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Com'è lavorare per la macchina della propaganda del governo turco

"Cercasi giornalisti per agenzia di stampa internazionale," diceva l'annuncio sul Guardian. Ed è così che ci siamo ritrovate nella grande famiglia dell’Agenzia Anadolu, dove la regola generale era più o meno questa: "mai fare domande."

Una protesta per la libertà online, febbraio 2014. (Foto di Charles Emir Richards)

"Cercasi giornalisti per agenzia di stampa internazionale," diceva l'annuncio sul Guardian. In un settore dove le opportunità svaniscono di giorno in giorno, chiunque farebbe domanda per un posto di lavoro a tempo pieno, ed è quello che abbiamo fatto. Qualche mese dopo siamo arrivate ad Ankara, in Turchia, pronte a essere accolte nella grande famiglia dell’Agenzia Anadolu (AA).

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Eravamo state assunte come correttrici di bozze per le notizie in inglese, ma siamo finite a fare le responsabili della comunicazione; del resto, la linea editoriale dell'agenzia in politica interna—e riguardo alla Siria—era talmente filogovernativa che tanto sarebbe valso scrivere comunicati stampa. Due mesi dopo ci siamo ritrovate ad ascoltare il vice primo ministro Bülent Arınç straparlare sulla libertà di stampa a un evento presso la Chatam House di Londra, minimizzando il numero dei giornalisti imprigionati in Turchia. Poco dopo ci è capitata l'occasione di andare a Londra per lavoro. Non ce la siamo fatta sfuggire e ci siamo licenziate non appena abbiamo toccato il suolo inglese.

Fondata nel 1920, un tempo la Anadolu era motivo di vanto in tutto il Paese. Oggi, è solo una delle tante marionette presenti sul palcoscenico del partito per la Giustizia e lo Sviluppo guidato da Erdogan. La maggior parte delle reti televisive turche è fortemente influenzata dallo Stato, e i pochi canali d'opposizione possono incorrere in qualsiasi momento nella revoca delle licenze o nel divieto di seguire eventi importanti, mandare in onda filmati sulle elezioni o qualsiasi cosa che possa distogliere l'attenzione da quanto sia fantastico il governo.

Per fare un esempio, RTUK, l'agenzia di stato che regola e monitora le trasmissioni di radio e televisioni turche, ha multato i canali che hanno mandato in onda i filmati delle proteste dello scorso anno a Gezi Park. La cosa divertente è che il consiglio di garanzia è composto da nove membri "eletti", ovvero nominati dai partiti politici—e, ovviamente, più deputati possiedi un partito, più è influente.

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Gli organi di stampa che non vengono presi di mira da RTUK possono sempre aspettarsi l’intervento diretto del primo ministro Tayyip Erdogan in persona. Nel 2009, il gruppo del magnate Aydin Dogan, comprendente vari giornali e canali TV, CNN Türk e un’agenzia di stampa, ha ricevuto una multa da 4.5 miliardi di euro per aver evaso le tasse. Per puro caso, gli accertamenti sono arrivati subito dopo che una delle piattaforme del gruppo aveva pubblicato notizie riguardanti lo scandalo dell'ente di beneficenza Deniz Feneri, a seguito del quale un tribunale tedesco aveva condannato tre imprenditori turchi per essersi appropriati indebitamente di 18 milioni di euro.

In una registrazione emersa di recente si sente Erdogan chiedere al suo ex ministro della giustizia di punire Dogan. Da allora, l’impero di Dogan si ritrova imbavagliato e con le mani legate.

La polizia reprime una manifestazione a Istanbul, questo febbraio. (Foto di [Charles Emir Richards](http://After couple of months working for Turkey's official press agency, we couldn't bear being government spin-doctors any more.))

Per quando riguarda la stampa internazionale, e lasciando da parte le proteste di Gezi Park—dove c'erano quasi tanti blogger quanti manifestanti—in precedenza la maggior parte delle notizie in inglese sulla Turchia veniva dal Today’s Zaman, il principale giornale in lingua inglese della Turchia. Il gruppo a cui fa capo Zaman è strettamente collegato a Fethullah Gulen, un ex alleato del partito AK che ora vive in esilio volontario in Pennsylvania.

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Il gruppo Zaman possiede anche la testata in lingua inglese Zaman, l’agenzia di stampa Cihan e vari giornali, pubblicazioni e siti. Scritto in un inglese semplice e accessibile, il Today’s Zaman offriva una finestra sugli affari interni della Turchia e allo stesso tempo agiva da portavoce del governo. Tutto ciò, finché i rapporti tra Erdogan e Gulen non si sono deteriorati—a quanto pare per la forte influenza esercitata da quest'ultimo sull'opinione pubblica—e la collaborazione non si è interrotta.

Qualche anno e qualche intercettazione compromettente dopo, il gruppo Zaman è passato dalla parte opposta e ha cominciato a criticare Erdogan. A quel punto il governo aveva bisogno di un'agenzia di stampa a cui le testate internazionali potessero attingere, una su cui gli uomini di Erdogan avessero il completo controllo.

Ed ecco l'Agenzia Anadolu, i redattori per la sezione inglese e il nuovo direttore generale, Kemal Ozturk—l’ex consigliere stampa di Erdogan, suo aspirante membro di gabinetto, e a quanto pare, felice possessore di un quarto delle azioni dell'agenzia. Secondo Aydin Ayaydin, un deputato del partito d'opposizione CHP, il restante 75 percento delle azioni appartiene al Ministero del Tesoro. Anadolu si proclama una compagnia privata, con meno del 50 percento di azioni detenute dal Ministero del Tesoro, e per questo motivo non subisce mai controlli fiscali pur ricevendo finanziamenti pubblici. Quando, durante una riunione, abbiamo fatto domande sugli aspetti finanziari, ci è stato risposto che "nessuno sa veramente chi possieda tutte le azioni, tramandate direttamente da Ataturk."

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Eravamo in contatto esclusivo con i ministri, alcuni dei quali non vedevano l’ora di posare per i fotografi sul tappeto blu all'ingresso dell'agenzia. Per scrivere di politica interna dovevamo solo alzare il telefono. Anche il controllo delle fonti e dei fatti, spesso l’aspetto più difficile nel lavoro di un giornalista, era roba da poco: "Me l'ha detto il Ministro degli Esteri, quindi sì, è vero." Senza che servissero altre fonti. La politica per il controllo delle notizie era all'incirca questa: Mai fare domande.

Per quanto riguardava i fatti di politica estera, l’agenzia aveva un approccio più rilassato; ha corrispondenti in tutto il mondo, molto più liberi di quelli in Turchia. Ovviamente c’erano alcune linee guida da tenere presenti: mai menzionare il genocidio armeno; i combattenti jihadisti provenienti dal Regno Unito non passano da Istanbul per andare in Siria; la Russia dovrebbe essere condannata per il suo finanziamento al regime siriano—ma non troppo severamente, dato che alla Turchia servono il petrolio e il gas che esporta.

Le proteste di febbraio per la libertà online. (Foto di Charles Emir Richards)

Un esempio pratico molto eloquente di questa politica editoriale è accaduto la mattina dopo la pubblicazione di alcune registrazioni in cui Erdogan e il figlio discutevano di come disfarsi di una "significativa" quantità di denaro. I traduttori inglesi erano andati nel panico nel tentativo di far arrivare al mondo la verità—la verità era, ovviamente, che le registrazioni erano dei falsi.

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Non è un mistero che per la stampa estera non sia semplice avere uno sguardo dall'interno su ciò che accade in Turchia; persino la BBC ha un solo corrispondente ufficiale a Istanbul. Quando le intercettazioni sono state divulgate, la BBC ha citato la "notizia" rilasciata da Anadolu come una "dichiarazione dell'ufficio del Primo Ministro"—con un link al sito dell'agenzia. Per quanto ironico, quell'errore mostra la condizione dell'agenzia in quel momento.

Secondo il Sindacato Nazionale dei Giornalisti Inglesi (NUJ), in Turchia sono 44 i giornalisti in carcere. Ma Bulent Arinc riduce il numero a 26, e per "reati gravi, come l'adesione a organizzazioni terroristiche o il  furto." Durante il suo discorso alla Chatham House a febbraio, Arinc ha detto, "È responsabilità dei giornalisti stessi tenersi alla larga dalla violenza e dalla criminalità per non avere problemi con la giustizia."

Quindi, in poche parole, se per la strada ci sono scontri tra polizia e manifestanti, è meglio tenersi alla larga e non coprire gli eventi.

Come ha detto il rappresentante del NUJ presso la Federazione Europea dei Giornalisti Barry White, "[la tendenza del governo a intervenire con tali limitazioni all'informazione] ha conseguenze terribili; spaventa i giornalisti, portandoli a pensare che scrivere qualcosa di sbagliato potrebbe significare una telefonata dal governo al caporedattore e un conseguente licenziamento. Li porta a pensare che non ha senso scrivere certe cose, perché in ogni caso non verrebbero pubblicate."

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Ma il problema non riguarda solo i media controllati dallo stato. Da qualche mese la redazione di Zaman lavora senza sosta per dipingere Erdogan come un dittatore corrotto, mentre i media vicini al partito, con altrettanto zelo, sono impegnati nel propagazione di teorie sullo "stato parallelo", che tramerebbe nell'ombra per distorcere le opinioni del vulnerabile pubblico turco.

In un recente titolo di Anadolu si legge: "Il Primo Ministro della Turchia su Gulen: Troveremo il loro nascondiglio e li prenderemo". Questa polarizzazione lascia agli organi di stampa moderati, vulnerabili alle accuse di cattiva condotta e di terrorismo, uno spazio di manovra estremamente ristretto.

Troppo spesso siamo abituati a dare per scontata la libertà di parola. Siamo diventate giornaliste perché siamo convinte che la stampa abbia il dovere di informare i cittadini, di mettere in discussione il potere e di fornire ai lettori le informazioni corrette. È per tutti questi motivi che abbiamo lasciato l’agenzia e vi abbiamo raccontato questa storia.

Dalla Turchia:

Istanbul rising