È passata più di una settimana dal lancio globale di Pokémon Go. Niantic, la casa di sviluppo del gioco, ha cominciato dal Nord America, dalla Nuova Zelanda e dall’Australia, e proprio oggi la pagina Facebook ufficiale della app ha annunciato l’arrivo di Pokémon Go sugli store italiani.
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Sarebbe semplicistico definire il titolo di Niantic semplicemente come un “gioco” o un “videogame”. La realtà è che Pokémon Go è un prodotto che ha origine da intenti interamente videoludici per poi sviluppare aspetti e meccaniche completamente inaspettate.
La app sfrutta tecnologie per la realtà aumentata (AR) e meccaniche di geotagging e geocaching permesse dalla presenza di un GPS sul dispositivo: il risultato è una simulazione incredibilmente accurata di una caccia ai Pokémon nel mondo reale, tra strade da percorrere (fisicamente!) e punti di interesse collocati sul nostro pianeta dai quali trarre oggetti e bonus in game.
Pokémon Go, quindi, esce ufficialmente oggi in Italia e nonostante l’assurdo impatto mediatico generato dall’arrivo del titolo sugli smartphone di mezzo mondo non mi riesco a spiegare perché in moltissimi, in Italia e in tutto il resto del globo, si stiano prodigando per spaccare il cazzo anche in merito a questo miracolo dell’arte e della tecnica. Per capire perché Pokémon Go sia così miracoloso, però, c’è bisogno di fare un passo indietro.
Il franchise di Pokémon viene immaginato per la prima volta da Satoshi Tajiri a inizio anni ’90, per poi concretizzarsi con l’uscita di una coppia di videogiochi nel ’96: Pokémon Rosso e Verde (Nel resto del mondo, Rosso e Blu). L’idea di base era effettivamente molto originale; elementi provenienti dai classici jrpg di quell’epoca (l’ispirazione a capolavori come Earthbound è palese) andavano a coadiuvare l’innovativa meccanica della ricerca e della cattura dei Pokemon, inizialmente 150 e ora 726.
Il successo, almeno in Giappone, fu istantaneo, ma è solo nel 1999 che, assieme al cartone animato, Pokémon Rosso e Blu sono arrivati in Italia dando via a un trend che ha coinvolto centinaia di migliaia di adolescenti in tutto il paese. Il vero punto di forza di tutto il franchise è stato sicuramente quello di essersi saputo indirizzare verso un pubblico di pre-adolescenti—i mostriciattoli hanno sempre avuto un caratteristico appeal cartoonesco, o comunque adatto ad un pubblico di bambini. Pokèmon, volente o nolente, ha cresciuto un’intera generazione in Italia e all’estero.
Anche se il lancio ufficiale di Pokémon è fissato per oggi, 15 luglio 2016, grazie a numerose crepe nei paletti imposti da Android e alla semplicità nell’aggirare i blocchi geografici stabiliti dall’App Store di Apple il titolo ha cominciato a circolare sugli smartphone di tutto il mondo sin dal lancio negli Stati Uniti. I social network sono esplosi non solamente grazie ai fan della serie—Anche chi i Pokémon li conosceva soltanto di striscio si è fatto trascinare dalla macchina dell’hype inondando i feed di post riguardo il gioco, producendo meme sulle location rilevanti del gioco e riflettendo sulle meccaniche.
I non appassionati e gli hater da trend sociale sono insorti inesorabili verso i “ragazzini” che giocavano a Pokémon Go e che affollavano i loro punti di ritrovo digitali preferiti.
Il risultato finale di questo processo è stato pressoché ovvio: come spesso accade, chi non apprezzava il franchise, i non appassionati e gli hater da trend sociale sono insorti inesorabili verso i “ragazzini” che giocavano a Pokémon Go e che affollavano i loro punti di ritrovo digitali preferiti. Ma l’impressione che si ha è più che altro quella di un’opposizione di principio verso qualcosa che già in passato si aveva fatto fatica a comprendere. Dal classico “ma la cara vecchia figa non vi piace più?” passando per “c’avete 30 anni ancora a giocare coi Pokemon?” fino al disperato tentativo di attaccamento al realismo di “Ma lo volete capire sì o no che i Pokèmon non esistono davvero?, la resistenza a questo trend sbalorditivamente popolare è spesso evidente.
I motivi possono ad esempio cominciare a rintracciarsi dietro le modalità della prima diffusione del franchise in Italia, e cioè tramite cartoni animati. Se nel 2001 non eravamo pronti a considerare seriamente un cartone che andava in onda alle 4 di pomeriggio su Italia Uno all’interno di un contenitore come Bim Bum Bam, saremmo stati certi che l’attenzione del pubblico italiano più maturo nei confronti di tutto il mondo Pokemon non sarebbe mai divenuta troppo grande.
I Pokemon, da subito, sono stati considerati un prodotto per bambini e forse nulla ci avrebbe fatto cambiare idea. Nei seguenti anni il trend è cresciuto e i nuovi giochi sono stati accolti positivamente dai fan, ma almeno in questo caso si è trattato di un fenomeno che ha continuato a riguardare in gran parte il medesimo giovane pubblico.
Ora, però, l’immenso valore innovativo e mediatico di Pokémon Go ha fatto in modo di finire proprio sotto il naso di quelle persone che mai l’avrebbero considerato un prodotto effettivamente interessante. Basta andare su un qualunque sito di informazione, anche generalista, o qualunque social network per capire quanto le proporzioni del fenomeno siano impossibili da ignorare. Da qui l’insofferenza, la frustrazione di vedere riempito di attenzioni un mondo che mai si sarebbe potuto pensare in grado di influenzare “la vita vera”. Per alcune fasce meno attente, sarebbe come vedere il mondo impazzire per il videogioco di Peppa Pig.
Eppure non si può fare a meno, rimanendo comunque un non giocatore del suddetto gioco, di essere dispiaciuti per il fraintendimento. Pokèmon Go è un gioco seriamente originale (e sì, anche considerato l’illustre precedente di Ingress, della stessa Niantic), pensato in modo intelligente, e tecnologicamente parlando avanguardistico, se non in senso pratico sicuramente nella proposta: azzardare l’uso della realtà aumentata con un brand così forte è indubbiamente un gesto audace.
Forse il fatto che il giocatore di Pokémon Go, figlio dello stereotipo del “nerd poco adatto alle relazioni sociali” si riversi in strada, abbracciando finalmente l’ambiente esterno, sembra non andare giù ai fan della realtà non-aumentata. Forse si sentono invasi, incapaci di controllare qualcosa che non vedono (ma non per forza che non esiste).
Il gioco rimane forse l’esperimento più interessante del settore degli ultimi anni, in grado di alterare la concezione di “reale” tanto quanto gli ultimi traguardi della realtà virtuale. Le meccaniche di gioco non si limitano ai Pokémon: aprono un’infinità di possibilità creative sfruttabili non solo grazie a Charmander, Bulbasaur e Squirtle, ma adattabili praticamente a qualunque altro asset.
Dunque: grazie Pokémon Go per averci dimostrato che forse è giunto il momento di entrare nell’ottica che chiunque affermi “Lo volete capire che i Pokémon non esistono?” probabilmente si sta sbagliando.
Non esistono ANCORA.
Matteo muove i fili dell’entertainment della Penisola e di tanto in tanto scrive su Motherboard: seguilo su Facebook.