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Macro

Ma non dovevamo essere all'inizio della prossima crisi finanziaria?

In questi ultimi giorni le borse di tutto il mondo stanno festeggiando, ma probabilmente la fine della crisi cinese non è così vicina come si pensa e a breve le cose potrebbero peggiorare di nuovo.

Una statua in onore della rivoluzione cinese. Foto

via Flickr/Benjamin Lyons

Questo post fa parte di Macro, la nostra serie su economia, lavoro e finanza personale in collaborazione con Hello bank!

In questi giorni le borse di tutto il mondo stanno festeggiando: Ieri Wall Street ha aperto le contrattazioni con il suo indice azionario principale, il Dow Jones, che guadagnava l'1,3 percento, mentre anche dalle piazze europee arrivavano segnali positivi. Persino la borsa di Shanghai, che nei giorni scorsi aveva iniziato un crollo apparentemente inarrestabile, ha chiuso con un rassicurante più 5,4 percento. Il mercato—quel paziente ciclotimico che nelle ultime settimane aveva dato segni di ansia e depressione—è tornato finalmente di buonumore, e dai giornali sono scomparsi con la stessa velocità con cui erano apparsi i titoli tipo "questo è l'inizio della nuova crisi finanziaria mondiale."

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Quindi l'allarme è rientrato? Oppure non c'era mai stato, e come spesso accade è stato il circo mediatico a riempire pagine e pagine di considerazioni preoccupate per niente? O ancora, per dirla con T. S. Eliot, "così è come il mondo finisce, non con un botto ma con un piagnucolio?"

La correzione non è finita

Foto via Flickr/Aaron Goodman "Correzione" è un termine rassicurante. Nella sua accezione generale, indica "l'azione di correggere, migliorare o cercare di migliorare," qualcosa "eliminando errori, imperfezioni e difetti." Insomma, sembra che un mercato che entra in correzione, come accaduto a quello finanziario cinese, non possa più sbagliare. Ma in economia il processo di correzione è molto più complesso e caotico di quanto si tenda a pensare.

Tra lo scorso giugno e i primi giorni di questa settimana, l'indice di Shanghai ha perso il 43 percento del suo valore—eppure, ancora oggi è a livelli del 50 percento più alti rispetto a quelli di inizio 2014, raggiunti dopo 935 giorni di continui rialzi per una crescita cumulata vicina al 150 percento. Alla luce di questi dati, come ha spiegato l'influente commentatore economico del Financial Times Martin Wolf, "l'implosione della seconda bolla azionaria cinese nel giro di un decennio non sembra ancora terminata." Anzi.

Secondo fonti anonime del sito statunitense Business Insider, il più 5,4 percento di giovedì non sarebbe il risultato della rinnovata fiducia dei mercati in seguito ai nuovi interventi di politica monetaria annunciati martedì (tra cui il quinto taglio al costo del denaro dallo scorso novembre), ma la conseguenza di un vero e proprio intervento a piene mani del governo cinese, non annunciato, per ravvivare i corsi azionari. Il 3 settembre, infatti, ricorrerà il settantesimo anniversario della vittoria sul Giappone durante la seconda guerra mondiale e—secondo le fonti di Business Insider—il governo cinese non vorrebbe arrivare a quel giorno con i mercati in negativo perché ciò offuscherebbe l'immagine di crescente potenza e influenza regionale della Cina.

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Il gande casinò di Shangai

Il centro di Shanghai. Foto via Flickr/

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"La correzione, quando alla fine arrivò, non fu lo scoppio improvviso di una bolla di sapone, ma un lento declino, un anno di piccole perdite sui mercati finanziari più importanti, una contrazione troppo graduale per fare notizia e troppo prevedibile per danneggiare seriamente qualcuno a parte gli sciocchi e i lavoratori poveri." Questa descrizione di Jonathan Franzen nel suo romanzo Le correzioni potrebbe essere lo scenario più desiderabile oggi per il governo cinese.

Quando Pechino ha visto infrangersi il sogno di una borsa sempre in positivo, ha reagito provando a prendere i mercati per le corna—come nel fine settimana tra del 22-23 agosto, quando l'assenza di interventi aveva fatto pensare che il governo volesse smettere di assecondare i mercati. Così facendo, però, ha solo ottenuto un crollo di borsa ancora più marcato, un vero incubo per il comitato centrale del Partito Comunista Cinese. La censura delle cattive notizie sui giornali, gli anatemi contro gli investitori stranieri, le inchieste e gli arresti di trader non cambiano quella che è la verità di fondo del sistema monetario internazionale attuale—ossia che oggi nessun governo, nemmeno un regime totalitario come quello cinese, è abbastanza forte da poter fare la guerra ai mercati finanziari e sperare di vincere. E del resto, i mercati hanno più di una buona ragione per non fidarsi della Cina.

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Secondo Martin Wolf, per anni il mercato finanziario cinese "è stato un casinò in cui ogni scommettitore sperava di trovare qualche scommettitore più stupido a cui vendere chip che non valevano il loro prezzo, prima che fosse troppo tardi. Un mercato del genere non può che essere estremamente volatile. Ma le sue bizzarrie dovrebbero dirci qualcosa più in generale sullo stato di salute dell'economia cinese."

Anche la Cina ha i suoi problemi

Skyline di Shanghai. Foto

via Flickr/Geee Kay

Per anni la Cina ha fissato il tasso di cambio della sua moneta, lo yuan, a un livello artificialmente basso in modo da stimolare le sue esportazioni, rendendo i propri prodotti più convenienti per i consumatori di tutto il mondo. Per fare questo, la Banca Centrale cinese ha comprato molti più yuan per ogni dollaro rispetto a quanto non fosse pronto a fare il mercato, accumulando così enormi riserve in dollari e creando dal nulla enormi quantità di yuan.

Il gioco era semplice: il tasso di interesse molto basso spingeva i beni cinesi sul mercato statunitense, dove questi venivano venduti in cambio di dollari; gli esportatori cinesi poi vendevano quei dollari alla banca centrale di Pechino in cambio di una quantità più che proporzionale di yuan, che potevano essere utilizzati in Cina. In questo modo, la Cina ha potuto avere tassi di investimento elevatissimi: ancora nel 2014, il 44 percento del Pil nazionale veniva reinvestito—stimolando così la crescita futura. Ma le opportunità di investimenti produttivi sono limitate e investire il 44 percento del Pil per ottenere una crescita del 5,3 percento—tale è quella prevista per il 2015—non può che essere considerato uno spreco irrazionale di risorse. "Questi dati," spiega sempre Wolf sul Financial Times, "suggeriscono ritorni marginali dagli investimenti estremamente bassi, forse persino negativi".

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Un tasso di investimento così alto significa anche un aumento corrispondente del livello del debito: tra il 2007 e il 2014 il debito nazionale totale è passato da 7mila a 28mila miliardi di dollari—il 282 percento del Pil—che il rallentamento della crescita rende sempre più difficile ripagare. Finché la borsa saliva, i bilanci delle aziende potevano migliorare grazie al crescente valore delle azioni—tanto che, secondo Derek Scissor dell'American Enterprise Institute, a Pechino avevano iniziato a pensare che questa potesse essere la soluzione al problema del debito nazionale—ma poi il crollo dei mercato ha spezzato l'incantesimo.

Vulnerabilità globali, eccessi di liquidità

La sede centrale della Banca Popolare Cinese. Foto via

Wikimedia Commons

Osservando le cose da questo punto di vista, diventa chiaro che "tutto quello che avete sentito sul crash finanziario cinese è sbagliato." All'inizio della crisi la Banca centrale cinese ha tentato di tamponare il crollo dei mercati iniettando denaro nel sistema, una manovra del valore di oltre mille miliardi.

Per capire perché questo intervento non ha funzionato bisogna partire da quando—all'apice di un processo iniziato a fine 2014—sempre più investitori hanno deciso di vendere i propri asset denominati in moneta cinese, costringendo la Banca Centrale di Pechino a iniziare a vendere i propri dollari in cambio di yuan per mantenerne il valore al livello stabilito. Questo ha diminuito la liquidità totale del sistema (c'erano infatti meno yuan in circolazione), aumentato il costo dei prestiti e spinto il paese in una spirale di deflazione dei prezzi, rendendo sempre peggiore lo stato di salute dell'economia nel suo complesso e relativamente più costoso ripagare 28mila miliardi di dollari di debito. Di qui gli interventi da mille miliardi, che hanno aumentato la liquidità e spinto in basso il valore dello yuan fino alla svalutazione dello scorso 11 agosto, che ha segnato il progressivo sganciamento della moneta cinese dal dollaro—un segno del fatto che fronteggiare le fughe di capitali verso l'estero era ormai diventato troppo costoso per la Banca Centrale di Pechino.

Il taglio dei tassi ha colpito negativamente la domanda cinese di materie prime importate dall'estero, i cui prezzi sono così iniziati a calare innescando un processo globale di caduta del valore delle valute dei paesi emergenti—meno 11 percento in Sudafrica, meno 12 percento in Indonesia, meno 13 percento in Russia e meno 25 percento in Brasile. Una "tempesta perfetta" che ha fatto tremare i mercati finanziari globali, prima che dalla Fed—la banca centrale americana, custode della liquidità globale—arrivassero segnali rassicuranti: l'annunciato innalzamento del costo del denaro previsto per settembre sarà forse rimandato ancora una volta.

Ma le acque non sono ancora tranquille, proprio perché le opzioni sul tavolo delle autorità cinesi sono tutte molto complesse. Oggi il presidente Xi Jinping si trova ad avere tre problemi legati l'uno all'altro: deve far sgonfiare la bolla dei mercati senza entrare in una crisi finanziaria senza fine; trasformare l'economia del paese, basata sugli investimenti, in un'economia basata sulla domanda interna—trasformare, cioè, i lavoratori cinesi da fattori di produzione a basso costo a consumatori sul mercato interno—e riuscire a mantenere nel mentre un tasso di crescita economica accettabile perché non venga meno la pace sociale e la stabilità del paese.

"Forse il mercato ha capito quanto questo sarà difficile e quanto sono destabilizzanti alcune delle opzioni che la Cina si trova di fronte—che includono svalutazione, tassi di interesse bassissimi e programmi di acquisto di titoli," ha detto Wolf. "Se sarà questa la direzione che il governo prenderò, il tumulto dei mercati potrebbe non essere irrazionale." È il problema dei "saving gluts," quell'eccesso di liquidità globale che, in un mondo in cui il denaro non conosce frontiere, si aggira per il globo almeno dagli anni Novanta in cerca dei ritorni più alti e più immediati, creando distorsioni, bolle insostenibili e crisi. "Un problema che potrebbe persino peggiorare," ha concluso Wolf, "e che toccherebbe tutti quanti."

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