Spaccarsi la schiena
Illustrazioni di Giacomo Carmagnola.

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A11N5: Il nono annuale di narrativa

Spaccarsi la schiena

Dal nostro Annuale di narrativa, un estratto da 'Carne viva', romanzo di debutto di Merritt Tierce accolto con entusiasmo dalla critica americana.

Li conobbi tutti e quattro una volta che facemmo il catering per un evento esterno al ristorante, l'inaugurazione del loro centro di chirurgia mini-invasiva della colonna vertebrale. Quello che mi piaceva, Cornelius, fu l'unico con cui non andai a letto, e l'unico che mi chiese di uscire. Era laureato a Yale, quindi perché chiedeva di uscire a una cameriera? Non lo so. Due degli altri tre erano viscidissimi e il più bello era arrogante. Uno era talmente viscido che scappai, anche se di solito avevo parecchio pelo sullo stomaco. Cornelius portava camicie di seta Tommy Bahama a grossi disegni floreali e aveva più del doppio della mia età, ma non si sa mai. Qualcuno gli disse che ero una tipa sveglia e gli diede il mio numero. Dovevamo andare a vedere la mostra di Gordon Parks al Dallas Museum of Art, una domenica pomeriggio. Gordon Parks era stata una mia idea, e sapevo che avrebbe funzionato: magari gli avrebbe fatto pensare che potevo essere un imprevisto, qualcosa di bello ancora sepolto nel fango, in attesa di essere tirato fuori.

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Ma il sabato sera, sul tardi, beccai il mio pusher nel parcheggio del Kroger su Cedar Springs Road, e comprai quattro pezzi da venti. Alle dieci del mattino dopo, la botta non mi era ancora scesa nonostante avessi fumato una canna e preso cinque pasticche per dormire. Allo specchio non avevo più le iridi, ero tutta un buco nero e ci stavo cadendo dentro. Quando Cornelius mi chiamò non risposi.

Mi aveva chiesto di uscire la settimana prima. Mi sembrava un colloquio di lavoro ma avevo accettato lo stesso. Avrei svoltato come Jordan? Era una giovane cameriera bionda che era stata liberata da uno dei suoi clienti. Fondi speculativi. Dopo essersi sposati venivano spesso a cena al Ristorante, prima delle partite degli Stars o dei Mavericks. Io al posto suo non ci sarei mai voluta tornare, avrei avuto paura di scoprire che era stato tutto un sogno.

Nel mio caso uno scenario del genere non sembrava probabile, ma se fossi stata lucida avrei comunque risposto. Quando mi ripresi gli lasciai un messaggio a cui non rispose. Mi aveva dato una chance, con diffidenza, per noia e senza convinzione, e mi ero rivelata una fregatura. Non lo rividi più al Ristorante. Incredibile, che fosse così orgoglioso.

Gli altri tre: come ho detto ce n'era uno particolarmente viscido. Magari alla fine non era peggio degli altri due. Lo dico perché era più brutto, e a volte gli uomini brutti imparano a compensare la propria faccia con i modi gentili. Forse tutta la sua carriera era un tentativo di compensare la bruttezza: arrivare a fare i soldi con cui pagare le donne perché sorvolassero sul suo aspetto fisico. Pallidino, grasso, mi ricordava una talpa senza pelo che avevamo visto allo zoo. Non ha senso chiedermi cosa ci trovassi di attraente: è la domanda sbagliata. È chiaro che nel mondo del mio passato si possono trovare risposte solo ad altre domande. Tipo: perché un uomo è disposto a far finta di piacere a una donna? Cosa ci si guadagna a fingere? Mi feci prima quello brutto. Ci vedemmo in un locale del suo quartiere, bevemmo del whisky.

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Chiedo alla mia memoria: perché ho fatto ciascuno di quei passi? Una volta un uomo odioso mi ha detto che sono una che vuole saltare le tappe e invece no, i passi li ho fatti uno per uno. Prima quello, poi quell'altro, poi un altro ancora, e tutti volontariamente. Sulla parte di me che prende le decisioni si è ormai sedimentato uno spesso strato di placca, una concrezione gessosa che e il paradossale risultato di tanti momenti inconsistenti. Dopo il locale, casa sua. Un posto come ce ne sono mille, elegante e costoso ma senza niente che lo rendesse speciale. Tre piani. Al primo mi tolsi i tacchi. Al secondo ci accomodammo su un divano di pelle nera a guardare un televisore gigante. Lui si stese dietro di me e mi premette addosso la sua erezione. Io puntai lo sguardo nel vuoto e rimpiansi che quella fosse la mia vita. Al terzo piano andammo a letto e lui era felice come una pasqua. Ce l'aveva fatta. Mi aveva portata fino a lì. Dentro casa, su per i tre piani, e poi sul suo letto. A quel punto non potevo non dargliela. Mi stesi accanto a lui, mi voltai dall'altro lato e sentii il rumore del cassetto del comodino che si apriva. Si sbrigò a infilarsi il preservativo come se potessi scomparire da un momento all'altro. Mi lasciai penetrare. No, pensavo. No no no. Lo sussurravo a ogni sua spinta.
No.
No.
No. Un attimo devo fare pipì, dissi. Mentre andavo in bagno presi la borsetta che avevo lasciato sul comò. Pavimento di marmo, soffitto alto, due lavabi di acciaio incassati in un lungo ripiano nero. Sul nero del ripiano il mucchietto di coca faceva un effetto delizioso e sopra, allo specchio, vedevo il mio riflesso. Avevo l'aria preoccupata. Non ti preoccupare, dissi a me stessa, adesso ce ne andiamo.

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Aprii tutti e due i rubinetti. I chirurghi non pippano, bevono. Formai due strisce con il bancomat e le sniffai da un pezzo di cannuccia che tenevo sempre in borsa. Leccai il bordo del bancomat. Leccai il ripiano. Pisciai e mi guardai il naso allo specchio. Immaginai lei seduta sul ripiano, con le gambette penzoloni che dondolavano su e giù. Tornai in camera da letto e dissi: Scusa, devo andare, non mi sento bene. Tremavo e mi sentivo bella. Era bello anche avere solo un indumento da rimettermi addosso, il vestito nero da cocktail buttato lì per terra. Me lo infilai dalla testa. Reggiseno e mutande non li porto. Ci vediamo, dissi. Lui non cercò di fermarmi.

Gli altri due sono una storia sola. Dopo il lavoro, dopo avergli servito le bistecche al Ristorante, li raggiunsi in un locale dove bevemmo e ballammo. Loro erano arrivati in taxi ma io avevo la macchina quindi all'uscita guidai io. Una macchina minuscola, e loro erano tutti e due molto alti, c'entravano appena. Il nero sarà stato più di uno e novanta. Il bianco qualche centimetro di meno. La macchina risalì le rampe a spirale del parcheggio del palazzo in cui abitava il bianco. Su, su, su fino all'ultimo piano. Si capiva che dentro quella macchina si sentivano ridicoli e mi sembrò di metterci un'eternità a parcheggiare. Il nero era stupendo e perfettamente padrone di sé. Era chiaro che nella vita avrebbe ottenuto tutto quello che voleva. Io mi misi fra l'uno e l'altro e insieme mi spogliarono. Guarda che carina, disse il bianco. Mi fece un sacco piacere. Quanti anni ha?, disse il nero. Ventuno, tranquillo, disse il bianco. A lui lo succhiai mentre il nero mi scopava. Venne e poi si mise a dormire per terra, era troppo lungo per il letto del bianco. Io odiavo restare tutta la notte perché al mattino era sempre un'altra cosa. Perciò quando furono tutti e due belli cotti me ne andai, ripercorrendo le rampe del garage.

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Giù, giù, giù.

Lavorando al Ristorante tutte le sere, in certi periodi capitava di vedere gli stessi clienti due o tre volte a settimana, e poi magari non li si vedeva più per sei mesi. Il chirurgo vertebrale bianco e alto scomparve per un po' ma poi tornò con la famiglia per Natale e fui io a servirli. Che piacere vederti, dissi. Anche per me, tesoro, come stai?, fece lui. Qualcuno mi aveva detto—forse era stato proprio quello brutto, senza timore di offendere la sua stessa categoria—che i chirurghi vertebrali sono i più deboli fra i chirurghi, che la schiena non si riesce a curare davvero quindi loro aprono, smanettano un po', fatturano una barca di soldi all'assicurazione e spediscono il paziente a fare terapia del dolore.

Alla cena di Natale quello bianco alto si era portato una ragazza, la fidanzata ufficiale o qualcosa del genere. Lei era seduta alla sua sinistra e io in piedi alla sua destra a elencare le specialità del giorno, che erano presentate ancora crude e avvolte nel cellophane su un grosso vassoio rettangolare di ceramica che avevo messo al centro del tavolo. Descrissi accuratamente ogni taglio di carne esposto. Alla fine dissi: E il pesce fresco di oggi e una spigola cilena, scottata in padella, e in quel momento lo sentii infilarmi una mano fra le gambe e avvolgermi l'avambraccio intorno allo stinco, accarezzarmi il polpaccio. Lei non poteva vederlo e non potevano vederlo neanche gli altri perché alle spalle avevo una parete. Lo chef la serve su un letto di asparagi grigliati accompagnata da una salsa beurre blanc con polpa di granchio, dissi. Mi chinai in avanti per tirar su il vassoio dal tavolo. Senza neanche vederlo sentivo che dietro di me c'era un altro cameriere, fermo ad aspettare che glielo passassi. Il vassoio pesava una decina di chili quindi dovetti bilanciarmi spostando un piede in avanti, e quando lo feci il chirurgo risalì con la mano lungo l'interno della coscia e mi infilò il pollice fra le labbra. Premette forte, come se per qualche motivo fino a quel momento potessi non essermi accorta di nulla. Mi concentrai sulla mano sinistra con cui stavo sollevando un angolo del vassoio. La destra ce la misi sotto e mi concentrai sulle venature di grasso nello chateaubriand e sulla posizione dei calici da vino che avevo sotto i gomiti. Oddio sembra pesantissimo!, esclamò la ragazza del chirurgo. In effetti, dissi io. Amore, aiutala, disse lei al chirurgo. Ce la fa, disse lui, dato che in quel momento non aveva modo di togliermi la mano da in mezzo alle gambe senza dare nell'occhio. Grazie signorina, non si preoccupi, dissi, però se mi viene un'ernia me la prendo col suo compagno. I commensali ridacchiarono. Sollevai il vassoio perpendicolarmente al tavolo e poi lo feci scorrere all'indietro, sapendo che il collega alle mie spalle me l'avrebbe tolto di mano appena fosse passato indenne fra le teste dei clienti. Non mi voltai nemmeno, mentre DeMarcus mi diceva all'orecchio Grazie cara e prendeva il vassoio.

Fatemi sapere se avete domande sul menù, dissi alla tavolata, e per qualunque richiesta particolare siamo a vostra disposizione. Guardai il signore anziano seduto di fronte a me—probabilmente il padre del chirurgo, che probabilmente avrebbe pagato il conto—e gli sorrisi.

A meno che la richiesta non venga da questo signore qui, aggiunsi, indicando il chirurgo con un cenno della testa mentre continuavo a sorridere raggiante al vecchio. Poi guardai il chirurgo e dissi: A lei le porto solo un bel piattone vuoto.

Lui tolse la mano e la allungò verso la birra, e tutti risero.

Carne viva, il primo romanzo di Merritt Tierce da cui è tratto questo brano, è edito da SUR. Traduzione di Martina Testa.
© Merritt Tierce, 2014
© Edizioni SUR, 2015
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