Com'è vivere con il disturbo bipolare in Italia

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Com'è vivere con il disturbo bipolare in Italia

Ho incontrato T. nel locale in cui lavoro, dove si era presentata durante una crisi. Solo dopo ho scoperto che soffre di bipolarismo da più di vent'anni. Per saperne di più, mi sono fatto raccontare la sua storia.

Qualche settimana fa è entrata nel locale dove lavoro una donna sui quarant'anni. Aveva un vestito nero, era confusa e piangere le aveva fatto colare il trucco sul viso. Alla sua richiesta di qualcosa per dormire le ho fatto fare una camomilla, anche se in verità lei intendeva del rum.

"Sto per morire—chiamami un taxi, un'ambulanza o portami a casa da mio figlio," è stata la frase successiva. Mentre stavo chiamando un taxi ho sentito dei vetri infrangersi: la signora aveva tirato un bicchiere per terra dopo aver discusso con un mio collega. Poco dopo è uscita urlando e sbraitando, lamentandosi del fatto che il taxi non fosse ancora arrivato.

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È stato così che ho conosciuto T. Solo quando era ormai uscita dal locale ho scoperto che soffre di bipolarismo da più di vent'anni. Per qualche motivo, nei giorni seguenti ho continuato a pensare a quella scena, e ho cominciato a preoccuparmi per lei. Con un giro di chiamate—sì, ero preoccupato fino a questo livello—ho scoperto che T. era stata ricoverata: le avevano dato dieci giorni in psichiatria.

Dato che quell'incontro mi aveva decisamente colpito, ho deciso di aspettare che uscisse dall'ospedale per chiederle di raccontarmi qualcosa di più sulla sua vita e sul suo disturbo.

"Vorrei che capissi fin da subito che non è un dramma essere bipolari. La gente tende a percepire questi disturbi come qualcosa di terribile," esordisce T. quando ci incontriamo nel ristorante di Perugia dove avrà luogo la nostra conversazione. "Purtroppo in Italia la malattia mentale è ancora un tabù. Una volta, per esempio, ho rilasciato un'intervista, e quando è uscito l'articolo ero in copertina con mio figlio vicino alla Hunziker—mi avevano etichettato come 'il dramma della sindrome bipolare'. Anche se in quel momento è stato utile per far comprendere la mia situazione agli altri, non è stato piacevole," continua.

Mentre aspettiamo i piatti, chiedo a T. di come si è accorta del suo disturbo. "Diciamo che io questa cosa l'ho sempre sentita sin da bambina, però l'ho capita realmente solo con la diagnosi. Già nelle note in fondo alle mie pagelle c'era sempre scritto che ero una bambina 'vulcanica'," mi risponde. Le cose si sono fatte più complicate durante l'adolescenza, quando ha iniziato a soffrire di bulimia e di binge eating disorder [ un disturbo del comportamento alimentare che consiste nel manifestarsi di cicliche abbuffate]. In quegli anni, spiega, ha iniziato a parlare di suicidio, anche se non lo pensava davvero.

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Come per tutti disturbi psichici, alla base del bipolarismo c'è una componente genetica che può esplodere o meno. A volte l'esplosione avviene in seguito a traumi o all'assunzione di droghe psicoattive, come nel caso di T. "Non so certa di quanto le due cose siano connesse, ma sono abbastanza sicura che siano cominciate a peggiorare quando ho fatto uso di funghi allucinogeni ad Amsterdam."

"[Ma in generale] sono così da quando ho memoria: o spenta o accesa. Il problema è che la diagnosi è arrivata molto tardi, perché sai, in quegli anni non se ne sapeva ancora molto. Fino al momento della diagnosi nessuno sapeva cosa avessi realmente, e di conseguenza non riuscivano a trovarmi una cura idonea."

La diagnosi è molto complicata perché, soprattutto allora che non erano mai state fatte in Italia, la "volatilità" del disturbo lo rende in qualche modo inafferrabile. "Il disturbo bipolare è l'alternarsi di stati depressivi e stati maniacali. La diagnosi è difficile proprio perché non sei mai 'ferma' in una situazione, è qualcosa di fugace. Voglio dire, se hai un tumore se ne sta lì, capisci?," mi spiega. "In più non c'è un chiaro consenso su quante sfaccettature abbia questo disturbo, e di conseguenza non c'è quasi mai una diagnosi precisa."

Ovviamente, le difficoltà della diagnosi si riflettono inevitabilmente anche sulla cura. "Ogni volta che mi visitavano non avevo nulla o ero 'semplicemente' depressa. Così ti prescrivono degli antidepressivi che ti spingono dritta verso l'altra faccia del tuo disturbo." Se gli antidepressivi da soli non sono infatti la soluzione e devono essere prescritti solo al bisogno, la cura del bipolarismo si basa—oltre che su un ambiente esterno stabile—sulla prescrizione di diversi tipi di medicinali che interagiscono tra di loro per creare un equilibrio. "La componente più importante sono sicuramente i sali carbonati di litio che stabilizzano l'umore," aggiunge. "A questi si accodano diversi tipi di antipsicotici e antiepilettici. In fasi d'ansia prendo anche lo Xanax, ma solitamente non sono molto ansiosa."

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Poco dopo, mentre fumiamo l'ennesima sigaretta, le chiedo di come si concretizza il disturbo nella sua vita. "È una cazzata pensare che il bipolare cambi umore repentinamente nel corso della giornata; può succedere, certo, ma non è così semplice. Il disturbo si concretizza per un andamento a fasi o 'episodi', se vogliamo usare termini medici," mi risponde. "C'è una fase di depressione che può durare settimane o mesi in cui passo il mio tempo sul divano con la mia coperta a guardare la televisione. A questa, segue un fase di forte euforia detta anche 'episodio maniacale'." Spesso, questa fase è annunciata da piccoli sintomi prodromici come risvegliarsi precocemente per il senso di benessere percepito—per T., "in quella fase vivo anche deliri di onnipotenza e non percepisco il potenziale rischio delle situazioni a cui mi espongo."

Le domando cosa voglia dire non percepire il pericolo. "Be', faccio cose senza pensare alle conseguenze. Può essere sesso occasionale con gente a caso perché mi sento particolarmente bella, dormo meno e bevo di più, ma si può trattare anche di situazioni peggiori, come quando mi sono legata nuda a un palo con un filo di gomma all'ombelico e chiedevo alla gente di tagliarmi il cordone ombelicale; o quella volta in cui, a Milano, mi ero messa delle ali e regalavo rotoli della felicità alla gente," mi racconta T. ridacchiando.

"Poi arrivi a un certo punto e ti devi fermare—solitamente corrisponde al momento in cui vengo ricoverata," mi dice. T. è stata ricoverata otto volte, e noto come parlarne le provochi un po' di disagio. "L'ultima volta sono stata messa nel reparto maschile perché in quello femminile non c'era più posto. Vedere uomini nudi legati ai letti non è stato molto piacevole," mi confessa.

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Nonostante tutto, però, secondo T. i ricoveri le sono utili per riposarsi e stabilizzarsi. È quasi sempre stata lei a richiedere uno. "Poi quando esco inizia un periodo di cosiddetta 'eutimia' in cui il mio comportamento è socialmente accettato. Solo che quel periodo per me corrisponde alla noia più totale: non provo nulla. Non sto né bene né male, sto e basta. Senza sentire nulla," aggiunge. "Ora ho imparato a gestirle queste sensazioni. In passato è stato più difficile e spesso quelle situazioni sfociavano nel pensiero della morte."

Oggi, spiega, c'è sempre qualcosa che riesce a fermarla. "Può essere la famiglia o semplicemente il fatto che io voglia vivere in realtà. L'ultima volta che ci ho pensato ero in giardino e guardavo l'altalena di mio figlio: guardavo la corda e dicevo dentro di me che lo avrei fatto. Ho slegato l'altalena e preparato tutto dicendo che quella notte mi sarei fatta fuori; la sera mi sono addormentata e il giorno dopo stavo rimontando l'altalena perché mio figlio era arrabbiato che non c'era più."

Quando le chiedo se pensa che oggi la bipolarità sia capita più a fondo, accenna a quanto la ricorrenza di questo termine possa avere anche lati negativi. "In generale trovo altamente fastidiosa la tendenza delle persone a dire di essere bipolari solo perché hanno qualche cambio d'umore durante la giornata. È una cosa che non auguro a nessuno e sentire le persone giocare su questa cosa mi fa male. È un po' come l'ipocondria o la depressione: sembra che oggi tutti stiano male ma poi a curarsi non ci va nessuno."

T. a questo punto mi spiega che non è un vanto essere bipolari, ma tantomeno una condanna. "Preferisco avere questo problema che altri. Ormai mi ci riconosco e rappresenta quello che sono io. Alcune volte non sento nulla e lascio che le giornate vivano me ma altre percepisco il doppio e così pariamo i conti. Come quando sono uscita dall'ospedale. C'era una papera nel parcheggio. Una paperetta gialla da sola che camminava goffa. Mi ha fatto stare bene anche se poi non ho potuto riportarla a casa. Ma sono piccole cose così che mi fanno capire che voglio vivere."

Mentre il cameriere ci sparecchia il tavolo, T. va a fumare un'altra sigaretta. Quando torna mi dice di avere un appuntamento e se posso darle un passaggio. "O vuoi chiamarmi un taxi?", mi chiede ridendo.

Illustrazione di Sara Ciprandi. Segui Leon su Twitter.