al vino senza dover ricorrere ad additivi chimici. Nessuna filtrazione, nessuna chiarifica.
Quasi la totalità dei vini di Podere Veneri Vecchio affina in botti realizzate da un artigiano campano con legni autoctoni come acacia, castagno e ciliegio. La cosa interessante è che essendo legni del luogo danno maggiore forza al terroir e, infatti, sono i legni con cui lavoravano i vecchi contadini. Mi racconta Raffaello che è riuscito a mantenere gli antichi impianti di 30-60 anni fa e che, in questo modo, ha potuto recuperare uvaggi autoctoni come il Grieco (che somiglia al Trebbiano) e il Cerreto (che somiglia invece alla Malvasia di Candia per intenderci), e ancora tanti altri come l’Agostinella, lo Sciascinoso o il Barbera del Sannio (da non confondere con quello piemontese).
“Queste due le ha disegnate mia figlia” indicandomi delle etichette. “questo è un quadro che ha fatto lei con dei ritagli di giornale. Le altre invece le ho realizzate io, ma non sono granché, tutti mi dicono che le più belle sono quelle di Giulia”.
Ogni etichetta viene attaccata rigorosamente a mano e onestamente io le trovo tutte molto originali.
A quel punto afferriamo un paio di bottiglie a testa e saliamo ad assaggiare.
Tutto gira intorno al tempo, dal “Bianco Tempo” (falanghina, grieco e cerreto) al “Tempo Ritrovato” (grieco e cerreto), dal “Perdersi e ritrovarsi” (barbera del sannio, aglianico e piedirosso) al “Bella Ciao Agostinella” (vitigno omonimo).
Ma la vera meraviglia che tocca il cuore è il “Flavum” che è un orange wine del 2001, che fa un affinamento in botte di un anno, di cui gli ultimi mesi a botte scolma.
Mentre assaggiamo le bottiglie un enorme tagliere di formaggi di pecora e di capra, salame di un contadino di Cusano Mutri e pane e pizze del forno di Castelvenere.
Siamo rimasti lì davanti al camino, a bere e affettare salame e formaggio per ore, a parlare di viticoltura, dei tempi andati, di come si viveva diversamente prima della rivoluzione industriale, di internet, dei cellulari e dei social media. Eravamo come in una bolla spazio temporale, nostalgici e bucolici.
Non sarei mai andata via ma cominciava a fare buio e dovevo portarmi a casa.
Oltre a me stessa e a qualche bottiglia mi sono portata a casa le emozioni di quella giornata che non ho la presunzione di trasferirvi in parole.
Posso dirvi però che il suo vino non è integralista, è integro, è veritiero, è ricco.
È fatto insieme e non contro la sua terra, e ti dice da dove viene e che storia ha.
Ogni vino porta il nome di Raffaello Annichiarico e parla di sapere, di equilibrio, d’amore, ti racconta la sua passione per quello che fa e la sua capacità di portare qualcosa di grezzo come la natura su un piano culturale.
Segui Paola su Instagram
Segui Alessandra su Instagram
Segui MUNCHIES su Facebook e Instagram .
Vuoi restare sempre aggiornato sulle cose più belle pubblicate da MUNCHIES e gli altri canali? Iscriviti alla nostra newsletter settimanale