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Le foto di Harald Hauswald dall'altra parte del muro di Berlino

Mostrando sotto una nuova luce le vite di operai, contadini e criminali, Harald ha contribuito a plasmare la percezione che la mia generazione ha della Germania Est. L'ho incontrato per parlare della sua carriera.

Harald Hauswald è il co-fondatore di Ostkreuz, una delle agenzie fotografiche più importanti e famose della Germania. La figura di Hauswald è così leggendaria che negli anni Ottanta le sue foto venivano pubblicate sulle riviste della Germania Ovest nonostante lui vivesse in quella dell'Est. Oggi vive ancora nel quartiere di Prenzlauer Berg, a Berlino, insieme a un enorme archivio di più di 10.000 rullini.

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Mostrando sotto una nuova luce le vite di operai, contadini e criminali, Harald ha contribuito a plasmare la percezione che la mia generazione ha della Germania Est. L'ho incontrato per parlare con lui di come riusciva a far arrivare le sue foto in Germania Ovest e del fascicolo che la Stasi aveva su di lui.

VICE: Ostkreuz è stata fondata a Parigi, non a Berlino, giusto?
Harald Hauswald: A febbraio del 1990, il ministro della cultura francese Jack Lang ha chiamato a Parigi 200 artisti provenienti dalla Germania dell'Est, tra gruppi musicali, artisti performativi e pittori. C'era una grande sala per le esibizioni, con un bar. Al bar eravamo quattro o cinque fotografi, e insieme abbiamo deciso che avevamo bisogno di un'agenzia. Per cominciare lo abbiamo proposto a una decina di persone. Tre di loro non erano interessate, mentre gli altri si sono uniti a noi e abbiamo fondato l'agenzia. La parte più difficile è stata darle un nome. "Ostkreuz" è piaciuto a tutti, per i suoi molteplici significati: rimandava all'est e a Berlino, ma anche agli incroci stradali, alle intersezioni e ai punti di ritrovo.

Anche se vivevi nella Germania dell'Est, riuscivi a esporre le tue foto in quella dell'Ovest. Come facevi?
Berlino era un mondo a parte. C'erano una quindicina di giornalisti dell'ovest che avevano il permesso di lavorare nella parte est o che ci vivevano. Io ne conoscevo alcuni: ad esempio Peter Pragal, di Stern, che aveva un ufficio in Leipziger Strasse, nella zona est, ma viveva in quella ovest. Oppure Hans-Jürgen Röder della Evangelische Pressedienst, che viveva a Berlino Est. Entrambi avevano un lasciapassare speciale—una sorta di passaporto diplomatico—grazie al quale potevano portare materiale attraverso il confine senza essere controllati.

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Ovviamente sapevamo che i loro uffici erano controllati, perciò per comunicare con loro preparavo delle lettere scritte a mano, su cui non indicavo il mittente. Poi, prima di lasciare il loro ufficio, tiravo fuori la lettera, e se loro annuivano significava che quel giorno sarebbero tornati a ovest e avrebbero portato con loro le mie foto.

All'epoca pubblicavi le tue foto con il tuo vero nome?
All'inizio no. Per anni ho evitato di mettere il mio nome. Nel 1986 ho fatto due reportage per l'edizione di Berlino di GEO. In quell'anno ricorreva il settecentocinquantesimo anniversario della fondazione della città, e io ho fotografato la zona est. L'ho pubblicato con il mio vero nome. Per quel motivo mi hanno impedito di accedere al Berlin Verlag, che era l'unico posto dove si potevano sviluppare le pellicole provenienti dall'ovest, che necessitavano di un processo diverso. Avevo un tesserino d'accesso a quel laboratorio, e GEO mi aveva inviato 100 rullini Kodak.

E non era proprio legale, vero?
No, affatto. Sono stato accusato di aver infranto quattro leggi: di aver diffuso notizie non segrete (che significava qualsiasi notizia che non avesse a che fare con l'esercito), di essere stato una spia straniera, un sovversivo e di aver violato le norme sul controllo degli scambi tra l'est e l'ovest.

E com'è andata a finire?
La Stasi ha perquisito casa mia varie volte, mettendo insieme circa cinque chili di documenti, ma non sono mai finito in carcere. Il fatto che fossi in contatto con dei giornalisti occidentali mi ha protetto. La Germania Est era molto preoccupata dell'opinione che il mondo aveva di lei. E se su un giornale francese o italiano fosse comparsa una notizia su un "fotografo incarcerato per aver pubblicato delle foto in un paese confinante," sarebbe stato un problema.​

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​Quella è stata la mia fortuna. O almeno penso che sia andata così. Era tutto nel fascicolo della Stasi su di me. C'era un mandato d'arresto su cui uno dei più alti funzionari della Stasi aveva aggiunto una nota a penna: "Per ragioni politiche, al momento è sconsigliabile."

Che effetto faceva la mancanza di libertà che c'era in Germania Est?
Essere giovane e sapere che non saresti mai potuto andare ad un concerto dei Led Zeppelin o che non avresti mai potuto visitare New York era molto triste. Solo la fotografia mi faceva sentire libero. Ma volevo anche essere provocatorio. Qui a Berlino si vedevano chiaramente le contraddizioni del regime. Honecker inaugurava il milionesimo appartamento costruito nel quartiere di Marzahn mentre lo stucco degli edifici pioveva sui marciapiedi.

Com'è ora la Germania riunificata?
Oggi a governare sono i soldi, e bisogna diffidare. Ci sono ancora accordi sotto banco e ce ne saranno sempre di nuovi. Ma a parte questo, sto bene. Sono libero. Posso pensare e fare quello che voglio, anche se non faccio niente di diverso da quello che facevo allora. Non ho nessuna scocciatura, a parte le tasse. Il fisco è la nuova Stasi.

Hai lavorato molto con gli ultras ma non ti sei mai interessato al calcio, giusto?
Sì. Nel 1988 Monika Zimmermann era venuta in Germania dell'Est per il Frankfurter Allgemeine Zeitung. Mi aveva chiesto se potevo farle delle foto, altrimenti avrebbe dovuto far arrivare un fotografo da Francoforte. Ci siamo incontrati per la prima volta allo stadio, c'era il derby tra BFC e Union Berlin. Aveva comprato i biglietti. Eravamo fuori dallo stadio e ci stavamo annoiando, quando ho visto alcune persone che facevano delle riprese lì intorno. Ho detto alla polizia che aveva bloccato la zona che facevo parte della troupe e mi hanno fatto passare. Conoscevo gli operatori attraverso degli amici. Stavano girando un documentario sui tifosi dell'Union Berlin. Durante quelle riprese abbiamo conosciuto qualche ultras.

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Mi riesce difficile immaginare come fossero gli ultras in Germania Est.
Cosa pensi che succedesse lì negli anni Settanta? C'erano risse enormi, con mille persone da ambo le parti. Quando il BFC giocava a Lipsia, ogni curva era composta da 600, 700, 800 persone ed esplodeva la violenza. Ma non erano curve ufficiali, e gli scontri non venivano mai menzionati da nessuna parte. Quando sono stato assunto per lavorare al documentario mi hanno incaricato di fotografare gli ultras. Alcuni di loro mi hanno chiesto se fossi disposto a seguirli, ed è così che è iniziato tutto. Li ho accompagnati per cinque anni e con il materiale ho realizzato un libro fotografico. Oggi li frequento ancora, di tanto in tanto.

Che tipo di persone sono?
Uno degli ultras dell'Union ai tempi era uno studente di medicina. Sono persone che vengono da ogni tipo di contesto sociale. Ci sono gli stupidi, certo, ma ci sono anche delle persone molto intelligenti. Alle partite li si riconosce dalle scarpe o dal fatto che non indossano nessun simbolo della squadra. Nessuna bandiera, sciarpa, stemma o adesivo: così non possono essere identificati.

La rivalità tra BFC Dynamo e Union Berlino risale ai tempi della Germania Est.
Sì, la Union era la squadra dei lavoratori mentre la BFC era quella della Stasi.

Perché tifare BFC allora?
Nel suo periodo d'oro, la BFC aveva circa 1.000 ultras. Molte persone tifavano BFC perché Berlino era odiata da tutto il resto della Germania Est, perché riceveva un trattamento speciale in termini di rifornimenti. Inoltre, appunto, la BFC era il club della Stasi. Quindi ogni domenica gli scontri erano garantiti.

La Stasi lo sapeva?
Mielke era orgoglioso dei suoi ultras, perché avevano tutti un lavoro. Non erano degli antisociali, erano tutti tedeschi perbene. Quando la squadra giocava al Karl-Marx-Stadt e la polizia arrestava qualche tifoso, arrivavano gli agenti della Stasi a dire ai poliziotti di lasciarli andare. Succedeva spesso. Avevano un buon rapporto con le forze di polizia e qualche volta bevevano insieme.

C'è una chiave di lettura teorica nel tuo lavoro?
Ogni volta che mi chiamano a tenere una lezione, dico sempre ai ragazzi, "Dovete pensare che, quando vi svegliate, il rullino della vostra vita inizia a srotolarsi, e continuerà a farlo per tutto il giorno. Ma quando scattate una foto, il rullino si ferma per un attimo. Voi vedete quello che succede prima e dopo quell'attimo, quindi provate a rappresentare anche quello. Così chi vedrà la vostra foto sarà in grado di capirla, di vedere tutta la sequenza. Questo è quanto. Se lo capite, farete delle belle foto. Se le altre persone riescono a vedere la sequenza, allora funziona."

Ostkreuz ha appena aperto un nuovo ​negozio online, dove si possono acquistare le fotografie più belle dell'agenzia in edizione limitata.