Tokenismo e diversità: quanto sono inclusive le serie tv in Italia e all’estero?

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Questo è un approfondimento dell’ottava puntata del podcast “Sulla Razza” dedicata al tokenismo e alla rappresentazione delle minoranze etniche nel mondo televisivo. “Sulla Razza”, di Nadeesha Uyangoda, Nathasha Fernando e Maria Mancuso, vuole intavolare una conversazione sulla questione razziale in Italia, e vuole farlo utilizzando un linguaggio aggiornato. Esce a venerdì alterni, e puoi ascoltarlo su Spotify, Apple e Google Podcast. Intanto, segui “Sulla Razza” su Instagram, o vai in fondo all’articolo per avere più informazioni sulla nostra collaborazione col podcast.

È passato un anno dalla morte di George Floyd e dalle centinaia di proteste globali #BlackLivesMatter contro la violenza e il razzismo sistemico [il prossimo 2 giugno ce ne saranno di nuove anche in Italia, Milano inclusa]. Che sia semplice woke-washing o impegno genuino contro le discriminazioni, varie organizzazioni e aziende hanno aderito alla causa anche a livello di rappresentazione, offrendo maggiore visibilità a persone di minoranza.

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In questo modo si è accelerato un cambiamento di narrazione mediatica, che da singola sta ora rispecchiando la diversità di voci anche in Italia. Certo, la strada è ancora lunga e lo sforzo per allontanarsi da un unico tipo di narrazione deve essere continuo, ma serie tv come Zero su Netflix offrono un barlume di speranza.

L’ottava puntata di Sulla Razza tratta di tokenismo, diversità e inclusione sui set in Italia e all’estero. Qui ne abbiamo parlato con Daphne Di Cinto, regista e attrice afroitaliana, nonché madre del famoso Duca di Hastings nella serie Bridgerton. Come Zero, anche il suo nuovo cortometraggio—Il Moro con Alberto Malanchino—cercherà di smuovere la rappresentazione in Italia.

VICE: Da regista/attrice che ha lavorato sia in Italia sia all’estero, trovi che ci siano delle differenze sostanziali in ambito cinematografico e seriale?
Daphne Di Cinto:
Mi sono trasferita a Roma a studiare recitazione e mi sono resa conto che non avrei mai potuto costruire una carriera da attrice in Italia. Ho iniziato a volermene andare proprio perché i soli ruoli che mi venivano affidati erano lo stereotipo del background della persona nera, quello della prostituta e dell’immigrata. 

Non c’erano ruoli in cui effettivamente mi potessi rispecchiare: non veniva riconosciuto il fatto che ci fossero persone non bianche oltre i soliti stereotipi. Non c’era mai il ruolo della ragazza della porta accanto, non c’era mai fondamentalmente neanche il ruolo dell’amica della protagonista, perché, mentre magari in America è nera, l’amica della protagonista in Italia è comunque bianca.

Poi sono finita a New York e mi sono trovata in un mercato completamente diverso, ma anche lì ero questa ragazza un po’ nel mezzo, nel senso che sarei potuta essere tutti ma non ero nessuno: sarei potuta essere afroamericana, latinoamericana e sarei potuta essere europea, ma non facevo parte di nessun gruppo al 100 percento.

La rappresentazione in America non è scevra da problemi, ma è effettivamente un passo avanti rispetto a tutto ciò che è inclusività. Al momento dall’America stiamo vedendo prodotti incentrati soprattutto sul cambiamento della narrazione.

Che effetto ha avuto Zero in Italia secondo te?
Penso sia stato uno step importantissimo, perché per la prima volta vediamo un cast per la maggioranza black. Mi ha fatto pensare a come sarebbe stato per me se fossi stata adolescente in questo periodo, perché io non ho avuto persone che somigliavano a me come in riferimento in tv.

Spero che una serie come Zero, sia per chi viene colpito direttamente e chi lo vede solamente di riflesso non avendo un background migratorio, diventi una spinta in più per apprendere e vedere una realtà che alcune persone tendono a tener lontana da sé.

Tu stai lavorando a un progetto che ti vede regista, Il Moro: un’opera che tratta della figura di Alessandro de Medici, primo duca di Firenze, interpretato da Alberto Malanchino. Molti indizi, soprattutto pittorici, indicano che potrebbe trattarsi anche della prima figura politica afrodiscendente nella storia dell’Europa moderna. Solo che questo aspetto non è mai stato sottolineato davvero.
Chiaramente torniamo alla questione del cambiamento della narrazione. Alessandro De Medici è il primo Duca di Firenze, fa parte del Rinascimento, del cuore dell’Italia. E il primo duca di Firenze assomigliava a noi.

Se nel 1500 era così, perché stiamo ancora dibattendo se persone che assomigliano a noi abbiamo diritto a essere cittadini di questo paese quando già lo sono?

Per approfondire il tema: Alessandro De Medici ha avuto una vita breve ma intensissima e tuttora si dibatte se davvero la madre fosse afrodiscendente. Ma le testimonianze di storici dell’epoca che lo descrivono sono inequivocabili: lo descrivono dalla pelle scura, con il naso grosso, i capelli riccioluti e le labbra carnose.

Eppure anche nei dipinti, sia quelli realizzati quando era in vita che quelli postumi, è stato sottoposto al white-washing. A qualcuno la sua carnagione faceva scomodo, quindi nei dipinti più istituzionali viene raffigurato come bianco—mentre nei dipinti più personali si vede che è un ragazzo misto.

Da attrice che ha partecipato a Bridgerton. Il color-blind casting può funzionare con storie/narrazioni italiane?
Io più che color-blind casting preferisco chiamarlo color-aware casting—perché non penso che ci sia necessità di non vedere il colore, anzi. Bisogna imparare a vederlo e ad apprezzarlo, quindi mettere attori di più etnie all’interno di una storia. Penso che sia ancora una volta un valore aggiunto.

Non mi spiego il dibattito assurdo attorno a Bridgerton, che oltretutto si fonda sulla figura centrale della regina Charlotte, che era effettivamente mista nella realtà e afrodiscendente. Poi chiaramente stiamo parlando di un mondo fantastico.

Penso che le polemiche siano nate da persone per cui è un problema vedere persone diverse da loro in ruoli di rilievo per il timore di trovarsi in un mondo cambiato. Ma non c’è bisogno di avere paura, perché il mondo cambia costantemente.

La questione [in Italia] è: vogliamo farlo o no? Chiaramente certe decisioni vengono prese dall’alto, dove c’è la tendenza a mantenere lo status quo. Eppure vedo un futuro in cui persone di più etnie, di più background avranno vari ruoli lavorativi, e questo farà sì che le decisioni vengano prese in maniera più appropriata e che riflettano la realtà per quella che è.

Per 30 minuti, due volte al mese, Sulla Razza tradurrà concetti e parole provenienti dalla cultura angloamericana, ma che ci si ostina ad applicare, così come sono, alla realtà italiana—BAME, colourism, fair skin privilege. In ogni episodio si cercherà di capire come questi concetti vivono, circolano e si fanno spazio nella nella nostra società. Sulla Razza sarà anche una newsletter, e qui su VICE pubblicheremo periodicamente contenuti di approfondimento sulle singole puntate.

Nadeesha Uyangoda, Nathasha Fernando e Maria Mancuso, grazie anche alle voci e ai punti di vista degli italiani non bianchi, parleranno di come queste parole impattano le vite di chi è marginalizzato e sottorappresentato da molto tempo.

Sulla Razza è un podcast prodotto da Undermedia grazie al supporto di Juventus.