“I use music as a language or medium that has a history and context. [I use it as] a way of communicating ideas that are specific, rather than treating music like vague poetry.” Terre Thaemlitz
Ci vorrebbe un libro, un’enciclopedia probabilmente, per parlare in maniera degna del rapporto tra musica e comunità GLBTQ. Il primo passo è rendersi conto, ma di questo hanno già scritto a fondo, anche su queste pagine, che ogni volta che mettiamo piede su un dancefloor dovremmo rendere grazie a qualche splendido unicorno gay che, dai loft di New York, dalle cantine di Chicago, ha fatto sì che nascessero e si diffondessero la disco music, l’house, la techno e tutto quello che ora sta muovendo una massiccia industria dell’intrattenimento musicale. Come racconta Loren Granic nel bellissimo editoriale di Resident Advisor “Viviamo un momento in cui la dance music è totalmente mainstream, […] Molti di quelli che stanno in voga oggi sono ragazzini bianchi eterosessuali assai lontani dalla comunità LGBT, nonostante i loro pugni alzati al cielo vadano a tempo con una musica nata da gente gay di colore che si faceva sudare il culo fino alle cinque del mattino nelle fabbriche di Chicago.”
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Nella sua lecture del 2010 alla Red Bull Music Academy, Terre Thaemlitz, musicista, DJ, attivista, ex drag-queen e pandrogino (ved. Genesis P-Orridge) conosciuto anche come DJ Sprinkles, racconta di come temi riguardanti la sessualità e le categorie sociali marginali hanno permesso ad alcuni musicisti di intendere il proprio lavoro come una reazione a un sistema che tendeva a schiacciare le differenze. In un’altra intervista Terre parla di come uno degli intenti da cui sono nati i suoi ultimi album sia stato sottolineare il potenziale di rottura della sua musica rispetto a questi schemi:
“All’interno del contesto nel quale questa musica è prodotta e suonata, c’è stata una de-sessualizzazione e ri-territorializzazione delle origini di quel tipo di musica e di come funzionava. Quindi volevo fare un album che non solo guardasse in modo critico a come le attuali strategie di marketing della scena house si basino su una rimozione fittizia del passato dell’house music, ma fosse anche un atto di resistenza agli schemi e ai processi culturali dominanti.”
Nella parte finale della lecture, Terre fa riferimento a movimenti artistici che si sono imposti, nell’ambito dell’arte visiva, di decostruire completamente le strutture portanti dell’arte mainstream, e di come il più delle volte queste spinte al capovolgimento siano state dimenticate o siano finite nel nulla. Ma con la musica, dice, è diverso, perché la musica ha un pubblico più ampio. In musica, ultimamente, si è parlato di accelerazionismo, termine che il critico Adam Harper, e Valerio Mattioli poi (con un articolo che è finito per condizionare il manifesto di un festival italiano) utilizzano per parlare di una tendenza hi-tech della musica che va nella direzione opposta della retromania, e ci va con una certa velocità.
Dando un’occhiata agli artisti “accelerazionisti”, quelli cioè la cui estetica taglia netto con una tradizione musicale e di costume legata ancora agli standard socioculturali che Thaemlitz indicava come ciechi nei confronti delle origini della club culture, è presto chiaro che abbiamo di fronte un esercito di musicisti queer il cui manifesto musicale, più o meno estrinseco, è un ritorno alla liberazione completa dagli standard ormai stantii della musica elettronica, la stessa elettronica “machista” per cui i DJ dovevano scegliersi nomi da supermuscolo che ha convinto Terre Thaemlitz a scegliersi un nome appositamente gaio.
Indipendentemente dal contenuto del manifesto originale o dalle derive “di destra” o “di sinistra” di quella “eresia” per cui il sistema capitalistico dovrebbe essere smantellato esasperando le sue stesse armi, le ragioni per cui l’estetica accelerazionista è caduta bene quando è caduta nelle mani di musicisti queer è che, fondamentalmente, è sempre stata in mano a loro. “Accelerare”, inteso nel senso di esasperare un lato critico delle sovrastrutture, è un atto che musicisti appartenenti a minoranze hanno sempre dovuto fare, per una sorta di legge fisica per cui, quando si fa una grossa pressione al centro, dai lati escono schegge impazzite.
Mattioli, nel suo articolo, riporta la definizione di Harper: accelerazionismo è “il mondo digitale che ascolta se stesso, Internet che si guarda allo specchio.” E, dato che Thaemlitz parlava della tendenza mainstream a ri-territorializzare la musica da dancefloor, probabilmente il movimento musicale hi-tech, che si rispecchia nel flusso continuo di dati da social, è un’ottima base per ricominciare a deterritorializzare le produzioni culturali. E se pensiamo a quei corpi senza organi, corpi alieni, mostruosi, umani e non-umani, privi di qualsiasi caratteristica di genere e razza, che popolano l’estetica di Jesse Kanda, e di conseguenza quella di Arca, possiamo già intravedere come i nuovi anti-canoni accelerazionisti sposino la spinta queer a superare, a partire dalla musica, le definizioni corporee che solitamente comportano suddivisioni e discriminazioni.
Si ipotizza infatti che ci sia un ponte tra Xen, il debut di Arca, e la corrente denominata Xenofemminismo, che si propone di “affrontare le politiche di genere del ventunesimo secolo da una prospettiva transfemminista, concentrandosi sul potenziale emancipatorio della tecnologia”. Chiaramente il termine “femminismo” qui non è da intendere da suffragette, né come esercizio del “girl power” o qualsiasi altra sfumatura con cui ultimamente viene propagato il concetto. Femminismo è la base per la decostruzione di un sistema patriarcale, innanzitutto, ossia di quel sistema per cui esistono definizioni nette: da un lato il maschile, dall’altro il femminile. Da un lato l’eterosessuale dall’altro l’omosessuale, un sistema di distinzioni discriminatorie. Lo xenofemminismo usa, invece, non a caso, il prefisso trans, lo stesso del transumanesimo, che è un po’ la versione Huxleyana dell’übermensch niciano in cui, anziché avere qualità umane accentuate, l’uomo ha l’unica qualità di trascendere se stesso, i limiti stessi della condizione umana, includendo e utilizzando elementi tecnologici a supporto di questa transizione.
“Leaving aside the traumatic, self-proclaimed POST of their alumni, what Deleuze and Foucault teach us is how to transit, how to enter and exit modernity in many ways and from many perspectives. What was awoken by the second half of the twentieth century – an age of the TRANS, if ever there was one – is better called transmodernity […] the prefix TRANS seems, therefore, far more indicative of our condition (and the mathematical condition) than a premature POST.” – Fernando Zalamea
La chiave, come sottolinea la citazione utilizzata dalle Xenofemministe, sta nel processo stesso di transizione: nella mutazione continua, nel passaggio, nell’esposizione all’altro. “Our future requires depetrification,” prosegue il manifesto, e questa depetrificazione può avvenire solamente passando per i margini, per ciò che è sempre stato visto come alieno, tanto che “XF seizes alienation as an impetus to generate new worlds”. E così sono le forme inspiegabilmente liquide, umane e disumane che Jesse Kanda costruisce attorno ai suoni alienanti, astratti e allo stesso tempo familiari e concreti, con cui Arca edifica il suo mondo alieno. D’altronde, come dice Genesis P-Orridge, “The body can be used as a liberation”.
Parlando del fronte di liberazione queer non possiamo non passare per i Knife, che agiscono per una trascendenza dall’immagine identitaria, dal maschile e dal femminile innanzitutto, per scuotere ciò che siamo abituati a pensare.
“trying to find non traditional ways of creating traditional sounds, we wanted to find a room where all sounds are just as odd or just as normal, where the borders between normal and strange are erased […] To not reproduce identities that are expected from us. Yes, we are privileged. We can afford to fight commercial homogenisation, the ideals reproduced in the extremely hyerarchical and conservative structures that the music industry constitutes. […] Once you stop caring about rules, or to question the function of popular music… It’s an experiment with time to make music that demands people’s time and consciousness, that is impossible to consume in the quick and easy way. […] I think music can be a tool to create movements. A room where everything is possible. Transformation as a physical feeling. […] In our lyrics we criticize […] the construction of a nuclear family. An institution that conserves inequality and injustice and exclusion.”
Nelle parole con cui i Knife raccontano il loro Shaking The Habitual ritroviamo gli stessi concetti espressi dal nuovo fronte di musicisti transfemministi di cui stiamo parlando. I Knife sono stati uno dei punti di riferimento per questo movimento, insieme ad altri artisti che gravitano attorno al loro nucleo, come Shannon Funchess dei Light Asylum o Planningtorock.
Un altro centro fondamentale per questo movimento è il party/label/collettivo Janus di Berlino, fondato da Lotic, attorno al quale gravitano artisti queer come Venus X, T.E.A.M.S, Total Freedom, per dirne alcuni. Non a caso l’album di Lotic uscito a marzo si intitola Heterocetera, e, insieme al progetto Janus, ha lo stesso mandato culturale di cui parlava DJ Sprinkles nella sua lecture.
“Venus and GHE20G0TH1K started this current moment of queer people of colour who are really weird [laughs] and who are bringing club culture back to its roots in a very serious way. [They’re playing] music that’s considered low or goofy but which is actually made by black people who don’t have expensive studios,” racconta Lotic in un’intervista a The Quietus, e continua: “When you put us on the outside, then we have no choice. If you can’t get into the normal clubs then you’ll just create something else in your basement and do whatever you want. That’s the general ethos of being queer or a person of colour in the West, you’re always on the outside looking in. It’s better to not bother looking in; it’s better to look for the people that look like you and do something with them, create something new – the mainstream isn’t that special anyways.” Come a dire: c’è altro, oltre al mondo della cassa dritta o dei suoni macho-EDM che stanno monopolizzando il clubbing di massa, c’è altro ai margini, e questi margini sono molto più interessanti, diversificati, liberi e divertenti, proprio perché stanno in una sorta di non-luogo in cui tutto è permesso e soprattutto è possibile creare qualcosa di nuovo.
Dall’altra parte dell’oceano, il mostro del machismo viene scardinato da collettivi come PC Music, in cui l’estetica patinata dei simboli capitalistici viene esasperata in figure e suoni che ricordano anche vagamente la “Barbie Girl” degli Aqua, se ai tempi i danesi avessero avuto la consapevolezza e il coraggio di tirare fino in fondo le conclusioni di quello che stavano proponendo (sarebbe stata una figata, maledetti Aqua!). Ma il vero golem musicale contro cui imporsi è il mondo dell’hip-hop, ancora troppo legato a stereotipi di un certo tipo: è così che rapper dichiaratamente gay come Mykki Blanco o Le1f tirano fuori produzioni coraggiosamente fuori da quegli schemi, riuscendo anche a fare da traino ad artisti ben più grossi, che, guarda caso, “rubano” un certo tipo di produzioni da quella che potrebbe davvero rivelarsi la linfa vitale del nuovo rap statunitense (vedi tutto Yeezus, tra i cui producer figura anche Arca). Sia Mykki che Le1f, nelle interviste rilasciate, calcano la mano sul problema della transfobia, che probabilmente—ora che negli Stati Uniti è avviato un processo di “normalizzazione” delle coppie omosessuali—è diventato un’urgenza che non è più possibile ignorare. Così questa nuova onda di musicisti transfemministi spinge per liberare insieme il proprio corpo dal peso degli schemi patriarcali e le proprie produzioni dagli stessi schemi, che si traducono in beat martellanti, quadrati, potenti.
“It has to have a clean BPM and the drums have to be machismo-engineer-nerd perfect.” Così Elysia Crampton, artista transessuale di origini boliviane, cresciuta in Virginia e in continua transizione, anche geografica, parla della struttura che musicisti come lei tentano di demolire attraverso produzioni contaminate, indefinibili, stratificate.
Non a caso, qualche mese fa, DIS Magazine ha pubblicato una splendida lettera indirizzata proprio ad Elysia da Jeffrey J. Cohen, autore del libro Stone—An Ecology of the Inhuman, in cui parla di come ciò che riteniamo immobile per antonomasia, la pietra, sia in realtà, nelle sue stratificazioni, in movimento continuo, in continua mutazione.
“It seems right that you emailed me from a borderland, since transitions and transontologies flow through your work,” scrive Cohen, in viaggio come Crampton, anche se in un altro emisfero. Cohen, dalla Nuova Zelanda, sta ascoltando American Drift, album che Elysia ha pubblicato lo scorso luglio. “Your sonic aggregations words, phrases, rhythms whirl through my head”, le scrive. Aggiunge che, per costruire una montagna, qualcos’altro deve affondare, che le catene montuose, in questo senso, somigliano ai corpi umani.
Cohen prosegue nella sua splendida lettera parlando della propria formazione intellettuale, segnata “da guerre territoriali e battaglie per la supremazia della Verità di alcuni sulla verità di altri”, in cui viene insegnato a dominare sull’altro. E poi afferma: “Voglio un mondo più generoso”, perché fin quando il successo sarà misurato in base all’accentuazione e alla spettacolarizzazione dell’errore altrui, sarà impossibile superare il culto della personalità, quel culto che si alimenta con lo scontro e con l’isolamento di ciò che è altro da noi.
C’è un’altra parte interessante di questa lettera, ovvero quella in cui Cohen parla del film Melancholia, e del suo significato, che lui vede diametralmente opposto a quello della musica di Crampton. Il motto di Elysia è “Say fuck it and start!”, non importa da che condizioni si debba partire, da quali insicurezze, ansie o devastazioni interiori o esteriori abbiamo passato. Fanculo tutto, incominciamo! Questa attitudine è messa da Cohen in contrasto con il leitmotiv di Melancholia, ossia quella malinconia estetizzante per cui quasi si spera in un’apocalisse, perché alla fine è quello che l’umanità si merita. Nella musica e nell’attitudine di Crampton, come degli artisti queer di cui ho parlato finora e dei molti che non ho nominato, c’è una volontà costruttiva di cambiamento, totalmente opposta alla retromania che è stata, anche secondo le parole di Mattioli e Harper al loro talk al Robot, deleteria per un’intera generazione di musicisti e fruitori.
La malinconia, la retromania, che possono esprimersi nell’aggrapparsi a canoni passati o nel desiderare che ogni schema malato venga cancellato da un’apocalisse totale, sono “vie d’uscita semplici”, come dice Cohen.
Repair and composition are harder – especially because we are broken ourselves. We’ve created a system that keeps breaking people, that thrives on breaking humans and worlds, that wounds in mind and body those who live with us now and those yet to come. Fixing what we keep breaking is surely the antidote to melancholia, the best way to live with rather than be consumed by fire and ice. And maybe we would feel more compelled to repair rather than consign if we saw better the agency and power of the nonhuman.
E qui chiudiamo il cerchio su questa musica del futuro, che non teme la transizione, l’attesa, la lentezza, l’attenzione, la stranezza, la marginalizzazione, ma fa di tutti questi elementi la propria forza creativa, e tenta di ricreare il proprio spazio all’interno dei club.
“I club non sono abbastanza,” racconta Elysia Crampton in un’intervista a Spin. “Voglio che il concetto di club evolva […] Lo spazio potrebbe facilitare questa evoluzione, in modo che la gente possa parlare di più e pensare più in grande, senza che il tutto sia sponsorizzato da un museo. Spero che la situazione evolva, così anche chi non rientra nel paradigma standard abbia la possibilità di alzare la propria voce.”
Questo, insomma, è solo l’inizio. Say fuck it and start!