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Sport

"Piangi un sacco" - Com'è fare la ginnasta nella nazionale quando hai 14 anni

Dopo aver passato infanzia e adolescenza in palestra, per Giulia non è stato facile cambiare vita.
Giulia con il suo allenatore Enrico Casella. Tutte le foto per gentile concessione dell'autrice.

Come raccontato a Elena Viale.

Qualche tempo fa ha cominciato ad andare in onda la versione di Repubblica.it dello storico Ginnaste - Vite parallele , in cui un gruppo di pre- e adolescenti si prepara alle Olimpiadi. Proprio come ai tempi in cui seguivo il programma di MTV, e nuovamente quest'estate quando Simone Biles ha monopolizzato l'attenzione dei media, ho cominciato a interrogarmi su cosa significhi passare l'infanzia e l'adolescenza a dare tutto a uno sport che poi magari ti prenderà a calci nel sedere, perché basta un infortunio e sei fuori, e intanto gli anni passano e nella vita hai fatto solo quello. Ho deciso di contattare Giulia Leni, ex parallelista della nazionale italiana, ex star di Ginnaste, e autrice di un libro, per chiederle della sua esperienza nel mondo dell'agonismo e se tutte quelle lacrime che ho visto alla TV sono vere.

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Tutte le lacrime sono vere. Anzi, per me è addirittura cominciata con le lacrime, perché a sette anni la palestra non mi piaceva per niente e staccarmi da mia madre era una tragedia. Ma ero la prima di tre gemelle, e bisognava trovare un modo per farci stufare di correre in giro. È stato solo quando mia sorella Alice e io siamo state spostate in un corso agonistico che ho smesso di nascondermi fuori e ho cominciato a provarci gusto: mi piaceva stare con mia sorella, mi piacevano le garette per il semplice fatto che le vincevo.

Nonostante fossi già grande, perché avevo sette anni contro i due-tre di molte bambine che ho allenato l'anno scorso, l'istruttrice della mia palestra vide in me del potenziale e cominciò a farmi allenare più spesso: dalle due volte a settimana di chi lo fa come hobby, alle tre-quattro di chi si mette alla prova, a tutti i giorni, dalle 17.30 alle 20.30. Nel 2006, a 11 anni, cominciai un programma di doppio allenamento con altre due bambine: 8.30 - 13.00 e poi 14.00 - 16.30. D'estate c'erano i collegiali; tre giorni al mese li passavamo a Brescia ad allenarci con Enrico [Casella, attuale direttore tecnico della Nazionale di ginnastica femminile]. E poi c'erano le gare a cui erano in varie vesti sempre presenti gli osservatori della nazionale. Nel giro di poco le altre due bambine lasciarono, e io rimasi da sola.

Quando sei così piccola, e sei abituata a vincere, non ti pesa così tanto. Per gli adulti che sono intorno a te può essere più difficile: la mia prima allenatrice, Beatrice, ha sacrificato lavoro e famiglia per stare dietro alla mia crescita—nella ginnastica l'impronta e il metodo di chi ti cresce sono fondamentali, e io devo molto a lei anche se all'inizio mi terrorizzava. A volte, però, un maestro prende atto che le sue competenze tecniche non bastano più all'allievo, e così quando nel 2009 Enrico, che dopo essere stato direttore tecnico alle olimpiadi di Pechino allenava la Brixia di Brescia, chiese di potermi allenare tutto l'anno, ero felicissima. Quell'anno avevo anche fatto la mia prima gara con la Nazionale.

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Ma a Brescia trovai una situazione complessa per una ragazzina di 14 anni che, per quanto abituata a passare le estati lontana da casa, all'improvviso si trovava a vivere in una foresteria all'interno di un complesso sportivo con la sola compagnia di un vice-allenatore, Marco. Ci provai, ma nel giro di due settimane decisi di tornare a casa. Fu allora che per la prima volta pensai di smettere: ero delusa dal fatto di non essere stata capace di resistere a Brescia. Ma Beatrice mi menzionò il centro tecnico di Milano, che all'epoca aveva appena aperto e veicolava un metodo di allenamento molto meno "severo" di altri.

E in effetti era tutta un'altra cosa. Il centro tecnico di Milano è quello che avete visto in Ginnaste: una palestra gestita dalla Federazione Ginnastica d'Italia dove potevano allenarsi ginnasti e ginnaste di interesse nazionale che non trovavano nella propria zona strutture idonee. E infatti c'eravamo Carlotta [Ferlito] dalla Sicilia; Betta [Elisabetta Preziosa] dall'hinterland; Alessia [Scantamburlo] da Padova; io da Siena. Ci pagavano tutto, vivevamo in albergo, seguivamo lezioni private, ci allenavamo.

Rimasi dal 2009 a maggio 2011: il primo anno vissi di rendita, ma l'anno successivo fu pessimo, e si concluse con la ciliegina di un infortunio a una settimana dagli esami scolastici da privatista. Era l'ultimo attrezzo del sabato, feci un salto avanti carpiato spingendo troppo, non riuscii a controllare il giro e mi si lussò un gomito quando arrivai sul trampolino con le mani tese in avanti. E nonostante l'allenatore me l'avesse rimesso a posto e mi avessero operato quel giorno stesso, ero disperata perché temevo che l'infortunio mi avrebbe impedito, a ottobre, di partecipare ai Mondiali qualificanti a Tokyo. In ogni caso, il lunedì ero di nuovo in palestra a fare potenziamento.

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Me ne andai poche settimane dopo dal centro di Milano perché avevo capito che per me quel metodo di lavoro non funzionava: non mi servivano allenatori pronti a capirmi, mi servivano metodo, disciplina, mi serviva essere mandata a salire la fune quando non ascoltavo o non mettevo in atto le correzioni. A Milano si piangeva più che nelle altre palestre che ho frequentato. L'avrete visto in Ginnaste, la cui prima stagione è stata girata durante il mio secondo anno lì, e che devo ammettere essere piuttosto—piuttosto—realistico.

È vero anche che nella ginnastica, e penso nello sport a livello agonistico in generale, si piange un sacco. Piangi perché non ti viene una cosa, e l'allenatore ha insistito sulle sue correzioni, ma comunque non ti viene, ed è frustrante. Piangi perché hai 15, 16 anni, e stai rinunciando a molto, e a giorni alterni non sei nemmeno sicuro del motivo per cui lo stai facendo. Molti sabati mattina mi ritrovavo in palestra alle otto e mezza a pensare ma io cosa ci faccio qui. Piangi perché non puoi fare altro che quello che ti viene detto. Ti manca casa anche se vuoi fare l'adulto. Perché magari—non nel mio caso, ma ne ho conosciute tante, la spinta iniziale non è tua ma dei genitori.

Io ho pianto tanto anche per la frustrazione degli infortuni, quelli che alla fine hanno segnato la mia carriera. Ogni giorno con una certa preoccupazione mi svegliavo presto e facevo il check completo del mio corpo: come sta questa caviglia, e poi toccavo l'altra, e poi la schiena, e ogni dolore mi suonava come un campanello di allarme.

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Comunque, nel 2011 ero nella rosa della nazionale da due anni. Avevo un braccio che non si sarebbe mai più disteso né flesso come prima, e sapevo che se avevo una piccola possibilità di andare alle Olimpiadi—passando per i Mondiali qualificanti di Tokyo—avrei potuto giocarmela solo tornando a Brescia, da Enrico, ad allenarmi insieme a Vanessa [Ferrari]. Sarei rimasta a casa di Folco, presidente della Brixia, e Grazia Donati, che mi adottarono come un'altra figlia. Quelli della troupe di Ginnaste filmarono la mia compagna di stanza a Milano disperata nel non trovare più le mie cose nell'armadio dopo una partenza affrettata e segreta una domenica—partenza di cui tutti erano invece a conoscenza—e fui libera di tornare a Brescia.

A Brescia mi allenai come una pazza, ma non bastò al panel di medici che mi analizzò per le visite medico-sportive, e mi negò l'idoneità per anche solo provare a partire per Tokyo con la nazionale. Rimasi ad allenarmi, ma forse avevo la testa all'occasione mancata, e in due giorni mi ruppi la testa del perone. Lì per lì non sembrava niente di che, solo un brutto atterraggio da un avvitamento, e continuai ad allenarmi. Fu solo quando Enrico tornò dai Mondiali—dove l'Italia era arrivata nona, e avrebbe dunque dovuto affrontare altri step per qualificarsi alle Olimpiadi—che vedendomi una mattina mentre mi portava a scuola con suo figlio decise di spedirmi in ospedale per una lastra. A quel punto però erano passate due settimane e mezzo e l'osso si stava ricalcificando. Perciò, il lato positivo era che non avevo più bisogno di stare ferma e potevo continuare ad allenarmi; presi antidolorifici ancora nuovi.

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Cominciò allora un periodo positivo: la nazionale si qualificò per le Olimpiadi, in serie A Vanessa, Erika [Fasana] e io, che gareggiavamo insieme, arrivammo seconde per un soffio, a Jesolo sfiorammo il gradino più alto del podio, e continuò così. Fu anche per questo che, nonostante un infortunio capitato poco prima mi desse qualche sensazione negativa, rimasi male quando, a pranzo prima dell'inizio dei collegiali che avrebbero deciso chi sarebbe andata alle Olimpiadi, Enrico mi disse, "Dalle otto che dovevate essere convocate all'ultimo collegiale siete state convocate in sette. Secondo te quali sono queste sette ginnaste?" Cominciai a dire i nomi delle compagne che reputavo più papabili, sperando che mi avrebbe contraddetto, No, lei non c'è, ci sei tu. Non successe.

Non voglio dire che ci fossero ragazze che se lo meritavano meno di me, anzi, per quanto la ginnastica sia un palcoscenico di rivalità, di simpatie e di antipatie, e anche di dinamiche che trascendono le atlete. L'unica cosa che posso dire è che sperai fino alla fine di partire per le Olimpiadi, nonostante tutto.

In ogni caso, seppure fossi disperata per essere stata lasciata fuori dalle Olimpiadi, a ripensarci sono sicura che lì per lì non realizzai del tutto: avevo 17 anni da poco compiuti, avevo fatto quello per tutta la vita, ero abituata alle vittorie e alle sconfitte. È oggi che mi rendo conto dell'amarezza che provo.

Quell'estate, mentre a Londra si tenevano le Olimpiadi, feci la mia prima vacanza lunga dopo tanti anni. Mi concedetti l'ultima stagione, nel 2013, per togliermi qualche sassolino dalla scarpa, fu un anno estremamente positivo, portai tre attrezzi in molte competizioni importanti, tra cui Jesolo e gli Assoluti, e l'Italia sbancò ai Giochi del Mediterraneo. Ma poi di nuovo un'inversione di rotta, sul finire di quel periodo sbagliavo molto, piangevo sempre. Piangevo di nuovo all'idea di andare in palestra, come quando avevo sette anni. Decisi di lasciare, anche perché l'altra mia certezza era che nella vita, Olimpiadi o no, c'erano altre cose che volevo fare.

Tornai a casa, e mi dedicai all'altro mio storico obiettivo: fare medicina. Ovviamente, per farlo dovevo uscire bene dal liceo; ma dopo tanti anni di scuole private, in matematica ero una pippa. Il primo compito presi sei meno meno, poi calai al due. Immagino di dover ringraziare il metodo, la costanza e l'organizzazione del tempo che avevo imparato con la ginnastica se poi riuscii a uscire con 82 alla maturità, e a passare il test di medicina quell'estate.

Oggi penso che la mia scelta di abbandonare sia dovuta al fatto che sentivo che non avevo più niente da dare alla ginnastica. Certo, la palestra mi manca e mi rimane questo groppo in gola—penso sia normale, sono le Olimpiadi—ma a quel punto per continuare avrei dovuto sacrificare troppo, ben più della vita sociale durante l'adolescenza: avrei dovuto sacrificare un altro pezzetto del futuro che volevo avere. E poi quando guardo su Instagram le ginnaste di oggi che postano foto degli allenamenti delle 8.30 del mattino di sabato… ecco, quello non mi manca. Ma tutto il resto forse sì.

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