È il 2 marzo, tra due giorni si vota e da cinque il dibattito politico è diventato una specie di caccia alle streghe nei confronti di una maestra delle elementari. Per chi non avesse seguito: mi riferisco al caso di Lavinia Flavia Cassaro, la docente di Torino che giovedì scorso, mentre partecipava a un corteo contro CasaPound, subito dopo una pesante carica da parte della polizia ha insultato gli agenti gridandogli contro: “Mi fate schifo, dovete morire.”
Dopo l’accaduto, Cassaro è stata indagata e sospesa—probabilmente a causa di una fortissima pressione mediatica che ha raggiunto picchi di assurdità e che continua ad andare avanti anche in queste ore.
Videos by VICE
Tutto è cominciato lunedì sera, quando a Matrix è stato trasmesso un servizio con un video dell’accaduto e un’intervista in cui Cassaro rivendicava le sue parole—indubbiamente forti—dicendo di averle pronunciate perché i poliziotti “stavano proteggendo i fascisti e perché un giorno potrei trovarmi fucile in mano a combattere contro questi individui.” Matteo Renzi, ospite in studio, ha subito commentato indignato e invocato il licenziamento della maestra: “Che schifo, una professoressa che augura la morte ai poliziotti andrebbe licenziata su due piedi.”
Successivamente, Matteo Salvini ha detto che Cassaro “non deve più mettere piede in una classe” mentre Di Maio è arrivato persino ad “espellere” dal Movimento 5 Stelle una consigliera comunale di Torino colpevole di essersi fatta fotografare in compagnia della “cattiva maestra.”
Che è come l’ha definita Massimo Gramellini sul Corriere della Sera, attaccando con la solita frase attribuita a Ennio Flaiano (che in realtà non è sua) sul “fascismo degli antifascisti”—“come sempre, aveva ragione Flaiano: in Italia i fascisti si dividono in fascisti e antifascisti”—e invocandone anche lui il licenziamento “per i danni che potrebbe fare ai bambini.” Sulla Stampa Mattia Feltri ha scritto un pezzo ben più agghiacciante, in cui spiega che le maestre antifasciste gli suscitano diffidenza in un’Italia di oggi “in cui per fascismo la morte non la rischia nessuno se non qualche immigrato” (il corsivo è mio).
Alimentata da articoli come questi, la campagna d’odio contro la maestra di Torino si è gonfiata sempre di più. Diversi quotidiani si sono precipitati a farle la paternale, intervistando genitori scontenti di bambini delle classi vicine e riportando voci di corridoio, il tutto in quello che appare come un tentativo di dipingere Cassaro come una fanatica incapace di insegnare, una “simpatizzante anarchica” che “ambisce al posto fisso” (Il Foglio), una testa calda che urla e strattona gli alunni. Persino la sua partecipazione a un presidio contro Forza Nuova è diventata una “notizia”—come a dire: ecco che ci ricasca ancora, nonostante tutto quello che ha fatto.
A questi si aggiunge poi Il Corriere, che dopo la “lettera aperta della figlia di un agente all’insegnante che urla contro la polizia”, ha pubblicato un’intervista a Cassaro più simile a un interrogatorio surreale, che si chiude con la domanda: Ma lei non ha mai un minuto di felicità?
Per come è stata trattata dai media, insomma, la vicenda della prof di Torino mi ricorda in modo impressionante un altro caso avvenuto proprio in questi stessi giorni nel 2012: quello di Marco Bruno, l’attivista No Tav diventato famoso per un video in cui dava della “pecorella” a un carabiniere in assetto antisommossa. Nel periodo immediatamente successivo alla diffusione del video, oltre a essere finito sotto processo, Bruno aveva ricevuto dalla stampa un trattamento simile: veniva descritto come un violento “col vizio delle armi” (in riferimento a un paio di tronchesi da lavoro che gli erano state sequestrate l’anno prima) ed era stata diffusa la falsa notizia che volesse soldi per farsi intervistare.
Ieri, riflettendo su tutto ciò, sono tornato ai casi su cui si è focalizzata la cronaca di recente. E il confronto con uno su tutti—certamente non paragonabile su molti livelli, ma qui considerato nel solo trattamento mediatico—mi ha riempito di domande. Mi riferisco al caso di Macerata di neanche un mese fa, e al modo in cui è stato seguito dai media. In quell’occasione, l’atteggiamento di una parte della stampa e della politica è stato l’opposto della demonizzazione: Traini è sempre stato descritto come “un folle” o addirittura “un bravo ragazzo” (questo dagli amici), con l’unica colpa di essere “esasperato dall’invasione.”
Nessuno ha riportato i pettegolezzi di condominio, nessuno ha fatto interviste-interrogatorio o lettere aperte dei figli delle vittime montate su una musichetta triste. Sembra quasi che augurare la morte a qualcuno sia più grave che sparargli per davvero.
Segui Mattia su Twitter