Allegato al testamento di Ölver Huldurr McGrain
Illustrazione di Andrea Cancellieri

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Allegato al testamento di Ölver Huldurr McGrain

"Una premessa di tal guisa è assolutamente obbligatoria al fine di comprendere lo scopo di questo documento che io,Ölver Huldurr McGrain, allego alle mie memorie."

Questo racconto fa parte di Terraform, la nostra rubrica bisettimanale di narrativa sci-fi. Racconti sul futuro dell'uomo, della Terra e dell'universo — tra nuovi approcci alla realtà e evoluzioni distopiche del nostro presente. Ogni giovedì una nuova puntata: se hai un'idea da proporre o un racconto da pubblicare, scrivici a itmotherboard@vice.com.

PRIMA PARTE.

Venni adottato all'età di quattro anni, nel 1927, da una coppia di coniugi scozzesi che si trovavano in viaggio in Islanda per ragioni commerciali. L'orfanotrofio acconsentì alla loro richiesta di adozione e in tal modo giunsi ad Aberdeen ancora prima di aver pronunciato la prima parola. A quel tempo la mia mente era una tabula rasa: dopo quasi un lustro di vita non possedevo alcun ricordo né avevo la benché minima coscienza di me stesso. I McGrain, la famiglia che mi adottò e si occupò della mia istruzione e del mio inserimento nella società piccolo-borghese di Aberdeen, prese a cuore il mio destino come se fossi il loro discendente biologico.

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Poco prima di morire, la mia compianta madre adottiva mi svelò che la mia adozione era stata in qualche modoguidata da una mano invisibile. Sfortuna volle che, a causa di un aborto spontaneo che ebbe in gioventù, ella non potesse procreare la vita dal suo grembo. Nel 1923 accadde qualcosa che non si seppe mai spiegare del tutto, e di cui non fece mai menzione con nessuno in tutta la sua vita, nemmeno con suo marito, che morì pochi anni prima di lei. Mi raccontò di aver avuto un sogno molto vivido, in cui vide un bambino giocare da solo in un immenso prato verde sotto la vetta titanica di un vulcano spento e innevato. Poi, improvvisamente la sua mente cambiò frequenza—come se fosse stata una radio in grado di captare diverse trasmissioni—ed ella sentìall'interno della sua testa una voce proveniente da una dimensione oscura asserire che la progenie era destinata a lei, come dono del suolo dell'Antica Terra.

Mi scuso per la necessità di prodigarmi in simili racconti, apparentemente bizzarri e visionari, ma una premessa di tal guisa è assolutamente obbligatoria al fine di comprendere lo scopo di questo documento che io,Ölver Huldurr McGrain, allego alle mie memorie testamentarie: la disposizione circa il trasporto della mia salma in terra islandese, in seguito al mio decesso, che avverrà a parere del dottor Kilbanne tra non molti giorni.

***

Nella primavera del 1946, circa un anno dopo la cessazioni delle operazioni belliche in territorio nord-europeo, venni inviato in Islanda dal mio padre adottivo insieme a Jack Sheldon, un giovane di un paio d'anni maggiore di me che lavorava alle sue dipendenze e che io stesso conoscevo piuttosto bene. Lo scopo del viaggio era di natura commerciale, vertente in primo luogo sull'ottenimento del titolo di proprietà di un'area terriera nei pressi dell'entroterra islandese, precisamente presso la regione vulcanica del Monte Hekla, ancora oggi attivo. Quello che importava alla società di mio padre, per la quale lavorava Sheldon, erano le ricchezze del sottosuolo che secondo alcuni consulenti avrebbero provocato una svolta decisiva all'interno dell'economiamercantile della modesta Aberdeen. Le possibilità di guadagno erano dunque elevatissime, e Sheldon non si scompose minimamente quando alcuni pescatori autoctoni, nei pressi di Vik, ci consigliarono con dei mormorii poco chiari di lasciar perdere la questione e a ritornare sulle rive di Albione.

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Come ho accennato in precedenza, non imparai mai la lingua islandese: mia madre morì quando io avevo soloventitré mesi di vita e il mio padre biologico a quanto pare non era mai stato individuato, o comunque era fuggito di gran lena non appena avesse avuto notizia della gravidanza di mia madre. Ad ogni modo, secondo iracconti della mia compianta madre adottiva, le anziane inservienti dell'orfanotrofio non erano in possesso dinotizie in nessun modo certe, ma sole di dicerie di paese, talvolta anche estremamente bizzarre, ad ogni modo mai supportate da alcuna documentazione.Tuttavia, pur non avendo alcun fondamento di lingua islandese, a differenza di Sheldon riuscì a intendere in qualche modo quello che quei pescatori volevano dirci.

Sarà stato il loro modo di gesticolare, austero ma esplificativo anche per degli stranieri, e il loro tono freddo e sommesso eppure così sinistro, accompagnato dall'indicazione del settentrione, dove si trovava in linead'aria l'imponente vulcano Hekla. Poi, all'improvviso, dalla bocca di uno dei pescatori proruppe come un'eruzione la parola «Hel» e fu allora che tutto il mio corpo venne istantaneamente avvolto da un fascio violento di brividi freddi, come se una fredda fiamma stesse generando scosse telluriche in tutte le mie membra. Sheldon, da parte sua, non intese—o fece finta di non intendere— e non si scompose nemmeno quando quella sera, alla taverna dei Verdi Antenati, un dotto turista inglese, studioso di archeologia e di antropologia, ci sconsigliò di avventurarci in quel territorio, dal momento che, secondo le antiche credenze folkloriche medievali del luogo, era creduto essere dagli autoctoni la dimora del Mondo Infero.

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L'oste, che comprese l'argomento della nostra discussione, si intromise senza alcun invito per asserire che tale diceria era radicata nella mitologia islandese da molto più che qualche secolo. A suo parere, tale credenza trovava la sua fonte nell'abisso delle ere, come se fosse esistita dall'alba dei tempi nella coscienza collettiva e nel sangue del popolo islandese—ragion per cui per chissà quanti millenni nessuno sentì il bisogno di metterla per iscritto o di tramandarla ai posteri. Ognuno, nei recessi del proprio codice genetico, avvertiva indelebilmente la terribile rivelazione e si limitava a convivere con essa, nella misura in cui ciò potesse essere possibile.

Solo con la cristianizzazione dell'isola, continuò il nostro interlocutore, la leggenda venne captata dai monaci colonizzatori che la codificarono nel quadro della loro teologia, facendo dell'Hekla la sede dell'Inferno cristiano e bandendo ogni tipo di cerimonia pagana nelle sue vicinanze. Alcune frange della popolazione autoctona, che era insediata sulle sponde del vulcano da tempi immemori, vennero accusate di eresia e stregoneria e i gli sventurati vennero arsi sui roghi. I villici che sostenevano l'esistenza e la bontà degli «antichi dèi del monte» vennero scorticati vivi.

Come se tutta questa follia non fosse abbastanza, nel bel mezzo della psicosi collettiva alimentata dalla campagna inquisitoria e dagli eccidi, alcuni autoctoni vennero accusati dai monaci cristiani di essere niente meno che la progenie stessa dei demoni che adoravano—ragion per cui gli imputati di questa folle accusa vennero immolati con pene indicibili. La parte restante della popolazione, ormai del tutto atterrita, terrorizzata oltre ogni dire e sempre più propensa ad adottare la fede cristiana e a ripudiare gli antichi costumi—se non altro per avere salva la vita —venne gradualmente spostata, generazione dopo generazione, nelle valli a meridione dell'altipiano vulcanico, caratterizzate da un clima più mitigato, che vanno da Stokkseyri a Vik. Fu così che, nel giro di poche generazioni, gli antichi abitanti delle pendici dell'Helka dimenticarono le antiche credenze e gli eccidi nel nome dell'«Unico Dio» e si trasformarono in una società fondata sulla pesca e sul commercio.

CONTINUA…

Illustrazione di Andrea Cancellieri