Questo post è realizzato in collaborazione con La Guarimba Film Festival, festival di cortometraggi indipendenti che si svolgerà ad Amantea, in Calabria, dal 7 all’11 agosto.
Una domanda che sta molto al cuore al dibattito femminista è: il fatto che a una donna piaccia il porno tradizionale, quello in cui le donne sono oggettificata e tutti indossano vestiti zarri, la rende non (o meno) femminista? È stata la prima cosa che ho chiesto alla regista e performer francese Olympe De G. e alla produttrice, attrice, scrittrice e regista svedese Erika Lust quando le ho contattate per parlare del futuro del porno femminista e di Don’t Call Me a Dick, cortometraggio della prima uscito per la casa di produzione Lust Productions.
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“Giusto e sbagliato non esistono, basta che per quella donna sia eccitante,” mi ha risposto Erika Lust, “il sesso serve a molte persone per esplorare situazioni o parti di sé che non esplorerebbero altrimenti. Alcune donne che nella vita quotidiana si sentono forti e indipendenti magari si sentono eccitate dall’opposto, perché dà loro la sensazione di avere infranto le regole. Non vuol dire che è meno femminista, vuol dire che è un essere umano e ha dei desideri.”
È un po’ questa, in effetti, la parte più liberatoria della corrente femminista del porno, almeno come la intendono queste due artiste: non costruisce dogmi e non esclude il piacere di nessuno (no, nemmeno quello degli uomini bianchi etero)—quello che fa è piuttosto aggiungere all’equazione sensazioni, scene e punti di vista che finora erano passati inosservati o in secondo piano.
È il caso dei super-close-up che caratterizzano Don’t Call Me a Dick, cortometraggio di art-feminist-porn nato da una domanda (“perché quando dobbiamo insultare qualcuno usiamo termini che ruotano intorno al mondo genitale, quando i genitali sono una cosa così bella?”) e da una poesia di Olympe De G., poi ampliata nella narrazione fuori campo che accompagna gli 11 minuti di film. “Don’t Call Me a Dick è una contemplazione poetica della bellezza dei sessi, e del sesso in generale,” racconta la regista.
“Quando l’ho scritto in forma cinematografica, già lavoravo [come regista e performer] con Erika Lust, e avevo l’idea di un film fatto di immagini macro portate all’estremo, al punto da risultare astratte e generare confusione,” continua Olympe De G. “Abbiamo girato con una Phantom, una telecamera per l’ultra slow motion difficilissima da usare: per esempio serve un sacco di luce, perciò sul set si moriva di caldo e avevamo ventilatori ovunque. Ma ne è valsa la pena—abbiamo immagini così ravvicinate che lo spettatore riesce a vedere la perla di liquido preseminale che si crea sulla cappella, le piccole ondulazioni del pene quando un uomo è molto eccitato, un’eiaculazione femminile che lascia tante goccioline sulle gambe della donna.”
Ma cosa diversifica il porno femminista dal porno in generale, e cosa rende Don’t Call Me a Dick un porno femminista? Anzitutto, facile immaginarlo, il fatto di considerare la donna non come uno strumento ma come un soggetto del piacere—dimostrando così che il piacere femminile importa—è una discriminante fondamentale. “Gli uomini e le donne vengono trattati come collaboratori al sesso, non come oggetti o macchine,” spiega Erika Lust. “I film promuovono l’eguaglianza e la lotta agli stereotipi, che fanno male tanto alle donne quanto agli uomini.”
XConfessions per esempio, raccolta periodica di contenuti pornografici curata da Erika Lust giunta quest’anno alla 13esima edizione, ospita prodotti di registe, operatrici, DOP e producer che condividono valori femministi e li trasmettono nei propri film. “Spero anche che ci saranno sempre più registe donne che aiutino a cambiare l’industria,” continua. “Ecco perché ho aperto un bando per registe—ad oggi ho finanziato più di 25 film investendo più di 250mila dollari.”
Nelle XConfessions e nel porno femminista in generale non si accettano scene di abusi, coercizione, pedofilia o feticizzazioni, né categorizzazioni in generale. Il fine? “È importante capire che il porno ha il potere di liberare!” dice Erika Lust. “Se nei nostri film mostriamo la diversità, la persone vi si rispecchieranno, si vedranno fare sesso e impareranno anche a riconoscere anche che la sessualità esiste in una vasta gamma. Senza i valori tossici di un certo tipo di porno.”
“Sono sempre stata molto diretta in fatto di sesso, e per tutta la vita mi sono sentita intimare di ‘comportarmi da ragazza’. Questo mi ha esasperato al punto che ho deciso di fare porno,” ricorda Olympe De G. “Allora facevo già la regista di videoclip musicali. Il porno mi sembrava una buona strada a livello creativo, perché c’è un sacco da reinventare. E poi volevo chiarire una volta per tutte che, in quanto donna, sono un soggetto sessuale portatore di desideri, bisogni e fantasie. È per questo che nel mio primo film esplicito non ho fatto solo l’autrice e la regista, ma anche l’attrice. Volevo mostrare che il sesso è bello ed è giusto: è un bisogno, non una cosa di cui una donna dovrebbe vergognarsi.”
Ora come ora, spiega, il porno femminista consente alle donne di creare uno spazio in cui esprimere la propria definizione di “eccitante”: come vogliono essere toccate, come vogliono esibire il proprio corpo. “Il giorno che ci saranno tanti film fatti da uomini quanti film fatti dalle donne, non avremo più bisogno di pornografia femminista!” dice. Anche perché, ci tiene a ricordare Erika Lust, al contrario di quanto credono in molti, il porno femminista non è fatto esclusivamente per le donne. “Molti pensano che sia tutto rose e lenzuola di seta, ma non è così. Il porno femminista può essere hardcore, può essere BDSM, può essere anal—può essere qualsiasi cosa e soddisfare tutti.”
“Penso che, in quanto donna, sia bello vedere altre donne che sono in pace col proprio corpo, con i loro desideri e le loro fantasie, a loro agio con la sessualità, perché non c’è proprio niente da giudicare,” concorda Olympe De G. “Ed è una fonte di ispirazione, inoltre, vedere in quanti modi diversi le donne trovino piacere: ti dà delle idee! Penso che anche gli uomini possano trarre beneficio dal porno femminista: capire cosa eccita le donne può renderli meno ansiosi sul proprio pene e più consci dei moltissimi modi di condividere il piacere che esistono.”
Per qualche motivo, come dimostra proprio anche Don’t Call Me a Dick, esiste anche una relazione abbastanza stabile tra la corrente femminista e la corrente ‘artsy’ del porno, che forse dipende dalla sensibilità e della conoscenza della storia della materia che le registe hanno. “Unire porno e arte è molto importante per me, voglio dimostrare che non sono cose che si escludono a vicenda,” spiega Erika Lust. “Durante l’epoca d’oro del porno americano, negli anni Settanta, i film per adulti venivano proiettati nei cinema e recensiti dai giornalisti di prim’ordine. Sfortunatamente tutto è cambiato con l’era delle VHS e con internet: il porno è diventato qualcosa che tutti potevano fare, con pochi soldi e una telecamera. Le aspettative e i consumi sono cambiati, e nessuno si aspettava più di vedere porno artistico. Ora, insieme ad altri filmmaker, stiamo cercando di ridare legittimità all’industria, e dimostrare che il porno può essere artistico e bellissimo.”
“Idealmente, vorrei che la sessualità fosse normale al punto che non ci sentiamo in dovere di classificare i film o come arte o come porno,” aggiunge Olympe De G. “Io penso che quando un film esplicito ha una sua visione creativa, può e deve essere classificato sia come porno sia come art movie. Il porno può essere arte, e l’arte può essere pornografica. Quando dirigo un film non penso alle categorie, semplicemente cerco di mostrare il sesso in modo diverso.”
E, a circa dieci anni dai primi prodotti di questo tipo, sembra che la ricerca di qualcosa di diverso rispetto al porno tradizionale stia pagando. “Molti uomini e donne, soprattutto negli ultimi dieci anni, si sono uniti al movimento per il porno etico. Nel corso degli ultimi cinque anni le ricerche per ‘porno femminista’ sono triplicate,” spiega Erika Lust. “Ed è questo che mi sprona a continuare nel mio lavoro.”
Per concludere, abbiamo chiesto a entrambe di darci qualche consiglio per chi voglia scoprire di più e avvicinarsi alla pornografia femminista. “Più che film, vorrei consigliare opere che mi hanno ispirato a fare porno femminista: il saggio King Kong Théorie di Virginie Despentes, il documentario Pornocracy di Ovidie, e il corto porno gay di Matt Lambert Flower,” sono i consigli di Olympe De G.
“I miei film preferiti cambiano in continuazione!” avverte Erika Lust. “Oggi mi sento di consigliare Moist di Poppy Sanchez, un viaggio voyeuristico nel noto Kit Kat Klub di Berlino uscito in XConfessions; Gender Bender, mio, nato per celebrare le voci queer e contro le rigide divisioni di genere; Feminist & Submissive, in cui insieme a un gruppo di donne ho cercato di rispondere alla domanda se si possa essere femministe e sottomesse (ovviamente sì) per poi, dopo la discussione, girare una scena molto forte di BDSM tra Lina Bembe e il master Owen Gray. E poi sono una grande fan dell’arte erotica e una delle mie artiste preferite, con cui ho recentemente collaborato al film Ink is in my Blood, è Apollonia Saintclaire.”
Don’t Call Me a Dick sarà proiettato nel corso del Guarimba Film Festival di Amantea, in Calabria. Il festival, giunto alla sesta edizione, si terrà tra il 7 e l’11 agosto, ed è dedicato a cortometraggi fiction, documentari, sperimentali e di animazione, nonché videoclip musicali. VICE sarà presente il 9 agosto con un talk dedicato all’uso dello strumento video all’interno della programmazione editoriale. Trovi tutte le informazioni sul festival qui.