Ogni tanto capita che un festival musicale si dia un tema, così da essere qualcosa di più che una selezione di artisti che si esibiscono sullo stesso palco. Ogni tanto, però, ho come l’impressione che sia una tagline figa più che un’effettiva dichiarazione di intenti. Il che poi non è niente di grave, e anzi un buon slogan è utile a cementare nella memoria di chi poi al festival ci va una specifica sensazione. Ecco, il punto è che mai come quest’anno al Primavera Sound mi è capitato di sentirla, quella cosa lì.
Si tratta di tre parole: The New Normal. Il Primavera Sound di Barcellona, meta preferita dagli italiani in cerca di festival estivi da anni e anni a questa parte, ha deciso di fare le cose in grande ma di comunicarle come se fossero normali—e deve averci pensato bene, a questa strategia.
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Perché ci vuole un attimo a fare una cosa pensando di farla per bene e poi qualcuno ci trova un difetto. Tipo quando il Moogfest ha pubblicato una lista di artiste donne, trans e gender nonconforming che avrebbero suonato alla sua edizione di quest’anno e una di loro, Caroline Polachek, si è sentita categorizzata: “Il gender non è un genere musicale”, ha detto giustamente, aprendo però una super discussione su come fare bene e nel rispetto di tutti scelte come questa.
E insomma, il Primavera ha scelto di fare un cartellone che rispettasse la parità di genere. Anzi, che avesse più donne che uomini, sia per quanto riguarda il festival che per quanto riguarda il PrimaveraPro (un incontro parallelo per addetti ai lavori). È una scelta che va a rispondere alle domande poste da tante testate musicali negli ultimi anni, riassumibili per semplificare in una sola: perché ai festival suonano così poche donne? Una risposta potrebbe essere “perché fino ad ora nessuno si era ancora fatto lo sbatti di fare qualcosa del genere”, ma la questione è più complessa.
È che il Primavera di quest’anno ha dimostrato che—con le giuste risorse umane, economiche, culturali, geografiche e temporali, coltivate e accumulate negli anni—non è impossibile fare un evento davvero inclusivo. Non vale dire che “non ci sono abbastanza artiste donne”, è che non si fa lavoro per trovarle e chiamarle. Non vale dire che “quelle che abbiamo contattato non erano disponibili”, perché se ne possono cercare altre. Non vale nemmeno dire che “però se un uomo è bravo perché non devo chiamarlo”, perché non è quello il punto, e nessuno dice che non devi chiamare pure lui. Soprattutto, però, ha dimostrato che fare un cartellone a tutti gli effetti rischioso—in quanto inedito—è stato una grandissima vittoria.
Non c’è mai stata così tanta gente, al Parc del Fòrum. La prima volta che ci sono andato era il 2012. Non c’erano i due enormi palchi principali all’estremità ovest del festival, così come non c’era un ponte che ti portava a un’area con una spiaggia e altri quattro palchi. E soprattutto non c’erano così tanti artisti, provenienti da così tante nazioni, appartenenti a così tante culture e tradizioni. Una pubblicità che ho visto per le strade di Barcellona mi ha fatto sorridere: “Gli Shellac e altri 150 artisti!”. Perché questo è stato sì il Primavera della definitiva apertura al pop e al rap, ma anche un festival che non si scorda le sue origini (e cioè far suonare ogni anno, ovunque, anche senza palco, la band di Steve Albini).
È un’altra delle cose che dovrebbero essere normali, questa. Chiamare a suonare i Guided By Voices e i Jawbreaker, ma anche la Gothboiclique e La Zowi, ma anche Tierra Whack e Caterina Barbieri, ma anche Midori Takada e i Carcass—rappresentanti di mondi che magari non si conoscono, ma possono farlo e dovrebbero farlo per crescere e conoscere meglio la vastità dell’offerta musicale del mondo. Non avere paura di chiamare artisti molto diversi gli uni dagli altri, a patto di avere un’offerta abbastanza varia da permettere a chiunque di avere qualcosa di potenzialmente interessante. Il trucco è lasciare libero lo spettatore di esplorare uno spazio creativo, non attirarlo con un nome enorme e obbligarlo a stare fermo sotto il sole per otto ore a guardare artisti che gli aprono il concerto su un singolo palco.
E ora qualcosa di completamente diverso:
UNA SERIE DI PARAGRAFETTI IN CUI DICO COSE SU ALCUNI CONCERTI CHE MI SONO PIACIUTI (PERCHÉ ANCHE SE CREDO SIA PALLOSO FARE LA LISTA DELLE COSE CHE HAI VISTO DICENDO CHE SONO TUTTE BELLE L’EDIZIONE DI QUEST’ANNO SE LA MERITA):
Rosalía che gioca in casa: le mani del suo pubblico, che era quello di casa, battevano i tempi del flamenco, gli stessi scanditi da quattro ragazzi posizionati dietro a El Guincho—che, con una magliettona di Balenciaga, metteva i beat su cui lei e il suo gruppo di danza interpretavano fendendo l’aria della sera.
Kate Tempest, che all’una di notte si è trovata di fronte un anfiteatro e ha cominciato subito a parlare. Così ha riempito il silenzio, con le sue poesie—che, come scrive sempre, sono fatte per essere dette, non lette. Non si è fermata, mai, per un’ora. E ha fatto pezzi nuovi, che nessuno conosceva, in cui ha parlato di quando tutto è strano e doloroso e inquietante. Tutto, tutto. Ma di come i visi delle persone possano essere un modo per trovare pace.
JPEGMAFIA, che alle tre e mezza del mattino del sabato si sgola e denuda come sempre fa dal vivo. La sua voce si spezza, i suoi polmoni bruciano, il suo corpo prende forme pazze mentre si lancia sul e nel pubblico.
Miley Cyrus. Ecco: mi sa che molte delle persone che erano a vedere Miley Cyrus non sarebbero andate a vedere Miley Cyrus, a dirgli “Hey, vuoi andare a vedere Miley Cyrus?” Io, pure. Poi mentre il superschermone del superpalcone proiettava immagini in cui lei sleccacciava pezzi di frutta e si versava addosso melasse, come se “Malibu” non fosse mai successa, mi sono sentito nel posto giusto. Accanto a me un ragazzo gridava felicissimo. Lei aveva una band di maschiacci del Kentucky che hanno suonato una versione di “Jolene” di quelle che han fatto venire il sorriso a Dolly Parton. Ha fatto il suo zarrissimo pezzo con RuPaul che, dal vivo e senza sapere il testo, è pure una hit. Non è venuto fuori Wayne Coyne, ma che problema c’è.
Objekt con un altro zio sul palco che fa l’elettronica iper-HD che diventa viaggione acido alle tre del mattino, il tutto sulla sabbia e fortunatamente senza troppa della suddetta che entra nelle scarpe.
Tierra Whack che crea splendidi coiti interrotti con i pezzi-di-un-minuto di Whack World. Essere circondato da gente che sa quei pezzi e li canta e si gasa.
I Sons Of Kemet, che sembrano pestare sulle batterie e soffiare nei loro ottoni come se a ogni sforzo di muscolo corrispondesse un piccolo miglioramento del mondo.
Miya Folick che alle sette di sera, su un non-palco su cui suonava solo lei tutto il giorno e con un pubblico fatto di gente seduta per terra, col mare dietro e un completo viola, canta le sue piccole confessioni indie rock senza preoccuparsi del suono dei Boy Pablo che da un palco lontano le rompe le palle.
Danny Brown, che si permette dropponi brostep come se fosse ancora il 2010 e riesce a renderli causa di pogo con un sorriso sul viso e una camminata che il Ministry Of Silly Walks sarebbe orgoglioso di premiare.
Janelle Monàe che fa il pop che vorremmo: afrofuturista e pazzo.
I Dirty Projectors (che santiddio venissero in Italia una volta no eh mai), che sono una creatura così unica e stramba da meritarsi qualsiasi lode possibile. Hanno le chitarre da sogno bagnato di qualsiasi ascoltatore di math rock, ma anche i giochi di voce di un coro che ci è andato giù pesante alla festa dopo il saggio di fine anno, ma anche le strutture ritmiche che potrebbe inventarsi un batterista con cinque braccia.
FINE DELLA SEZIONE CONCERTI BELLI—L’UNICO UN PO’ DELUDENTE È STATO FUTURE MA MI SA CHE LO È STATO PERCHÉ ERO IPER LONTANO DAL PALCO E SI SENTIVA BASSO E NON AVEVO ANCORA TROVATO LA COLLINETTA CLAMOROSA ALLA DESTRA DEL PALCO GROSSO IN FONDO—TORNIAMO A UN PAIO DI RAGIONAMENTI CON CUI CONCLUDO TUTTO L’AMBARADAN:1) Mi sono trovato a un certo punto, il secondo giorno, a fare un pensiero. Avevo beccato per puro caso Jarvis Cocker dei Pulp che camminava per il pubblico e, nel giro di cinque minuti, mi sono imbattuto altrettanto a caso in Pyrex della Dark Polo Gang. E insomma, ero in un luogo in cui queste due persone potevano realisticamente conoscersi e darsi un cinque alto. Poi non è successo, ma già solo il fatto che sarebbe potuto succedere mi ha fatto stare bene.
2) Il mio piano per l’ultima sera era vedere Martyn, ma poi quando me lo sono trovato a suonare in un posto al chiuso in cui faceva molto caldo mi è un po’ scesa. Quindi mi son detto, insieme alla persona con cui ero, andiamo a vedere che cosa c’è sul palcone con l’anfiteatro. E qua devo aprire una piccola parentesi che renderà questo punto 2 un po’ più lungo del dovuto, ma che ci possiamo fare.
(Storicamente il Primavera l’ha sempre chiuso DJ Coco, che fa un DJ set che arriva fino al mattino e mette delle mine da singalong collettivo. Tipo qua, che fa cantare “Don’t Stop Believin’” dei Journey a un sacco di persone felici. Io c’ero stato tre volte al Primavera prima di questa ma per un motivo o per l’altro non ero mai rimasto fino alla fine. Stavolta invece sì.)
Bene: su quel palco non c’era DJ Coco ma c’erano DJ Rosario e Sama Yax, che io sinceramente non conoscevo ma che se ho capito bene dalla descrizione sul sito del Primavera (“in-house chefs”) sono due ragazze che c’entrano con gli organizzatori. E al suono dei loro pezzi ho davvero sentito, e tanto, l’idea del New Normal da cui abbiamo cominciato questo pippone di articolo. Sempre citando quello che ha scritto il festival:
Come tanti altri alleati maschi di cui andiamo orgogliosi, DJ Coco lascia il posto—e il palco—alle sue colleghe per chiudere il Fòrum nel modo più radicale di sempre. Le loro quattro mani non serviranno solo a far alzare i pugni al cielo ma anche a sollevare una rivolta nel pubblico con una session che unirà entrambe le loro inclinazioni: un back2back in cui disco, house, remix indie, e soprattutto musica fatta da donne avranno il luogo che si meritano. Il futuro è femmina? Non più. Il presente è femmina, e queste due stanno suonando la sua colonna sonora.
E vi giuro che non è una cazzata ma mi sono venuti i brividi mentre stavo, giusto ora, traducendo queste parole dall’inglese. Perché io mi sono trovato lì, a ballare “Juice” di Lizzo, “I Follow Rivers” di Lykke Li, “I Feel Love” di Donna Summer e Giorgio Moroder, e altre cose che chissà se ricordo, e davvero l’ho sentita questa cosa della normalità della bellezza.
I biglietti per il Primavera Sound 2020 saranno in vendita tra un po’. Nel frattempo, se ti gira, puoi prendere quelli della prima edizione americana, che si svolgerà a Los Angeles.
Elia è su Instagram.
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