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Attualità

Più Carmelo, meno Oscar

Senza nulla togliere ai vari Petri, Pasolini e via dicendo, Carmelo Bene era oltre. Principalmente oltre se stesso e oltre l’idea di cinema; anzi, era contro il cinema.

Illustrazione di Simone Tso.

Fino agli Oscar facevo parte di quella fetta di italiani che, per niente fan di Sorrentino, non aveva ancora visto La Grande Bellezza. Però dopo la vittoria, inevitabilmente, mi è toccato farlo: magari che so, poteva essere ai livelli del vero Oscar meritato dell’intera storia del cinema Italiano, ovvero Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri (che infatti nessuno cita mai alla bisogna). Insomma, eccomi là che me lo guardo. A un certo punto mi sono anche addormentato, cosa che non mi capitava penso da Forrest Gump. Ma c’è stato un momento nel film in cui ho avuto un sussulto: nella scena della ragazzina che fa l’action painting, costretta a performare per un pubblico di ricconi snob, ho rivisto il piglio cinematografico di un maestro che ci ha lasciato proprio il 16 marzo di 12 anni fa. Parliamo di Carmelo Bene.

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Non solo in quella scena (che potrebbe ricordare l’esperienza del teatro laboratorio, in cui appunto Bene dileggiava gli spettatori alto borghesi con performance al limite della denuncia), ma in quelle subito seguenti: i chiaroscuri, gli inquietanti dipinti e un effetto sonoro di mareggiata in sottofondo sembrano proprio scippati a lui e a Capricci, il film del 1969 in cui Bene spappolava completamente l’idea di film d’azione, ne smascherava i meccanismi, prendeva dei vecchi sporcaccioni—che sul set si cacavano letteralmente addosso—a recitare con delle bambine, usava luci tipo Goya… insomma, un delirio anticinema che è la cifra stilistica, o meglio la non cifra, di tutti i suoi lavori. Ecco, a un certo punto pensavo davvero che il film di Sorrentino avrebbe preso una piega tale da distruggere il suo stesso cinema dall'interno partendo per la tangente del delirio gratuito, della pellicola che esce dai dentini. Invece poi tiè, ecco Verdone che dice le solite stronzate e le citazioni a caso da Fellini.

A quel punto mi sono chiesto che cosa avrebbe detto di questo film Carmelo Bene: forse ne avrebbe elogiato l’inutilità? Come quando partecipò a Macao, la trasmissione di Boncompagni in cui in pratica si complimentò con Alba Parietti per la bruttezza della trasmissione, in quanto qualcosa di depensante, immerso nel porno inteso come “il manque, è quanto non è, è quanto ha superato se stesso, è quanto non ha voglia.” La sua citazione più famosa, che come una goccia a scavare il marmo ripeteva sempre uguale in ogni intervista usando la tecnica del loop a lungo termine come una vera e propria persuasione occulta è che "il meglio del peggio è il pessimo." Forse quindi, mi sono detto, in questo caso avrebbe constatato “il pessimo” nel tentativo di fare un cinema sensato nell’insensatezza totale.

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In effetti forse Carmelo Bene è stato l’unico regista italiano degno di questo nome. Senza nulla togliere ai vari Petri, Pasolini, Pontecorvo, Grifi e via dicendo, Carmelo era oltre. Principalmente oltre se stesso e oltre l’idea stessa di cinema, anzi, era contro il cinema. Vista come illusione fascista, “l’arma più forte,” che agli occhi della gente suscita sempre lo stesso sentimento di quando per la prima volta i Lumière proiettarono un treno in corsa sullo schermo: la classica reazione dei selvaggi che si spaventano credendo che gli stia davvero venendo addosso. E allora giù a stravolgere le inquadrature, spezzando la visione, calpestando e maltrattando la pellicola: non per fare l’esteta tipo Stan Brakhage, ma proprio per umiliarla. In Nostra Signora dei Turchi (il suo primo lungometraggio) c’è tutta questa tensione alla decomposizione, perché se il cinema dà l’illusione della vita a questo punto è necessario farlo morire davvero. I dialoghi ovviamente che senso hanno? Sono delirio schizofrenico, disastro musicale, puro significante e stop.

Con un budget risibile ma forte di quest’opera prima il nostro si accaparra nel 1968 il Leone d’Argento a Venezia, rompendo il culo alle megaproduzioni hollywoodiane e ai registi impegnati quali appunto Bertolucci, Pasolini ecc. Insomma, nello stesso momento della sua entrata a gamba tesa nel cinema italiano già dà scandalo ed è odiato per il suo piglio a bassa fedeltà, paradossalmente alla ricerca però dell’innovazione stilistica, della nuova tecnologia, della sintesi usata al fine non di innalzare, bensì di far finire una volta per sempre la settima arte coi suoi stessi strumenti.

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Ed ecco quindi (subito dopo il già citato Capricci) nel 1970 il Don Giovanni: girato anche in questo caso con due lire e montato freneticamente—fino a quattromila inquadrature più fotogrammi subliminali—una cosa pazzesca, definita “Eisenstein da camera“ da certa critica. L’importanza di Lydia Mancinelli, sua attrice preferita, sua compagna, sua musa, sua manager—parlando di lei diceva “io sono la sua donna”—che in questo film interpreta le conquiste femminili di Don Giovanni, come a dire che alla fine il delirante seduttore è (autobiograficamente) più monogamo che mai, mette la donna in primo piano rispetto a un discorso di pura gregaria o, peggio, di diva, sfruttata dallo starbiz per interpretare i pruriti del pubblico sempre in cerca di cambi di vestito, di scena o di ruolo. Ebbene qui non c’è ruolo che tenga, non c’è la Ferilli a fare la spogliarellista decrepita: ed è una prospettiva quindi diversa anche da Il Casanova di Federico Fellini— che non a caso verrà molto dopo, essendo Federico un grande ammiratore di Bene.

Certo non c’era la Medusa a produrre i suoi lavori, il rischio era tutto suo: ogni uscita era corredata da un disastro economico e spesso anche fisico, senza mezze misure. Ecco allora l’invenzione della tecnica del videoclip con Salomè,1972, che può essere considerato il suo vero capolavoro: un lavoro certosino per creare la perfezione di un immaginario solarizzato, disagiato, nudo, a base di pezzetti di nastro adesivo fluo che hanno l’effetto di un caleidoscopio di colori pop art a cui Bene mostra il culo come il prete ai mosaici quando dà messa. Saccheggiato a più non posso proprio dagli anni Ottanta di MTV quanto anche da Dario Argento e altri sedicenti registi, Salomè è anche e soprattutto un film sulla luce, sul ruolo del proiezionista come deus ex machina, sul cinema che acceca l’intelligenza fino a toglierti la pelle di dosso come nella scena finale—la pelle/pellicola che si strappa dal corpo di Erode, appunto—e rimarrà insuperato: proiettato al festival di Venezia fu accolto da una rivolta degli spettatori, sedata dai celerini, con la gente che gli sputava addosso e lui a ringraziarli sardonico per farli incazzare ancora di più.

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Gli ostacoli ai suoi film sembravano insormontabili, tanto che per ottenere il premio qualità ad ogni sua uscita dovette armarsi di mitra a salve e presentarsi davanti alla commissione sparando all’impazzata. Oggi come oggi una cosa simile sembra non possa accadere: forse solo Florian Hecker in musica è riuscito a farsi semilinciare in nome del nulla, neanche A Serbian Film è riuscito a suscitare non più di un paio di conati di vomito: per il resto regna il gesto innocuo (Sorrentino non fa eccezione con quel famoso Divo che più che infastidire il potere sembra uno sparare alla croce rossa). Tornando a Bene: il seguente film Un Amleto di meno, è l’ultimo vagito del cinema beniano che oramai, più che non avere nulla da dire, non vuole proprio dirlo, con disciplina impeccabile. Uno sberleffo, un Arancia meccanica (film coevo) senza finta violenza ma con violenta finzione: fish eye a manetta, sì, ma usato come a voler seguire le orme del Saturnus di Ludo Mich e riportare i puntini sulle I rispetto a Kubrick. Una pagliacciata parafuturistica insomma, con citazioni da THX 1138 di Lucas (il bianco assoluto poi anche nei futuri clip di Bowie) nel mito di Amleto preso a calci, con vestiti giullareschi che ricordano stranamente quelli de Il Dormiglione di Woody Allen, uscito lo stesso anno (chi ha saccheggiato chi?).

Da questo momento, conscio che si sta facendo prendere un po’ troppo la mano, il nostro tornerà a teatro e soprattutto alla televisione, per la quale sfornerà dei grandissimi momenti—fra i quali appunto un nuovo eccezionale Amleto e un Lorenzaccio da urlo. L’eredità che Bene lascia al cinema italiano non l’ha lasciata nella morte biologica, quanto nella morte da vivo (noto il fatto che invocasse i suoi funerali prima del tempo), nello smettere di filmare: in qualche modo presagendo l’arrivo di supporti casalinghi atti a ridurre le dimensioni della “realtà virtuale” e quindi un cambio di rotta per contrastarla a volte profetico (citando Edoardo diceva: “Il televisore è un elettrodomestico tra gli altri, da collegare se vuoi all’aspirapolvere”). Il suo fare cinema è simile a 4'33" di Cage, dove il silenzio è un pretesto per ascoltare i rumori della sala. Ugualmente, Bene ha sempre detto di non aver mai frequentato il cinema se non per sentire le coppiette baciarsi, i gay farsi fellatio o semplicemente per fumare comodi. Insomma ci andava solo per vivere la distrazione: e il suo cinema è esattamente “morto, filmato per sempre,” la “pattumiera di tutte le arti,” smascherata. Un cinema ancora adesso scomodo, che lui portava avanti come una guerra futurista perché, parole sue, “la corrida rischia la pelle ma il cinema non rischia la pellicola.”

”Per me è tutto lo stesso film. Certo, nello splendore del cinemascope nel caso del cinema americano, dove il professionismo non è un attenuante, il contrario.” E quindi niente, tornando a Sorrentino mi sono reso conto che il maestro aveva visto giusto: qui invece di smontare il cinema per essere sia di qua che di là della macchina da presa si cerca l’illusione, la fotografia per le allodole, la prestidigitazione unidirezionale.

Nella notte degli Oscar intanto si sprecano nomination e metodi Stanislavskij con gente che dimagrisce duemila chili per far finta di avere l’AIDS quando di ogni film che esce ogni giorno si salveranno scarsi due/tre centimetri di pellicola. Perché, a dispetto della fama di egocentrico del Nostro, tutti dovrebbero avere l’onestà di pronunciare queste parole: “Ho sufficiente autocritica per riconoscere al mio cinema l’importanza che merita […]. Detto questo, salverei due o tre sequenze in tutto: Erode che si lascia spellare vivo (alternato alla crocifissione mancata) in Salomè e la pellicola massacrata, calpestata bruciata in Nostra Signora dei Turchi.” Altro che Oscar: aridatece Carmelo.

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