Morte dell'hobo americano

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A9N1: Sangue al cervello

Morte dell'hobo americano

Un viaggio su treni merci verso la 112esima National Hobo Convention, per scoprire cosa rimane della vita del vagabondo.

Quando attraverso una città, o una zona suburbana, o magari un boschetto, incontrare le rotaie di una ferrovia mi dà un immediato sollievo. È come se le paure e i dubbi e le ansie della vita quotidiana svanissero in un attimo. La morsa in cui la civiltà e questo mondo mi tengono stretta la testa si allenta un po’, e per qualche momento posso respirare liberamente.

Le rotaie sono ancora qui, in questo nostro futuro desolato e digitalizzato da 2001: Odissea nello spazio, relitti di tempi in cui i mastodontici cavalli di ferro e le carrozze passeggeri della Pullman fendevano terre selvagge nere come la pece, sfrecciando a gasolio attraverso la notte.

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In questo puzzle interminabile di strade, macchine, ripetitori, affari, case, lavoro, famiglia, i binari del treno sono una via di fuga, una botola, uno spazio vergine, un’eccezione in cui regnano ancora silenzio e anarchia.

Se strade e superstrade sono le arterie d’America, le centinaia di migliaia di chilometri di binari sono come i diagrammi dei chakra nelle cliniche di agopuntura, sorgenti nascoste dell’energia che si irradia a tutto il corpo. È come se il vapore di secoli d’America dallo spirito audace e forte vivesse nel puzzo velenoso che si alza dai binari caldi e incatramati. È l’ultima roccaforte di America autentica, immacolata ai rimorsi del moderno progresso.

Come molti sanno, a metà circa del diciannovesimo secolo Henry David Thoreau si trasferì in una capanna sulle rive di un lago poco fuori dalla sua città natale, Concord, in Massachusetts, e ci rimase per due anni, durante i quali scrisse Walden, ovvero vita nei boschi. Quello che non tutti sanno, invece, è che la capanna distava meno di 100 metri dai binari dei treni diretti a Concord, e che la casa della mamma dello scrittore era a mezz’ora di cammino, seguendo il tracciato dei binari.

In visita al lago Walden, poco tempo fa, impressionato dal luogo primordiale che Thoreau scelse per il suo esperimento, non ho però potuto fare a meno di notare che senza i binari—quel filo d’Arianna, quella pista di briciole che riporta alla civiltà—il suo lungo eremitaggio sarebbe stato nient’altro che un interminabile inferno. Thoreau aveva trovato quello che tutti cerchiamo, aveva preso il meglio da entrambi i mondi—natura e civiltà unite in un solo, piccolo pacchetto.

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Nella mia immaginazione, quando l’autore stava passando una notte solitaria e fredda nella sua capanna, e sentiva la mancanza degli amici rimasti a Boston, e si chiedeva perché diavolo fosse tornato al luogo natio a coltivare fagiolini, il fischio di un treno—rimbombante tra i boschi mentre la notte moriva—lo rafforzava nel suo proposito e gli ricordava che anche allora che era solo, rimaneva nondimeno membro del consorzio umano.

Sono cresciuto in una zona suburbana nel centro del North Carolina, una zona boschiva mite e accogliente, dove i treni merci erano un immancabile elemento del panorama. Quando andavo alle superiori, nelle sere d’autunno inoltrato, mentre nel mio quartiere cadevano foglie multicolori, ascoltavo il chiasso della banda della scuola in lontananza e il fischio del treno che sbuffava da qualche parte tra i boschi di caducifoglie e tutto il mio spirito era invaso dall’entusiasmo per il futuro, e per quello che ancora mi aspettava.

Gli anni dell’adolescenza li ho passati lungo i binari. C’era qualcosa di magico nel modo in cui si poteva dividere e dare forma al fogliame o scendere in una gola d’argilla dietro il parcheggio della farmacia, e ritrovarsi catapultati in un mondo segreto.

Appena compiuti i 18 anni, in un pomeriggio freddo e secco d’autunno, saltai per la prima volta su un treno merci in partenza da Raleigh insieme al mio amico Doug MacPherson. Quelle ore meravigliose passate stesi su cataste di legname incatramate, cercando di cogliere il movimento misterioso dei vagoni e della locomotiva nel deposito, sono calcificate nel midollo delle mie ossa—come un rompicapo che non capisci, ma che mano a mano che aggiungi pezzi inizia ad avere un senso. Il mio amico Cricket, veterano del saltare sui treni, ci diede una piccola mappa artigianale per orientarci tra i depositi di Linwood, nell’ovest del North Carolina. Le sue parole furono il severo ammonimento che viene dato a molti viaggiatori abusivi alla prima esperienza: “State giù e non fatevi vedere da nessuno.”

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Mentre il nostro treno sferragliava fuori da Raleigh, ignorammo prontamente il consiglio di Cricket e ci sedemmo sulla piattaforma del vagone merci, ed eravamo facilmente individuabili da tutte la auto ferme ai passaggi a livello. C’era qualcosa di elettrizzante nel salutare con ampi gesti delle braccia tutti i guidatori mentre passavamo—quando ci vedevano, gli sguardi si accendevano e si affrettavano ad additarci, e le loro labbra dicevano: “Guarda, vagabondi!” Era come se, lasciandoci trasportare sul treno merci, rendessimo di nuovo possibile credere in qualche mistero, come se grazie a noi di nuovo potessero contemplare l’ignoto.

Lo scenario di un viaggio su binari è completamente diverso da quello che si potrebbe vedere dai finestrini di una macchina in corsa—non ci sono benzinai, cartelloni pubblicitari, bar, marciapiedi o pedoni. È un universo di lotti abbandonati, ombre nette stampate dei lampioni dei cortili sul retro, cani randagi, ululati, barboni che bevono nei sottopassaggi, monoliti di spazzatura, piloni del telefono aggrediti da piante rampicanti. Quando ci si allontana alla volta di spazi aperti, lontano dalle strade, si assiste al trionfo della natura primitiva, ancora sconosciuta alle mani della civilizzazione.

Con la nostra mappa lacera, diretti in un luogo straniero, Doug e io ci sentivamo come una coppia di americani dei tempi passati—pionieri lontani da casa sui passi di una grande avventura. Ebbe così inizio il mio amore contorto, destinato a non essere mai pienamente soddisfatto, per saltare sui treni merci.

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L’autore addormentato sulla piattaforma esterna di un vagone merci, da qualche parte in Utah o in Wyoming.

"Diffidate da ogni impresa per la quale siano necessari abiti nuovi,” metteva in guardia Thoreau. Il grande pensatore radicale e non-conformista del New England potrebbe essere descritto come un proto-hobo, dal momento che poneva l’accento sull’autosufficienza, sul vivere all’aperto, sul vagare senza meta per i paesaggi ancora vergini dell’America. Gli storici sono d’accordo sull’affermare che è dopo la Guerra Civile che nasce il moderno hobo americano [il vagabondo nel senso specifico di lavoratore itinerante]. I giovani uomini avevano fatto ritorno alle loro case devastate. Alcuni, già avvezzi a dormire senza un tetto sulla testa e ad andare alla ricerca di cibo, divennero girovaghi, vagando di luogo in luogo alla ricerca di lavoro. Nella seconda metà del diciannovesimo secolo, gli hobo aumentarono in concomitanza con l’espansione a ovest della ferrovia.

Ai tempi che furono, gli hobo erano lavoratori itineranti che preferivano saltare a bordo di un treno merci piuttosto che pagarsi il viaggio in una carrozza passeggeri. Secondo una stima approssimativa, circa un milione di hobo saltarono sui treni merci tra il 1890 e il 1930. Ben Reitman, un anarchico randagio degli anni Venti, famoso per essere stato l’amante di Emma Goldman, ha identificato questa tassonomia: “Gli hobo erano uomini e donne senza fissa dimora che viaggiavano in cerca di lavoro; i tramp erano vagabondi senza un soldo che si spostavano in cerca di avventura, solo per il gusto di farlo, come me, e i bum erano la terza categoria di vagabondi, la più piccola ma la più problematica—il tipo di vagabondo drogato e alcolizzato, che ha perso ogni senso di rispettabilità in un contesto sociale [corsivi miei].”

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L’inizio del nuovo secolo fu un momento difficile per gli hobo. La Interstate Commerce Commission registrò, tra il 1898 e il 1908, che circa 48.000 hobo morirono sui treni merci e che altrettanti rimasero mutilati o comunque compromessi. I migranti usavano “viaggiare sulle barre”, ovvero sdraiarsi sulle barre strutturali in acciaio sotto il treno, distesi come Superman. Viaggiavano anche sui vagoni destinati ai bagagli, accucciandosi sulle piattaforme esterne dei veloci treni passeggeri. I treni merci e i treni per il trasporto del legname erano spesso così stipati di viaggiatori abusivi che era difficile trovare un posticino, dentro. La vita sui binari era sempre in bilico—alcuni cadevano giù dai treni o sotto ai treni, altri venivano assassinati, i meno fortunati congelavano fino a morire nelle vetture frigorifere o finivano asfissiati nei lunghi tunnel, privi dei moderni sistemi di areazione. L’esperto di ferrovie Lee Wheelbarger mi ha raccontato una storia che illustra bene questi pericoli—allora i treni a vapore schizzavano olio bollente e liquidi di scarico caldi su una piccola piattaforma dietro alla seconda locomotiva, chiamata “il chiostro delle scimmie”. Nelle notti fredde, gli hobo che non sapevano come cavarsela si spingevano di carrozza in carrozza attratti dal calore che si irradiava dalla caldaia della locomotiva; quando i fuochisti li trovavano erano così ustionati da sembrare scimmie carbonizzate.

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Oggi, se uno sbirro (nome dispregiativo con cui gli hobo chiamano gli agenti della polizia ferroviaria) ti vede che oltrepassi i confini di un deposito di treni, ti mette in guardia tranquillamente, ti fa una diffida o proprio al massimo ti sbatte in galera per un paio di giorni. All’inizio del ventesimo secolo, comunque, scoppiò un’infima guerriglia tra compagnie ferroviarie e hobo. Gli sbirri volevano uccidere impunemente e un po’ alla cieca i vagabondi, e i vagabondi sparavano ai poliziotti per vendicare i propri caduti. La vicenda trova buona resa drammatica nel film L’imperatore del Nord, in cui uno sbirro senza pietà, assassino di hobo, di nome “Shack” è sfidato dall’eroe errante “Numero Uno”. Numero Uno è pronto a tutto per saltare sul treno di Shack, irraggiungibile a tutti. Il personaggio di Shack è probabilmente basato su Jeff Carr, sbirro di fine Ottocento con una sinistra reputazione tra gli hobo.

Nello scritto sulla sua vita nel mondo ai margini della legalità, Non c’è scampo (1926), Jack Black, autore e fuorilegge, appuntava “[Jeff Carr ha] il grilletto facile—non si fa alcun problema a uccidere gli hobo. Se corri, ti spara; se resti dove sei, ti mette dentro per sei mesi. E comunque, preferisce di gran lunga che tu corra.” Anche Jack London scrisse di Carr in La strada, il libro del 1970 in cui parla del saltare sui treni: “Per fortuna non mi sono mai imbattuto in Jeff Carr. Ho attraversato Cheyenne durante una bufera di neve. C’erano con me 84 hobo. Il fatto di essere in molti ci rendeva forti e incuranti riguardo a moltissime cose, ma non riguardo a Jeff Carr. I connotati di Jeff Carr avevano colpito la nostra immaginazione, avevano offuscato la nostra virilità e l’intero gruppo era terrorizzato a morte da lui.”

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Oltre agli assassinii, anche l’estorsione dilagava. Gli impiegati delle ferrovie facevano irruzione nei vagoni merce e salassavano i girovaghi di tutti i pochi soldi che avevano, minacciando di sbatterli giù o farli arrestare se si rifiutavano di pagare. Sul finire dell’Ottocento, un gruppo di hobo formò un comitato sindacale di lavoratori disoccupati e itineranti chiamato Tourist Union #63, per proteggersi da ferrovieri e sbirri. Alcuni di loro proseguirono sulla strada dell’impegno civile e fondarono la American Civil Liberties Union. Più di 50 anni dopo, nel 1972, vinsero la lunga guerra per far decadere le datate e repressive leggi sul vagabondaggio.

Tra fine Ottocento e inizio Novecento la Tourist Union #63 teneva il suo congresso annuale a Chicago, allora luogo cardine della vita dell’hobo americano. Chicago possedeva i più estesi depositi ferroviari d’America ed era una stazione “naturale” per i fuorilegge del Paese, per i criminali, i radicali, i vagabondi. Dopo che un paio di edizioni furono rovinate da scoppi di tumulti o di violenze da parte delle forze dell’ordine, gli organizzatori fecero girare la voce che cercavano una nuova location. I fondatori di una piccola comunità agricola appena nata in Iowa, la comunità di Britt, si misero in contatto con loro per offrire il proprio umile villaggio come sede del congresso.

A differenza di molte città con una legislazione draconiana sul vagabondaggio, gli abitanti di Britt volevano i vagabondi tra i piedi—avevano bisogno di braccianti temporanei. Scaltramente, inoltre, compresero che invitare gli hobo nella loro città era un modo per distinguersi dalle altre comunità in via di sviluppo. Quindi i fondatori comprarono agli hobo biglietti di prima classe su treni Pullman perché venissero da Chicago a dare un occhio alla loro offerta. Agli hobo piacque Britt—c’erano molti spazi nella piccola cittadina per tenere i loro grandi incontri. Si fece un accordo, e la National Hobo Convention si tiene lì da ormai 112 anni.

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Ancora oggi, i vagabondi scendono in città un finesettimana all’anno, ad agosto, per trovare i propri cari, onorare i propri morti, mangiare stufato di avanzi, ed eleggere il Re e la Regina degli Hobo [Hobo King and Queen]. Britt ha un Museo degli Hobo [Hobo Museum], un Cimitero degli Hobo [Hobo Graveyard], una Baraccopoli degli Hobo [Hobo Jungle—Jungle è il termine specifico con cui ci si riferiva alle baraccopoli degli Hobo sorte durante la Grande Depressione] e anche un monumento all’Hobo Ignoto [Unknown Hobo].

Ho sempre voluto andare al raduno, quindi insieme ad altri tre, che a malapena conoscevo, abbiamo pianificato di spostarci in treno da Oakland a Britt in meno di cinque giorni. Quando si viaggia in questo modo, bisognerebbe rimanere aperti a tutto e non programmare, concedendo il tempo necessario a rivolgimenti di fato e fortuna. Ma per cause di forza maggiore non avevamo altro tempo, quindi abbiamo organizzato il viaggio così. Come disse Tennessee Williams, “Viaggiate! Provateci! Non c’è niente di meglio.”

Backwoods Jack canta una sua canzone al pubblico della Hobo Jungle di Britt.

Il nostro viaggio è cominciato sotto i peggiori auspici. Ci siamo dati appuntamento al Heinold’s First and Last Chance Saloon, un pub vecchio di un secolo nonché tana di Jack London, sul lungomare di Oakland: con me c’erano Jackson, il fotografo; il suo amico Ben che aveva un paio di settimane di ferie e andava in cerca di avventura; Chris, girovago e passeggero abusivo di treni, con cui avevo avuto degli scambi epistolari, ma che mai avevo incontrato di persona. Chris aveva viaggiato in lungo e in largo, io abbastanza, e Jackson e Ben erano al loro primo viaggio. Ci siamo accampati in un canale sotterraneo del deposito dei treni di Oakland, lasciandoci inondare, poiché stavamo sottovento, dall’odore tossico dell’impianto per il trattamento delle acque reflue, che ci faceva ardere la gola. Il mattino dopo siamo stati cacciati fuori da uno sbirro, che ha minacciato di sbatterci in galera, “e non volete finire in galera a Oakland.”

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Con l’avvertimento dello sbirro che ci risuonava nelle orecchie, siamo andati alla stazione dell’Amtrak con la coda tra le gambe e abbiamo comprato dei biglietti per Roseville, prima stazione successiva lungo la Overland Route. Una volta lì, siamo saltati su un treno pieno di spazzatura che si muoveva lentissimamente, ma quando eravamo a non più di 10 chilometri dalla città il treno si è fermato sferragliando. Siamo stati fatti scendere da tre poliziotti gentili, ci hanno detto che un conducente ci aveva visto saltar su. Quella notte, dopo aver passato ore a gironzolare per la periferia di Roseville cercando un sostituto al mio zaino rotto, abbiamo dormito sui gradini di una scuola superiore subito fuori dalla stazione dei treni. Il mattino dopo, Chris se ne è andato per la sua strada, mentre Ben, Jackson e io abbiamo attraversato la città per prendere il pullman diretto a Reno, in Nevada, pagando 15 dollari di biglietto.

Il deposito della Union Pacific, a Reno, è nel cono d’ombra proiettato dal grattacielo svettante del Nugget Casino. Arrivati, subito ci siamo infilati nel casinò. Erano ormai due giorni che vivevamo all’aperto, e dopo due giorni la moquette ai pavimenti e le pareti di specchi erano per noi una specie di viaggio d’acido, come stare in un luna park.

Siamo usciti dal casinò, siamo andati oltre gli irrigatori e oltre il praticello d’erba finta verde fluorescente, e ci siamo infilati nel primo buco nella siepe ornamentale. Proprio al di là di questa c’era una jungle—una baraccopoli o un semplice punto da cui saltare sui treni—lungo i binari, accanto a una recinzione metallica, disseminata di lattine di birra e spazzatura.

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Data l’esperienza durante buona parte del ventesimo secolo gli hobo hanno imparato a conoscere il sistema ferroviario tentando e sbagliando, e scambiandosi informazioni gli uni con gli altri. Negli anni Venti, i luoghi un po’ più protetti ai margini delle ferrovie erano pieni di gente che lavava i panni e cucinava pasti per tutti. Potevi avvicinarti a un gruppetto e chiedere ai veterani quale fosse il prossimo treno buono. I veterani sapevano gli orari, sapevano le strutture dei depositi e i punti giusti per saltar su, e tutto a memoria, grazie ad anni di tentativi ed esperienze.

Nel 1997, un anonimo appassionato di treni ha catalogato questo sapere in un unico volume, una guida a come saltare su un treno in qualunque città, paesino o sobborgo del Nord America. Il libriccino fotocopiato viene annualmente aggiornato con le informazioni inviate dai “collaboratori” di tutta la nazione. Questa moderna bussola per l’esploratore del mare di ferro passa poi, con discrezione, di mano in mano tra i pirati dei treni merci. Tutti i 50 stati e anche i Territori Canadesi hanno la loro pagina scritta in Times New Roman, nove punti, e sfruttano un elaborato sistema di acronimi. Ecco un assaggio dal paragrafo dedicato a Reno:

Reno (UP [United Pacific]): YD [yard, il deposito] è 3ME [tre miglia a est, quasi cinque chilometri] dal CH [city hall, municipio] di Reno, a Sparks… Per WBS [i treni della WB/per andare verso ovest], dovete percorrere il sovrappasso di McCarren fino all’estremità est, magari andare ancora più a est. Ora quello sbocco è chiuso, ma ci sono vie d’ingresso… Meglio di notte, c’è uno sbirro che ogni tanto controlla la ghisa e i GM [i treni General Motors], ma per lo più di giorno.

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Un treno con due locomotive diretto a est, a Chicago, partiva a mezzogiorno. Ci issiamo sulla recinzione metallica e corriamo al suo fianco, alla ricerca di una carrozza adatta.

Non trovandone, abbiamo optato per la vettura di coda—una locomotiva vuota in fondo al treno—ne abbiamo aperto la porta metallica e siamo sgusciati dentro.

Una locomotiva somiglia in tutto e per tutto alla cabina di pilotaggio di un aereo—la temperatura è controllata, è piena di bottoni, di pomi e di sedili dei capotreno. Ci sono bottigliette d’acqua nel frigo e un bagno. Jackson e Ben si guardavano intorno esitanti. Si erano immaginati di viaggiare all’aperto, in un vagone merci o in un vagone con il tetto apribile per il personale del treno, di quelli lunghi circa 15 metri—un buco alto un metro e mezzo annidato tra due vagoni-container.

Dentro, un treno è come una creatura viva, un drago primordiale. Scricchiola e mugugna e molla aria e bippa—scoreggia, anche. A ogni singolo rumore, Ben e Jackson saltavano, pensando che qualcosa si stesse rompendo. Quando ho spiegato loro che tutti i suoni erano normali, si sono rilassati. Il treno aveva ormai sferragliato fuori da Reno, e siamo usciti dei nostri nascondigli e ci siamo seduti sulle poltrone ergonomiche dei conducenti. Le rotaie divergevano dall’autostrada, e presto eravamo in aperta campagna, e a perdita d’occhio c’erano arbusti secchi e deserto bianco. Abbiamo aperto il finestrino e fumato e ci siamo seduti sulla piattaforma all’esterno, solo per farci schiaffeggiare dal vento del deserto. Viaggiavamo e sempre più lontano dalla civiltà, lontano dalle strade, dall’acqua, dalla gente, in luoghi dove i cellulari non funzionano e devi cercare di localizzare la tua posizione guardandoti intorno o affidandoti alle mappe ferroviarie. Mentre l’oscurità scendeva nella nostra locomotiva, attraversando il Nevada, abbiamo srotolato i sacchi a pelo e ci siamo addormentati.

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Quando mi sono svegliato, era notte fonda, eravamo a Elko, in Nevada, in un deposito treni. Fari accesi da entrambi i lati della nostra locomotiva. Sbircio dal finestrino e vedo che da una parte c’è il veicolo del rifornimento di carburante, e dall’altra un cart, di quelli da golf. Scuoto Ben e Jackson per svegliarli e dico loro che dobbiamo andarcene. Si sa che le locomotive in coda al treno vengono ispezionate ogni 24 ore. Quando sei solo, puoi chiuderti in bagno e stare zitto e fermo, ma eravamo in tre e non sapevamo dove scappare. Sentendo che un ferroviere era lì lì per fare irruzione e scoprirci, sono corso a una grande porta d’acciaio e mi ci sono appoggiato con tutto il mio peso, tenendo la maniglia. Dei passi si avvicinavano dall’altra parte e qualcuno ha cercato di abbassare la maniglia dall’esterno. Ha provato tre o quattro volte, ma ho opposto resistenza finché non ci ha rinunciato e se ne è andato.

Appena ha girato i tacchi, siamo scappati nell’aperto deserto e ci siamo nascosti tra i cespugli irti accanto all’ufficio dei sorveglianti del deposito. Così radunati, in cerca di una strategia, nel mezzo di cespugli spinosi di salvia del deserto con i nostri pesanti zaini, il vagabondaggio ci sembrava una versione amatoriale della leva militare.

I fari minacciosi dei sorveglianti erano tutt’intorno a noi, imprigionandoci nel nostro nascondiglio. Siamo rimasti a guardare mentre il treno si allontanava. Proprio mentre stavamo per mollare e andarcene verso l’autostrada, un lungo treno per il trasporto dei cereali è entrato nel deposito, diretto a est.

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Improvvisamente, i mezzi dei sorveglianti e degli operai sono scomparsi lasciandoci via libera. Corriamo accanto al treno mentre questo guadagna velocità, poi ci issiamo in un vagone perfetto, abbastanza grande da starci sdraiati in tre. Il treno ha accelerato ed è entrato in un canyon deserto, inondato dalla luce pallida della luna piena. Il treno merci, da vero tiranno e sommo maestro, ci aveva fatto soffrire prima di concederci la sua grande ricompensa. Il nostro vagone dondolava e scricchiolava nel deserto senza fine; l’aria sferzante della notte ci rinvigoriva. Ho gattonato nel sacco a pelo e ho dormito come non dormivo da anni.

Quando mi sono svegliato, l’orizzonte era rosa, e attraversavamo un pontile sul Gran Lago Salato. Le cime rosseggianti delle montagne si specchiavano nell’acqua immobile come un foglio d’argento. Un tanfo solforico si alzava dall’acqua, e i gabbiani svolazzavano, rimanendo sospesi. Una singola barca lontano sembrava un’antica nave fenicia. Ben, Jackson e io eravamo senza fiato, ci sentivamo benedetti, tra i pochi ad avere l’opportunità di assistere a un tale splendore. Come viaggiare nel tempo. Abbiamo oltrepassato spiagge bianchissime di sale, vecchi piloni e cavi ormai distrutti, rimorchiatori in secca completamente mangiati dalla ruggine.

Anche se stavamo finendo le scorte d’acqua, abbiamo deciso di rimanere a bordo ancora da Ogden, in Utah, a Green River, in Wyoming. A Green River, quando il treno si è fermato, abbiamo attraversato un ponte di legno e fatto il nostro ingresso in città a piedi, come cowboy in uno spaghetti western.

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Green River è un’importante stazione di treni merci nell’ovest del Paese. Ci sono loghi della Union Pacific impressi su tutti i sovrappassi, e un enorme deposito merci occupa lo spazio dove dovrebbe esserci il centro città. Un imponente edificio neogreco che sembra il municipio è, in realtà, il quartier generale della compagnia ferroviaria locale. Impiegati del settore girano incessantemente su furgoncini bianchi.

Sembrava che i viaggiatori di passaggio fossero parte ben accetta della vita di tutti i giorni di Green River. Gli abitanti ci sorridevano per strada e ci chiedevano se saremmo saltati su un treno. I poliziotti ci passavano di fianco lentamente, occhieggiandoci dai finestrini abbassati. Uno di loro ci ha detto che secondo lui arrivano in città ogni anno mille viaggiatori di passaggio come noi. Mezzi morti di fame e pericolosamente disidratati, ci siamo ingozzati in un ristorante rivestito di pannelli di legno, il Crazy Moose, poi abbiamo fatto provviste di sigarette, acqua e birra e siamo tornati a grandi passi al punto lungo il fiume da cui si salta sul treno.

Abbiamo atteso sotto il ponte come dei troll, riempiendo le ore vuote di birra e lanciando pietre alle bottiglie da un litro sospese nella salamoia di fango. L’attesa di un treno merci ha lo stesso ritmo di una guerra o di una battuta di caccia grossa—lunghi momenti di monotonia punteggiati da istantanee azioni adrenaliniche.

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I binari erano stranamente tranquilli, così abbiamo deciso di passare la notte in città e cercare un alberghetto economico. Si è rivelata impresa non facile. Addirittura tre, uno via l’altro, ci hanno mandato via, dicendo di non avere camere libere. Visti però i parcheggi vuoti, abbiamo capito di essere stati cacciati perché eravamo hobo. Dopo aver nascosto gli zaini tra i cespugli ed esserci dati una ripulita, non abbiamo avuto alcun problema a registrarci al Super 8. Il mattino dopo, con la sensazione che il nostro punto di attacco al treno fosse una fregatura, ci siamo avventurati nel deposito treni più grande. Prontamente un dipendente ha chiamato la polizia, e abbiamo passato un’ora a nasconderci tra le ruote dei treni cercando di non farci vedere dalla macchina di sorveglianti che ci dava la caccia. Avevamo sorpassato due file di auto ed eravamo fuori dal deposito; stavamo vagando tra i sobborghi quando due macchine della polizia sono sbucate dal nulla. Un ufficiale calvo e arrabbiato ha marciato deciso fino a noi. “Giochiamo al gatto e il topo, eh? Sembra che abbiamo vinto noi,” sfotteva. L’altro, un “poliziotto buono” dalla parlata tranquilla, ci ha fatto un sacco di domande su di noi, e siamo riusciti a costruire un rapporto amichevole. Il pelato ha stretto gli occhi e lanciato uno sguardo truce a Jackson: “Hai un anello nuziale e una bella fotocamera tutta fighetta al collo. Che fai qui?”

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Ci hanno lasciati andare premurandosi di farci sapere che se ci avessero beccati di nuovo ci avrebbero schiaffato in prigione. Per tentare la fortuna, abbiamo camminato di nuovo fino al fiume e aspettato sotto il ponte ferroviario. Pochi istanti dopo, un treno merci veniva verso di noi, e siamo saltati nella carrozza di coda. Si è poi fermato nel bel mezzo del deposito di Green River, e abbiamo passato un’ora snervante a nasconderci, immaginando l’interno della prigione di Green River. Finalmente è ripartito, ma andava tanto piano che abbiamo deciso di scendere a Rawlins, in Wyoming.

Sui binari a Rawlins abbiamo incontrato un diciassettenne, un rapper chiamato Whytesmoke, che si è esibito per noi in un freestyle, circondato dalla sua cricca di rider di BMX. Abbiamo mangiato buonissimo thailandese, e il proprietario dell’unico bar di Rawlins ci ha permesso di riempire le bottiglie d’acqua. Un giovane padre con famiglia al seguito ci ha fermato per strada per dirci che anche lui aveva vagabondato in treno sul finire degli anni Ottanta. “Ricordo che fisicamente era davvero estenuante,” ha dichiarato, nostalgico. È stato un momento strano, il momento in cui abbiamo realizzato che i nostri vagabondaggi in treno sarebbero divenuti senza dubbio solo un’altra storiella entusiasmante di gioventù.

Al tramonto, seguito il corso delle rotaie ci siamo inoltrati in una vecchia baraccopoli tra i colli. Sembrava una casa scavata nella pietra, come quelle medievali—abbiamo acceso un fuoco in un barile arrugginito. Dopo un po’, un treno composto di vagoni frigoriferi si faceva strada nell’oscurità, e noi siamo saltati in coda.

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Ogni treno è una partita a dadi, un’esperienza unica e imprevedibile. Forse è per questo che lo facciamo—per azzardo, per abbandonare ogni forma di controllo e consegnarci nudi al fato e alla fortuna. Il treno appena uscito da Rawlins aveva tutta l’aria di voler tagliare speditamente il Wyoming. Invece, procedeva a singhiozzi, fermandosi ogni ora per dare la precedenza ad altri treni. Frustrati, siamo scesi a Laramie, in Wyoming.

L’autore e Ben aspettano in una jungle del Wyoming che passi un treno notturno.

Era una vera lotta contro il tempo, ormai. Avevamo 12 ore per arrivare alla National Hobo Convention, ed eravamo già in ritardo. Abbiamo noleggiato il veicolo più economico che abbiamo trovato—un grosso furgone U-Haul—e ci siamo messi in marcia, decidendo di raccattare tutti gli autostoppisti che trovavamo.

Subito fuori Laramie, abbiamo individuato una figura solitaria sul ciglio dell’autostrada. Era un uomo con una barba cespugliosa e bianca alla Walt Whitman che spingeva una bicicletta pesante come un carro armato su per la sua collina di Sisifo. Abbiamo fatto inversione e ci siamo fermati, cogliendolo di sorpresa. Sedeva nel buio, fumava una sigaretta fatta a mano con lo sguardo perso tra gli alberi. La faccia era segnata e i vestiti logori e sporchi. Aveva occhi espressivi e azzurri e sembrava Tom Hanks in Cast Away. Si è presentato come Joe. I denti mancanti e la pelle callosa lo facevano sembrare antico; ci ha detto d’avere solo 55 anni.

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Dopo averci chiacchierato per cinque minuti, ero sicuro fosse uno degli ultimi esemplari di una razza in via di estinzione. Joe ci ha raccontato che per un paio d’anni aveva girato l’Oregon in tenda, e ora cercava di raggiungere l’Arkansas in bicicletta; aveva pianificato di piantare lì le tende per “tre o quattro anni” e andare in cerca d’oro. Era arrivato fino al Montana, ma a causa di incendi boschivi aveva dovuto fare dietro front per 1500 chilometri. Dopo l’Arkansas, Joe aveva in mente di prendere un paio di cavalli e spingersi a ovest, nelle terre selvagge. “Ho già visto il Paese in macchina e allora l’avrò visto in bici e a piedi; ho pensato che forse vorrò vederlo da cavallo, come l’hanno visto i padri fondatori.”

Nel corso dei suoi viaggi, Joe si era fatto amico di tutta la fauna. “Non immaginereste mai che animali ho visto da vicino.” Dice di aver parlato con alcuni tassi. La bicicletta di Joe aveva qualcosa del carrello della spesa a due ruote, più che del mezzo di trasporto. Pesava all’incirca 90 chili, appesantita da picconi, vanghe, tende, incerate e stoviglie. Abbiamo caricato Joe e i suoi beni nel vano posteriore e gli abbiamo comunicato che potevamo portarlo fino a Des Moines. Ci ha ringraziato con entusiasmo dicendo che probabilmente gli stavamo risparmiando “uno o due mesi” di pedalata.

Lungo la strada ci siamo fermati per un altro autostoppista, un ragazzo di bell’aspetto con lunghi capelli scompigliati, occhiali da sole e un cane. Si è presentato come Alex, ha detto di essere uno scrittore di viaggio.

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Il cane era un pitbull col naso rosso di nome Batman. Alex ci ha spiegato che nel 2010 aveva lasciato il suo lavoro da Google ed era partito in autostop, sfruttando couchsurfing.com per i posti per dormire. Erano due anni ormai che vagava, ed era stato costretto a dormire all’aperto solo due o tre notti.

Dopo qualche ora ci siamo fermati per fare benzina, e aprendo il portellone abbiamo trovato il nostro carico umano accasciato, con gli occhi strabuzzati e in bagno di sudore. Aiutandoci con una fune, abbiamo arrangiato di tenere un po’ aperti il vano per fare passare un po’ d’aria, mentre il viaggio continuava.

Due ore dopo, in Nebraska, siamo stati investiti da luci azzurre e la polizia ci ha fermato. Un agente si è avvicinato al finestrino, e ci ha detto che qualcuno ci aveva segnalato: “Hanno detto che forse trafficate messicani.” Ha controllato Alex e Joe nel vano posteriore e poi ci ha lasciati proseguire, avvertendoci che la I-80 è un’arteria importante del traffico di vite e che probabilmente ci avrebbero segnalato nuovamente.

Fermata successiva, Omaha, dove ci siamo lasciati inebriare dalla sensazione di vibrante vitalità del venerdì sera cittadino—tutti erano vestiti al meglio, le ragazze del Midwest incredibilmente belle (a riprova di quanto disse Jack Kerouac, cinquant’anni or sono, che “Le ragazze più belle del mondo vivono a Des Moines”). Alex è rimasto sobrio e ha guidato, quella notte. Ci siamo fermati per riposare un paio d’ore nel parcheggio di un Hilton, ci siamo alzati all’alba e abbiamo guidato le due ore restanti tra i campi di granturco dell’Iowa fino a Britt, giusto in tempo per vedere la banda del liceo che sfilava per un placido viale residenziale. Abitanti anziani e donne di mezza età lanciavano caramelle e magneti da auto decappottabili e carri da parata. Un bambinone grassoccio su un enorme trattore John Deere stava in posa e salutava a braccia spiegate.

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Britt era brulicante di turisti, ma si sentiva la pesante assenza di veri hobo, di qualcuno che desse l’impressione di aver passato molto tempo sui binari. Le famiglie di contadini passeggiavano tranquillamente lungo la via principale, superando cisterne per il Dunking Booth, oltre fienili e magazzini e bancarelle con gli altoparlanti al massimo volume. Le ragazzine compravano magliette rosa a tema “hobo” al Museo e facevano colazione al di là della strada, al Mary Jo’s Hobo House.

Siamo arrivati alla Hobo Jungle, la baraccopoli di Britt, un rettangolo d’erba ben tosata accanto alle rotaie. Lì, raccolti intorno a un vagone merci desueto, vagavano senza meta circa 20 hobo, molti con i capelli bianchi e giacche di pelle e berretti di procione. Sull’erba erano gettate dieci o 15 tende, accanto, un piccolo villaggio di camper e van. Non c’erano più di 60 persone in tutto l’accampamento. Sembrava più un mercatino dell’artigianato hippie che una baraccopoli dei tempi della Grande Depressione. Giusto per avere una misura, gli hobo che parteciparono al congresso di Britt nel 1949 erano 1800.

Dall’altra parte della città, nel parco, gli abitanti di Britt servivano paioli di stufato di avanzi, il tradizionale rancio improvvisato dell’hobo, per una folla frammista di turisti e vagabondi. La cerimonia per eleggere il Re e la Regina degli Hobo di quest’anno è stata inaugurata da un’anziana signora che ha cantato tutte e tre le strofe di “The Star-Spangled Banner”. Non appena l’inno ha cominciato a risuonare, i convenuti hanno rivolto lo sguardo all’orizzonte, con gli occhi velati. Non sapevano le parole.

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I candidati a Re degli Hobo, una selezione di gentiluomini arruffati di non primissimo pelo con nomi come Adman e Minnesota Jim, sono saliti sul palco per fare i loro discorsi arringanti. È dal 1900 che ogni anno viene incoronato un Re degli Hobo, e, per evitare che estranei si infiltrino, il Re deve dimostrare di aver passato buona parte della propria vita in viaggio sui treni merci. Adman e Minnesota Jim, nei rispettivi due minuti di discorso, sono stati commoventi. Entrambi hanno parlato di problemi di salute, e Adman ha annunciato il pensionamento dalla vita errante-ferroviaria. Si sono intessute le lodi dei veterani che si sono “diretti a ovest” (è così che gli hobo parlano della morte), sono stati beatificati.

La folla è impazzita quando un hobo tra i più anziani, dall’aspetto amichevole e con una gamba di legno, ha spinto la sua sedia a rotelle fino al microfono. “Ehi, sono Frog,” ha gracchiato con voce profonda. Ha annunciato di aver fatto un gran capitombolo da un carro la mattina, ma che stava bene. Mentre il discorso di Adman era stato offuscato da un’ombra di tetra autocommiserazione, Frog sembrava pieno di gratitudine per la sua famiglia itinerante.

Le candidate a Regina degli Hobo erano tutte signore della cittadina—Angel, Minnesota Jewel e una donna chiamata Empress Vagabond Lump, l’unica hobo di colore presente. I vincitori si decretano per applauso. Alla fine hanno trionfato Minnesota Jim, che sembrava Woody Guthrie ma cadaverico, e Angel, una donna di Britt. Sono stati incoronati con corone fatte da barattoli del caffè.

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Dopo le procedure di rito, ho trovato Frog seduto tutto solo, che fumava. Frog vive a Helena, in Montana. Si era guadagnato il nome in una cella per immigrati in California, “perché il mio compagno di viaggio aveva detto a tutti che saltavo sui treni come una rana.” Pensavo che avesse perso la gamba su un treno merci, ma mi ha detto di essere stato aggredito da una gang di ragazzini, all’inizio del nuovo millennio. “Erano adolescenti che tornavano dalla partita di pallone. Oggigiorno non è raro,” mi ha detto, senza astio e sorridendo. Ha viaggiato sui treni merci per 31 anni prima di questa disgrazia. “Il mio spirito vagabondo ha iniziato a manifestarsi a otto anni, ed eccomi qui. Anche se non salto più sui treni, voglio ancora farlo. Mi resta però un ultimo viaggio, ed è il mio viaggio verso ovest.”

Ho chiesto a Frog perché ci fossero così pochi giovani hobo alla Convention. “I nostri giovani fratelli e sorelle anarchici sono ancora lì fuori, ancora viaggiano in treno abusivamente, è solo che non si chiamano hobo. Sinceramente, ho la sensazione che tra 25 anni la Hobo Convention sarà totalmente desueta.”

Mi ha spiegato che sono ormai vent’anni che Britt cerca di dare un giro di vite al raduno. È diventata un evento come una fiera di contea, è stata portata alla completa sterilità—ci sono bambinetti che si radunano intorno all’accampamento degli hobo per farsi fare gli autografi e che restano a fissarli con gli occhi a biglia, come al circo. La città ha cominciato a promulgare leggi-museruola, seguendo la linea dura su risse, droga, ubriachezza. L’insulto finale è stata l’assunzione di un vigilante ferroviario che impedisse agli hobo, durante la Convention, di saltare o scendere dai treni a Britt. Mentre vagavo lungo i binari sul tardo pomeriggio, lo sbirro curato, feroce come uno squalo, mi ha fermato e chiesto la patente con un sorriso.

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Jack Black nel libro Non c’è scampo parla dello sviluppo della National Hobo Convention a cavallo tra Ottocento e Novecento: “Costruivano una grande jungle di fianco a un piccolo corso d’acqua terso, dove facevano bollire i vestiti—gli stracci, li chiamavano—per sverminarli, cucinavano stufato d’avanzi, e, quando erano in molti, tenevano un “congresso”. Questi congressi, come molti altri, erano una scusa per pigliare una gran sbronza. A volte finiva che qualcuno veniva ammazzato o che qualche barbone ubriaco cadeva nel fuoco e bruciava vivo, e allora sgattaiolavano via.”

Nel 1998, alcuni partecipanti si scocciarono delle regole sempre più restrittive del convegno e di tutti i regolamenti; diedero vita al loro evento, che chiamarono Trampfest, con l’intenzione di attenersi allo spirito ribelle originale della Hobo Convention di Britt. “Hanno deciso, se loro hanno intenzione di coinvolgere poliziotti e sbirri ferroviari e pure i media, loro invece no,” mi ha spiegato Frog. Per quello che ho sentito del Trampfest, mi sembra la versione giovane, sbronza e incazzata del raduno di Britt.

Scendeva l’oscurità, il falò era acceso, e si servivano piatti di plastica di fagioli e hot dog; l’atmosfera era quella di una fiera medievale o di un film di Wes Anderson. Un tipo fantastico con la barba a collare che sembrava un Amish danzava e ha suonato una versione per flauto di “Call Me Maybe”. Uno dei giovani punk scontrosi che avevano fatto la loro comparsa, che sembrava mezzo uomo e mezzo porco, sputava fuoco, stando in piedi nel container. Si faceva un gran parlare di patriottismo nei toni di una riunione di Kiwanis; la serata aveva come moderatore un uomo di 66 anni soprannominato Medicine Man, che nemmeno era un hobo, ma una specie di amante degli hobo che ha girato il Paese in camper insieme a sua moglie.

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Questi “hobo dentro” (un eufemismo che i finti hobo usano per descriversi) sembravano aver preso il comando del raduno—i veri hobo, stanchi e malridotti, cercavano di rilassarsi e godersi la propria famiglia. Empress Vagabond Lump mi ha raccontato, “Quando sono arrivata qui per la prima volta, nel 1981, era diverso. Allora non era tutto controllato dalle forze dell’ordine come ora. Ora è come una lezione di storia, la gente vuole imparare la storia degli hobo. È come una gita fuori porta.”

Gironzolando per la jungle al tramonto, ho incontrato l’enfant terrible della National Hobo Convention, accampato sotto le ruote di un vagone merci con alcuni avanzi di coperte logore, che si coccolava una confezione da 12 birre. Indossava una maglietta sbiadita e schifida, e la pelle dell’uomo era del colore della carne bollita. Ha fatto un moonwalk fuori dalla sua buca, urlando, “Sono Tan Man [“tan man” è il barbone ma anche il prodotto ultimo del meltin pot], tesoro!” e cantando Lady Gaga— “Lemme take a ride on your disco stick!”

Quarantenne, lurido e impazzito, Tan Man si è manifestato come la quintessenza del barbone scoppiato. Mi ha spiegato che vive da sempre per strada, e di essere fiero di essere “il re del dito nel sedere.” Mi ha detto di sentirsi più al sicuro in un canale di scolo che in un letto caldo. Ha inveito contro l’esito attuale della Hobo Convention. “Un sacco di quelli che vedi qui sono hobo con la carta di credito, hobo milionari,” fremeva. Tan Man è venuto, pur essendo divenuto una parodia di se stesso, per rispetto ai veterani. “Una cosa che mi hanno insegnato i veterani: sii sempre rispettoso, offri sempre una sigaretta, e se ce l’hai offri sempre qualcosa da mangiare e da bere. È la vecchia legge degli hobo. Devi mostrare rispetto, per farti rispettare.”

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Tan Man mi ha detto che dopo il raduno si sarebbe diretto a Clinton, in Iowa, per diventare pastore evangelico e seguire i ragazzi, in un programma per giovani senzatetto. “Invece di correre col culo al vento sulle spiagge con i poliziotti che mi inseguono e chiedono ‘Quello chi è?’ ‘Non lo so, so solo che lo chiamano Tan Man,’ mi piacerebbe fare una cosa buona. Se riuscirò ad aiutare una persona, anche un singolo teppistello, allora è valsa la pena di viaggiare, allora è valsa la pena di vivere.”

Dopo che mi sono allontanato da Tan Man, Medicine Man, l’“hobo dentro” mi ha raggiunto con un’espressione spaventata in volto. “Ho visto che parlavi con Tan Man. Abbiamo avuto un po’ di problemi con lui, non so cosa ti abbia detto. Voglio però che tu sappia che se pubblichi quello che ti ha detto, non sarai più il benvenuto qui.” Dopo aver bighellonato un po’ con lui e dopo qualche altra esibizione improvvisata, era ora di andare.

Il giorno dopo, ho sentito dire che Tan Man era stato arrestato per aver pisciato su una staccionata. Il primo dei bisogni basilari dell’uomo, un affronto veramente irrisorio in una società ben governata, punito lì, in una città che un tempo era il santuario degli hobo. Ne avevo abbastanza. Disgustato dal paternalismo meschino di Britt e dal convegno, me ne volevo andare. Siamo tornati a New York in aereo.

Una volta a casa, ho chiamato Frog per continuare un discorso iniziato a Britt. Mi ha raccontato di essere stato tra i fondatori di una famigerata gang di hobo chiamata FRTA, l’equivalente dei Crips nel mondo dei treni merci. Ha irriso la reputazione tremenda della temutissima banda. “Sta per Fuck the Reagan Administration [Fanculo il Governo Reagan]—l’abbiamo fondata quando Reagan ci ha tagliato i buoni pasto—ma in qualche modo è diventata Freight Train Riders of America [Viaggiatori Americani Treni Merci]. Ancora oggi, c’è gente che mi chiede di fargli un autografo col sangue.” Ride.

Uomo benevolo e generoso, Frog mi ha detto che un sacco di viaggiatori abusivi e vagabondi si fermano a fargli visita a Helena. Me lo ero figurato in una casina minuscola e squallida, con la vernice scrostata, con una stufa a legna e circondato da girasoli e una collezione di chiodi ferroviari sul portico. Nel mio cervello, viveva gli anni del tramonto in un santuario gioioso, con hobo, barboni, fuorilegge dai nomi come Minneapolis Minnie, Pasco Slim, e Salt Chunk Mary che passavano a fargli visita, e cucinavano pasti trimalchionici, e si sbronzavano, e poi scomparivano nella notte. Quindi sono stato colto alla sprovvista quando ha menzionato, durante la nostra conversazione, che vive in un centro per anziani. La mia visionaria fantasia sulla sua vita si è sbriciolata, rimpiazzata dalla realtà sbiadita—pareti di compensato, erbetta tagliata di fresco, una reception, posti macchina.

Il pensiero di Frog sulla sua sedia a rotelle, solo nel centro anziani nel Montana, era troppo. Intuendo il mio turbamento, ha iniziato a descrivermi i paraggi. “Ho una vista sulle montagne dello Sleeping Giant. Vedo i treni da casa mia, sfrecciano proprio davanti alla mia finestra,” mi ha detto con malinconia. “Ci sono due tracciati di binari, uno va a ovest e uno a est. E dietro i binari c’è un aeroporto, posso starmene seduto e vedere gli aerei che atterrano e decollano.” Mi sono immaginato il rumore dei treni, il solitario fischio che lo sveglia nel mezzo della notte, mentre sogna, continuamente, un ultimo viaggio. Mi sono ripromesso di scrivergli una lettera e andare a trovarlo, finché sono in tempo.

Seduto alla mia scrivania, dopo aver parlato con Frog, mi dispero per tutti gli uomini e per tutte le possibilità di vivere in un modo diverso che non ci sono più, e per il grande hobo americano, che scompare lungo i binari che portano a ovest, per non tornare mai più.