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Cosa sappiamo del primo sito di trading di criptovalute sequestrato in Italia

Per la prima volta in Italia, è stato sequestrato un sito di trading di bitcoin e altre criptovalute. Il sito in questione è Crypt.trade e l’ordine di sequestro è partito dalla Procura della Repubblica di Roma. La denuncia è stata portata avanti dalla CoNSoB, la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa. Si tratta del primo intervento simile in Europa. La notizia è stata riportata da La Repubblica il 21 marzo e ha destato qualche preoccupazione nell’ambiente italiano legato al mondo delle criptovalute.

In particolare, a lasciare perplessi i lettori dell’articolo sono il titolo “Illecito offrire bitcoin sul web, prima sentenza in Italia (ed Europa): sequestrato un sito” e dichiarazioni contenute all’interno del pezzo — come “l’autorità giudiziaria ha stabilito che offrire criptovalute è una vendita illecita di prodotti finanziari” —, ad opera di Fulvio Sarzana, avvocato esperto di diritto dell’informazione e di copyright. Come conseguenza, la sentenza condizionerà anche altri siti che consentono di scambiare criptovalute.

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Ho provato a capire qualcosa in più sulla vicenda, cercando, per prima cosa, di reperire la sentenza — ma ho trovato solo riferimenti che risalgono a qualche mese fa sul sito di CoNSoB. A sciogliere i miei dubbi è stato poi lo stesso avvocato Sarzana, che ho contattato telefonicamente. Il primo aspetto fondamentale da chiarire è che le sue dichiarazioni fanno riferimento a un’ordinanza di sequestro che riguarda le indagini preliminari sul sito, un documento a cui ha avuto accesso l’avvocato ma che non è disponibile pubblicamente. Quindi, dobbiamo affidarci a quanto riportato dall’avvocato anche sul sito del suo studio con un post che parla di “Procura della Repubblica di Roma contro le criptovalute.”

La questione è stata posta in altro modo anche dallo stesso Sarzana in un post su Facebook. Se, come riportato dai documenti a cui ha avuto accesso l’avvocato, il sito prometteva ai risparmiatori rendimenti mensili tra il 17 ed il 29 percento grazie al trading di criptovalute, si può supporre che applicasse uno schema per truffe adottato con investitori poco esperti noto come “schema di Ponzi,” o “schema piramidale.” Un sistema del genere consente di ottenere i guadagni fissi promessi ma, per continuare a reggersi, richiede continuamente nuove persone disposte a investire, perché gli stessi guadagni derivano dalle quote pagate proprio dagli ultimi investitori e non da attività produttive o finanziarie. Ovviamente, quando si interrompe la catena, gli ultimi ad avere investito non vedono alcun ritorno economico, perché nessuno ha investito dopo di loro.

Dal documento a cui ha avuto accesso Sarzana, invece, emerge che il reato di cui sarebbe accusata la piattaforma fa capo invece all’art 166 del decreto 58 del 1998 (testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996). In particolare, questa legge punisce chi svolge servizi di investimento o di gestione collettiva del risparmio; chi offre in Italia quote o azioni di organismi di investimento collettivo del risparmio e promuove con tecniche di comunicazione a distanza strumenti finanziari o servizi di investimento, senza essere iscritto all’albo apposito.

Pur avendo accesso solo a parte dei documenti e dovendo attendere gli sviluppi della vicenda perché le indagini e i provvedimenti giudiziari sono ancora in corso, l’allarme che lancia Sarzana è questo: non si starà punendo per i motivi sbagliati una piattaforma di trading di criptovalute che probabilmente truffava i suoi clienti — rischiando quindi di coinvolgere anche le piattaforme che lavorano onestamente?

Fino ad ora, l’Italia si è limitata a regolamentare il settore delle criptovalute solo in funzione antiricilaggio, ma mancano ancora delle leggi sul trading. La situazione in Italia per quanto riguarda le criptovalute è ancora incerta, ma la legge già citata sostanzialmente assimila i “prestatori di servizi” nell’ambito delle criptovalute ai cambiavalute — in altre parole, li considera “operatori non finanziari,” che si differenziano da banche, promotori finanziari, società di investimento o consulenti finanziari.

Al contrario, nessuno le aveva ancora definite prodotti finanziari — che necessitano dunque di essere regolati come in questo provvedimento. Come è già successo in passato quando si tratta di nuove tecnologie, insomma, il rischio è che i riferimenti per eventuali leggi verranno presi dai primi provvedimenti giudiziari in materia, proprio come quello al centro di questo caso. Non sarebbe più semplice stabilire una volta per tutte delle leggi e definizioni valide per tutti?

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