La buona regola del “non giudicare un libro dalla sua copertina” esiste da almeno un paio di secoli—ma stando a uno studio del 2010, non la rispettiamo mai. La ricerca in questione era incentrata su quanto i pazienti si fidino dei propri medici sulla base di come sono vestiti, e, a quanto pare, le uniformi li fanno apparire più affidabili.
Sfortunatamente, le persone non giudicano il personale medico solo in base al vestiario, ma anche in base a età, aspetto fisico ed etnia. VICE ha parlato con tre giovani professionisti in campo sanitario che sono oggetto di pregiudizi sul posto di lavoro per via del loro aspetto.
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Hedwig van der Meer, 30 – Fisioterapista
Sono una fisioterapista specializzata nell’area della testa e del collo. Insegno anche e sto lavorando alla mia tesi di dottorato. Alla maggior parte delle persone piacciono i miei capelli colorati e i miei piercing, ma talvolta possono causare strani attriti. Prima che iniziassi la specialistica, il mio superiore mi ha detto che il mio aspetto avrebbe potuto creare problemi. Le persone fanno commenti di continuo—i miei pazienti ma anche altri terapisti e persino gli studenti.
Una volta, c’era un paziente nella sala d’attesa. Quando mi ha vista, la sua espressione si è rabbuiata. Ha iniziato a rilassarsi solo dopo la visita. Mi ha detto che aveva pensato di non tornare più, perché non gli ero sembrata abbastanza competente quando mi ha vista. Poi ha capito di avermi malgiudicata, e ha detto che sarebbe tornato. L’ho ringraziato per l’onestà—molte persone la pensano probabilmente come lui quando mi incontrano, ma non lo ammetterebbero mai.
Alcuni pazienti vogliono un secondo parere medico dopo la mia diagnosi. Non penso che sia per il mio aspetto, ma perché sono una donna e le donne sono prese meno sul serio nel campo medico. Spesso ho dovuto spiegare ai pazienti che mi sono laureata nove anni fa e che so di cosa parlo. A quel punto, si fidano un po’ di più.
Anche i miei colleghi e collaboratori possono avere pregiudizi nei miei confronti. Una volta ho chiesto a un fisioterapista specializzato se avessi potuto seguirlo un giorno per osservare il suo lavoro. Mi ha detto di sì, ma la proprietaria dello studio in cui lavorava mi ha chiesto di togliermi i piercing, perché temeva rovinassi l’immagine del posto. Ho declinato, con gentilezza. Di recente, una studente mi ha scambiata per la nuova assistente dell’insegnante ed è stato molto imbarazzante quando le ho detto che ero io l’insegnante.
Detto questo, ci sono anche lati positivi. Molti miei studenti mi dicono che vorrebbero avere capelli colorati e piercing anche loro, ma che non pensavano di poterlo fare in questo ambiente. Io dico sempre che possono fare quello che vogliono, a patto che si prendano cura di loro stessi e facciano bene il loro lavoro.
Vijay Chamman, 30 – Ex infermiere a domicilio
Per due anni ho lavorato con persone che avevano bisogno di cure e assistenza a domicilio, aiutandoli anche coi conti e assicurandomi che ricevessero le cure adeguate. Prima di ciò, ho lavorato come infermiere personale a tempo pieno per cinque anni. Ora insegno all’università di Amsterdam.
Nei miei lavori precedenti, ero sempre in casa dei pazienti, per cui era fondamentale che si fidassero di me non solo in quanto professionista, ma anche come persona. E non era sempre facile. Sono nato in Olanda, ma ho origini surinamesi-hindu. In aggiunta a questo, ero giovane rispetto ai miei colleghi. Le persone si agitavano quando scoprivano che sarei stato la persona preposta a occuparsi di loro. Di rado si aspettavano di trovarsi davanti un uomo, figuariamoci una persona di colore.
La mia identità bi-culturale aveva sia pro che contro quando lavoravo nelle case della gente. Alcuni pazienti erano spaventati all’inizio, soprattutto le persone più anziane. Una volta mi hanno assegnato le cure di una donna di 80 anni. Quando sono arrivato, lei ha iniziato a piangere istericamente chiedendo perché le stessimo facendo questo. Aveva richiesto una donna olandese, ma io ero l’unico disponibile. Abbiamo raggiunto un accordo per cui mi sarei voltato dall’altra parte quando si lavava le parti intime e sarei stato il più discreto possibile quando la aiutavo a vestirsi. C’era una donna anziana musulmana che non voleva che la toccassi, il che significa che non potevo somministrarle l’insulina. In quei casi, preferisco non forzare i miei doveri su una persona.
I membri delle famiglie erano spesso guardinghi nei miei confronti. Lo capisco—è una responsabilità mettere la vita di una persona cara nelle mani di un perfetto sconosciuto. Non la prendevo mai sul personale—volevo conquistare la loro fiducia. Parlare aiutava. Una donna che si era rifiutata di vedermi per settimane, alla fine voleva solo me. È stato bello.
Avere un background bi-culturale può anche rivelarsi utile quando sei un infermiere: per esempio, per me è facile adeguarmi alla cultura dei miei pazienti. Ho notato presto che le persone non originarie dell’Olanda si fidavano di me più velocemente, anche se non parlavo la loro lingua d’origine.
Dennis Gerkes, 21 – Personal coach
Le persone in genere hanno due ossa nell’avambraccio: ulna e radio. Io non ho l’ulna in nessuna delle due braccia, per cui sono più corte della media e le mie mani sono torte verso l’interno. Mi manca anche parte dei muscoli, il che rende le mie mani più deboli. La mia disabilità non definisce cosa posso o non posso fare nella mia vita quotidiana, ma rende alcuni sport più complessi di altri da praticare. Per questo gli atleti sono spesso sorpresi di scoprire che sono io la persona incaricata della loro riabilitazione dopo un infortunio.
Ho scelto di studiare management dello sport ed ero una delle prime persone affette da disabilità fisica nella mia università. Avevo il permesso di saltare gli sport che non potevo fisicamente fare, a patto che studiassi la teoria dietro ogni movimento. Poi, ho scelto di specializzarmi nel fitness e l’anno scorso sono diventato un allenatore di calcio certificato . Ora insegno agli atleti come allenarsi in modo efficace e come evitare gli infortuni, e li aiuto a rimettersi in sesto se necessario.
Quando ho fatto per un periodo l’allenatore di una squadra di calcio alle superiori, qualcuno mi ha chiesto se la mia disabilità fosse contagiosa. Le persone mi chiedono spesso se sono in grado di praticare questo o quello sport prima di ascoltarmi e di lasciarmi spiegare come devono giocare se vogliono evitare di farsi male. Appena capiscono che so di cosa parlo, lasciano andare qualsiasi pregiudizio iniziale.
Il mio sogno è diventare un allenatore per le Paralimpiadi. È incredibile come le persone affette da una disabilità sappiano sfruttare la loro forza di volontà per spingersi oltre i loro limiti infinite volte di seguito. Voglio aiutarli a fare esattamente questo.