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Tecnologia

Perché la neuroscienza cerca di recuperare i ricordi dell'infanzia

La neuroscienza sta compiendo passi avanti verso una scoperta che ci permetterebbe di recuperare memorie che credevamo perdute.
Immagine via Flickr/Manu Rocket

Era il 1944 quando fu pubblicato Finzioni, una raccolta di racconti scritti da Borges, al cui interno ritroviamo la storia di Ireneo Funes, celebre per alcune stranezze. La sua stranezza sorgeva da una capacità singolare, sorta in seguito a un infortunio che lo aveva reso invalido: Funes poteva ricordare tutto, dai dettagli più insignificanti di una giornata fino alle memorie più remote dell'infanzia.

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Il tema è stato affrontato anche nella puntata 1x03 (The entire history of you) di Black Mirror, in cui i personaggi, attraverso un grain impiantato dietro l'orecchio (a quanto pare, fin dalla nascita), riescono a recuperare ogni momento della loro vita passata, riproducendolo sotto forma di video.

Recenti studi condotti al Center for Neural Science della New York University, sembrano condurci al quesito che attraversa sia il racconto di Borges sia la puntata di Black Mirror: il problema della riattivazione dei ricordi. Ora, la neuroscienza sta compiendo passi importanti verso una scoperta che potrebbe rendere possibile il recupero di memorie che credevamo perdute, riguardanti la prima infanzia. Per capire come si sta declinando la ricerca, ripercorriamo le tappe degli esperimenti che porterebbero all'esplorazione di nuovi campi della memoria individuale.

Sarebbe la prova che i ricordi dell'infanzia non sono persi nell'oblio ma rimangono sottoforma di traccia mnemonica latente.

Molti di noi non sono in grado di ricordare niente di ciò che hanno vissuto dai 2 ai 4 anni. In questa fascia di età, le memorie episodiche, cioè i ricordi che riguardano cosa abbiamo fatto, il tempo e il luogo in cui si è verificato un avvenimento, sembrano impossibili da recuperare. Si tratta del fenomeno conosciuto come amnesia infantile.

I ricercatori intendono affrontare la sfida che sorge dalla domanda: e se le memorie episodiche dell'infanzia non fossero scomparse ma in attesa di essere risvegliate qualora sottoposte agli stimoli giusti? Per rispondere a questo quesito, il team guidato da Cristina Alberini, ha condotto una serie di esperimenti su topi di 17 giorni, età che negli esseri umani corrisponde a 2-3 anni circa. Lo studio, apparso sulla rivista Natural Neuroscience, ha usato un metodo di comparazione: la capacità di trattenere le memorie episodiche da parte dei giovanissimi roditori è stata paragonata a quella di topi di 24 giorni, fase in cui emerge la capacità di trattenere i ricordi (in termini di età degli esseri umani equivale a 6-9 anni).

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Per raggiungere l'obiettivo di verificare la capacità mnemonica dei topi di 17 giorni, il test si è focalizzato sul ricordo di un'esperienza negativa, che prevedeva una piccola scossa elettrica alle zampette (il metodo utilizzato può turbare parecchio) se si fossero recati in un determinato posto. I piccoli roditori erano stati disposti in una scatola suddivisa in due scompartimenti: in uno erano al sicuro e nell'altro avrebbero ricevuto la piccola scossa. I topi erano rivolti nella direzione della porta che separava le due sezioni, di fronte a un passaggio di comunicazione che si apriva dopo 10 secondi. Nel caso in cui i roditori avessero superato la linea rossa, avrebbero ricevuto la scossa.

I primi risultati non sono stati fonte di particolare stupore: solo i topi di 24 giorni erano in grado di ricordare l'esperienza dolorosa, evitando di oltrepassare la porta, al contrario dei giovani roditori che erano in grado di evitare il lato pericoloso solo nell'immediato presente, mentre il giorno dopo non conservavano nessuna traccia del ricordo negativo. Tuttavia, in seguito, collocando i topi che avevano 17 giorni in un contesto simile (un'altra sezione della scatola) a quello dell'avvenimento spiacevole, si verificò che evitavano di recarsi nel posto che gli aveva causato, in origine, dolore.

L'esito dell'esperimento è d'importanza cruciale sia per il campo dello sviluppo individuale sia per il campo della neuroscienza. Sarebbe la prova che i ricordi dell'infanzia non sono persi nell'oblio ma rimangono sottoforma di traccia mnemonica latente, influenzando il comportamento dell'individuo adulto. I ricercatori, per spiegare questo risultato con gli strumenti della neuroscienza, si sono focalizzati sull'ippocampo, una zona del cervello che codifica le memorie episodiche.

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Attraverso un'altra serie di esperimenti con i piccoli roditori hanno tratto la seguente conclusione: se l'ippocampo era inattivo, la capacità di formare ricordi e di richiamarli alla memoria per affrontare un'esperienza nel presente era debole. Come si innesterebbe, dunque, l'azione dell'ippocampo? Secondo Cristina Alberini, il cervello necessita di stimolazioni continue, soprattutto nel periodo dell'infanzia. Senza i giusti condizionamenti, si rischia di compromettere la facoltà mnemonica, che influenza lo sviluppo linguistico, percettivo e motorio.

La domanda è: siamo così sicuri di voler raggiungere questo traguardo?

A differenza del racconto di Borges e della puntata di Black Mirror, l'esperimento dimostra che per conservare le tracce di ricordi del passato la memoria ha bisogno di essere solleticata, in modo incessante. Sia Funes sia i personaggi della serie, non hanno una capacità attiva di conservazione dei ricordi: il dono o il grain gli permette di rinvenire le memorie del passato ma senza nessuno stimolo esterno. Sono invasi dai ricordi, come nel caso di Funes o decidono cosa ricordare, come in Black Mirror, ma il recupero delle memorie non influenza in alcun modo la loro crescita personale o aumenta la loro capacità di agire nel presente.

Tuttavia, i pericoli di un uso eccessivo della memoria rimangono. Se i ricercatori riuscissero a replicare l'esperimento anche sugli esseri umani, attraverso determinati stimoli (speriamo che mettano da parte le scariche elettriche sia per gli umani sia per i roditori), si potrebbero recuperare memorie episodiche dell'infanzia di cui non si ha consapevolezza ma che hanno un peso rilevante nel presente. La domanda è: siamo così sicuri di voler raggiungere questo traguardo? Nel campo dello sviluppo individuale, il troppo ricordare non è di alcun aiuto per il presente, soffoca la vita com'è illustrato nel racconto di Borges o ci fa richiamare il ricordo di un'esperienza negativa passata per controllare il presente in modo ossessivo e distruttivo, com'è rappresentato in Black Mirror.

Invece, nel campo scientifico, in che modo potrebbe essere usato il recupero di un trauma subito nell'infanzia che avrebbe segnato la nostra condotta futura? Nel testo Rewriting the soul, Ian Hacking evidenzia come la parola "trauma", fino alla seconda metà del 1800, era usata con un'accezione che rimandava a una lesione fisica, non aveva alcun collegamento con l'interiorità. Com'è avvenuto questo cambiamento? Secondo Hacking, le scienze della memoria (sorte nel 1800), come gli studi neurologici sulla collocazione dei tipi di memoria, hanno conferito al concetto di trauma un nuovo significato. La riscoperta del passato, dell'evento traumatico infantile che avrebbe determinato il comportamento dell'individuo adulto, è lo strumento attraverso cui le scienze della memoria costruiscono le persone (making up people) in termini di soggetto patologico o sano.

Se diamo un'occhiata al Diagnostic and statistical manual of mental disorder (DSM), il trauma è uno dei fattori principali di molti disordini mentali: lo ritroviamo nel disturbo post-traumatico da stress, disturbo d'ansia, gli attacchi di panico, il disturbo ossessivo-compulsivo, solo per citarne alcuni. Portare alla luce ricordi dimenticati, che influenzano il comportamento dell'individuo adulto, è uno dei grandi obiettivi della neuroscienza, della psichiatria e della psicologia. Per classificare le persone ci si rivolge alla loro infanzia, alla ricerca dell'origine di un comportamento deviante che ha impedito la formazione di un individuo "normale".