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Ho girato per una settimana a Milano con una mascherina anti-smog

Volevo capire se avrei respinto di più le polveri sottili o gli altri esseri umani.
mascherina antismog milano
L'autrice, in una giornata di sole e smog all'orizzonte. Immagine: VICE

Il 2020 è iniziato anche in Italia all’insegna di un’epifania ricorrente: le città sono inquinate e l’inquinamento fa male alla salute. Mossa da questa evidenza, da una settimana giro per Milano con una mascherina antismog nera che sembra uscita da una distopia post-apocalittica. Vivendo in una città in cui molti ciclisti le usano già da tempo, e considerato che andiamo verso un futuro di città gigantesche e dalle condizioni ambientali molto precarie, ho deciso di provarla anch’io per vedere che reazioni suscita, se è vero che sembra di respirare meglio e se respinge più le interazioni umane o le polveri sottili.

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A confermare (ancora una volta) quanto sia dannoso l’inquinamento, a novembre 2019 è arrivato uno studio pubblicato su Lancet, secondo cui l’Italia è al primo posto in Europa per morti premature da esposizione alle polveri sottili e undicesima a livello mondiale. Già lo scorso marzo, l’Organizzazione mondiale per la sanità aveva spiegato che l’aria inquinata uccide ogni anno circa 80mila persone solo in Italia. Per intenderci, nel 2018 le morti causate da incidenti stradali sono state 3.334.

Come è facile immaginare, gli effetti si concentrano soprattutto nel centro-nord e in particolare in pianura padana. Milano poi, oltre a trovarsi in un avvallamento, è circondata da industrie, ha molti abitanti, molti edifici (quindi molti impianti di riscaldamento), tanti veicoli e poco verde. È quindi legittimo aspettarsi una qualità dell’aria peggiore.

A ben guardare, nell’allarme di questi giorni non c’è nulla di nuovo. Come dimostrano i dati raccolti da Arpa, l’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente, il livello di inquinamento atmosferico delle ultime settimane è simile a quello degli anni scorsi nello stesso periodo, quando i riscaldamenti sono più attivi e si tende a usare di più la macchina. Dire che non si tratta di una novità, però, non significa minimizzare: sono diverse settimane che a Milano non piove in maniera costante e negli ultimi giorni i livelli di Pm10—le particelle inquinanti con un diametro inferiore al centesimo di millimetro usate spesso come indicatori—hanno superato gli 80 microgrammi per metro cubo (µg/m³), per un valore limite fissato a 50 µg/m³.

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La qualità dell'aria a Milano e dintorni il giorno di pubblicazione dell'articolo, come segnalata sul sito dell'ARPA Lombardia. Screenshot via: ARPA

Il primo a sdoganare l’uso di massa delle mascherine è stato il Giappone, durante una pandemia mondiale all’inizio del Novecento e in occasione del terremoto di Kanto del 1923, in seguito al quale si verificarono una serie di incendi che resero l’aria satura di fumo per molte settimane. Dagli anni Cinquanta in poi, con l’industrializzazione post-bellica, il fenomeno si è consolidato per poi estendersi a tutta l’Asia.

Non proprio tutta, in realtà. A Hong Kong le mascherine sono diventate uno dei simboli delle proteste anti-cinesi, tanto che il governo centrale le ha rese illegali nei luoghi pubblici, e in India—a oggi il Paese più inquinato del mondo—tra le autorità mediche che tendono a minimizzare e il fatto che la maggior parte della popolazione non ha 40 dollari e nemmeno 5 da spendere per una mascherina, il nuovo accessorio non ha ancora preso piede.

Come ha osservato Vox, anche in Occidente la mascherina antismog si sta pian piano diffondendo. In una città come Milano, dove il numero di turisti asiatici è alto, la situazione è ibrida: qualche mascherina in giro si vede, abbastanza da non scandalizzare i più, ma non si è ancora diffusa come fenomeno di massa, nonostante la moda se ne sia appropriata da anni (da quella antigas di Marine Serre alla balaclava di Gucci) e malgrado l’endorsement di Fedez.

Purtroppo nei negozi l’assortimento non è ancora così vasto, così per il mio esperimento ho ripiegato su un sobrio modello nero. Innanzitutto dimenticate le mascherine “da chirurgo,” quelle bianche di carta, che fermano solo le particelle più grandi, come già fanno banalmente i peli del naso. Per sperare in un minimo di efficacia bisogna ricorrere a prodotti certificati N95 (che è lo standard europeo contro Pm10 e Pm2,5).

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Dettaglio della mascherina. Immagine: VICE

Appena apro la confezione sorrido vedendo le dettagliate istruzioni che spiegano per punti come indossare la maschera, nemmeno fosse un divano Ikea. Ma sbaglio: indossarla nel modo giusto non è così scontato e per fortuna ci sono ben due opzioni, perché la prima, con gli elastici intorno alle orecchie, nel mio caso resiste solo pochi secondi.

Le prime impressioni non sono ottime: troppo grande per la mia faccia e impossibile da mettere senza spettinare i capelli. Causa dimensioni dell’accessorio, anche la visione periferica verso il basso è compromessa.

Se dal punto di vista estetico l’effetto mi piace molto—come a chiunque abbia un concetto di eleganza che coincide con l’outfit perfetto per l’Apocalisse—a livello sociale è stata un po’ imbarazzante, soprattutto perché negli stessi giorni è esploso il caso del Coronavirus e la mia paura era di sembrare una fanatica germofobica o, al contrario, un’untrice.

Girando per la città, però, solo una persona mi ha chiesto se fossi malata, mentre un vicino di casa ha fatto finta di non conoscermi (o non mi ha riconosciuta davvero: come ho già detto, la maschera è grande e mi copre quasi tutta la faccia). Tutti gli altri mi hanno ignorata, al massimo dopo avermi fissata per qualche secondo.

L’impressione (anche solo psicologica) di respirare meglio nel mio caso però non c’è stata affatto, anzi. La sensazione, per quanto più lieve, era quella di una mano costantemente premuta sopra la bocca, con l’aggravante di dover svolgere con difficoltà attività per me frequentissime, come soffiarmi il naso o bere acqua.

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Ma quanto sono utili per la nostra salute, allora? L’ho chiesto ad Alessandro Miani, presidente del SIMA, Società Italiana di Medicina Ambientale, e la sua risposta è stata molto chiara: “Non servono a nulla, perché fermano solo i pollini e le polveri più grandi, mentre le più dannose sono le polveri ultrafini (da Pm1 a scendere), che raggiungono le vie respiratorie profonde e gli alveoli polmonari e sono in grado di penetrare la barriera ematica e la barriera ematoencefalica.”

“L’inquinamento atmosferico,” ha proseguito Miani, “è composto da particelle solide, da goccioline (come un aerosol) e da particelle di origine gassosa. Le più pericolose sono quelle di origine carboniosa che sono le più piccole, chiamate appunto nanoparticelle o polveri ultrafini, e si misurano in nanometri.”

In realtà, secondo Miani, pochi dei provvedimenti che stiamo attuando hanno un impatto significativo sulla salute dei cittadini: “Le domeniche a piedi, le targhe alterne o anche la proposta di vietare il fumo all’aperto sono tutte azioni emergenziali che, senza un piano serio sul lungo periodo, finiscono per essere meri palliativi. È come se avessimo 10 persone che fumano in una stanza e dicessimo a uno di uscire pensando di aver risolto il problema.”

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L'autrice, nel traffico. Immagine: VICE

Per Miani servirebbe un piano pluriennale, che riduca le emissioni da riscaldamento domestico, applicando per esempio dei sistemi di filtrazione sui comignoli degli edifici. Un secondo fattore utile sarebbe la riforestazione selettiva urbana con specie arboree che agiscano positivamente sulle polveri sottili. E non sarebbe male anche sostenere progetti promettenti (come quelli di alcune start up italiane) che stanno studiando con successo nuovi sistemi di filtraggio.

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Certo, rispetto agli anni (e ai decenni) passati la situazione è migliorata. Ricordo i tubi di scappamento della mia infanzia, che mi facevano tossire a ripetizione, con mia madre che diceva allarmata “non respirare!” tappandomi naso e bocca.

Non è però il caso di rilassarsi. Miani spiega che l’inquinamento atmosferico non è responsabile solo di problemi legati all’apparato cardiocircolatorio (infarto o ictus nei casi più gravi) o all’apparato respiratorio (fino alla broncopneumopatia cronica ostruttiva o i tumori ai polmoni), ma anche di alcuni disturbi del neurosviluppo.

C'è poi un altro punto: esattamente come in Cina, se fuori l’aria è inquinata, all’interno degli edifici lo è cinque volte di più. E questo perché, all’inquinamento esterno che penetra in case e uffici rimanendo intrappolato, se ne somma altro prodotto negli ambienti domestici, cucinando o utilizzando prodotti per l’igiene e le pulizie.

In attesa di piani politici più decisivi e di mascherine futuristiche attrezzate con sensori che rilevano qualsiasi sostanza pericolosa, cosa possiamo fare noi per difenderci? Il SIMA ha stilato un decalogo con alcuni consigli pratici, che vanno dall’areare spesso i locali, al non uscire nelle ore di maggior traffico e prestare attenzione a quando e dove si fa attività fisica all’aperto. Anche abbassare di qualche grado il riscaldamento degli edifici avrebbe poco effetto, mentre potrebbe aver senso eliminare i riscaldamenti a pellet e legna, in assoluto i più inquinanti.

Dopo una settimana, il filtro interno della mascherina non aveva cambiato colore in modo evidente. D'altronde, sul sito del modello che ho comprato consigliano di cambiarlo "ogni 6-8 settimane. Oppure, in caso di utilizzo intensivo, non appena la maschera comincia ad avere un cattivo odore." L'effetto di social firewall, invece, è stato più che confermato.

Personalmente, non credo di essere ancora pronta a usare la maschera sempre. Per ora mi limiterò a sperare, oltre che in un serio piano per ripulire l’aria, in una festa in stile apocalittico in cui sfoggiarla.