La Bovisa è un quartiere di Milano, ma è come se fosse un paese. Il merito è della ferrovia che la abbraccia e chiude in tre direzioni cardinali e la attraversa in due come un taglio netto. Da una parte dei binari c’è il campus del Politecnico, dall’altra il tessuto urbano sorto attorno a una cascina in risposta all’industrializzazione degli anni Sessanta. Ci sono timidi tentativi di gentrificazione, palazzi nuovissimi e fiammanti che si ergono accanto a caseggiati abbandonati e spazi in disuso.
Acilia è una frazione di Roma. Sta a circa venti chilometri dal centro verso il mare, accanto a Ostia, e ha una storia di povertà ed edilizia popolare. Non è un luogo che grida disagio più di qualsiasi altra ultraperiferia in giro per il mondo. Succede poco e niente, il pomeriggio si prende il treno e si va a Roma a fare un giretto, la sera si prende la macchina e si va a ballare la techno. Almeno questo vale per “i ragazzi normali… noi no, fumavamo sulla panchina”, dice Quentin40, che ad Acilia ci è nato e in Bovisa ci vive.
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Arrivo a casa di Quentin in un pomeriggio di novembre. Scendo dal treno alla stazione che si affaccia su Piazzale Bausan, cuore del quartiere, e mi confondo agli studenti che vanno e vengono da lezione. A un certo punto, seguendo le indicazioni di Maps, esco dal flusso e mi trovo in una lunga via semivuota in cui ci starebbe meglio la sede di un corriere o di un’azienda metalmeccanica piuttosto che la casa-studio di uno dei giovani rapper più complessi della scena italiana. E invece è lì che Quentin vive assieme a Ruben, in arte Dr. Cream, suo mentore e beatmaker fin dai primi momenti.
“Ad Acilia ci sono un po’ di parti dimenticate da Dio”, mi spiega Quentin quando gli chiedo di raccontarmi l’ambiente in cui è cresciuto. Mi parla dell’accampamento sotto a un ponte dove ha girato il video di “Giovan8”, di scavi romani abbandonati, di una divisione tra la zona residenziale e quella popolare della cittadina. “Non è un bel posto, assolutamente. Intendiamoci: non che stessi in mezzo alla strada, ho sempre avuto un piatto davanti”.
A scuola Quentin non andava poi così male. Qualche debito a fine anno, ma mai una bocciatura. I numeri gli piacevano, quelli sì: “La mia professoressa mi faceva leggere queste cose assurde sulle simmetrie della natura, sulla musica che è matematica”, racconta, prima di fare una digressione su quanto sia affascinato dagli algoritmi e dal modo in cui tanti piccolissimi numeri ci guidano nelle grandi cose della vita. “Ne parla venti volte al giorno”, scherza Cream.
Quentin faceva uno dei tre licei pubblici aeronautici d’Italia, quello di Roma. Ogni giorno gli ci voleva un’oretta per arrivarci. “Non sapevamo manco che cazzo stavamo a fà”, racconta. Il suo manager, Alessandro Borgia, mi fa notare che è quella la radice del tema del volo nei pezzi di Quentin, a partire dalla sua barra più celebre, quelle che apre “Thoiry”: “Giro a pie’ ma non è sopra il cel che voglio un aeropla’”.
“Thoiry” è un pezzo ingombrante nella carriera di Quentin. Insomma, è quello che gli ha permesso di lasciare il suo paese e venire in un altro paese dentro Milano, a cantarla in Corso Vittorio Emanuele alle luci del Duomo insieme ad Achille Lauro e Gemitaiz. Il suo beat, figlio rabbioso dell’afrotrap francese, trasuda energia con ogni colpo di cassa. Ma la sua furia nasconde un ragazzo pensieroso e sensibile nel cui petto batte un cuore puro. Passando qualche ora con lui te ne accorgi.
Finito il liceo Quentin comincia a trovarsi dei lavoretti da qualche decina di euro alla giornata. Fa il promoter di vernici da Leroy Merlin, viene assunto in reparto. Intanto ascolta e fa rap. Comincia da Fabri Fibra: “Mi colpiva perché era diretto, greve. C’era rabbia, ma anche la ricerca delle parole per ucciderti. Sembrava qualcosa che avrebbe potuto cambiare l’Italia”. È in questo periodo che conosce il Dr. Cream, non appena mette euro da parte per pagare qualcuno che gli registrasse i primi pezzi. “Non ero mai entrato in uno studio. Sognavo che Ruben mi desse qualche dritta, mi chiedesse di rappare per lui. Dopo qualche incontro ha cominciato a farmi fare parole a metà, follie”.
Qualcosa scatta tra loro. Dopo un po’ le registrazioni diventano gratis. E qua comincia a vedersi il cuore: “Lui c’aveva fame e io gli levavo ore di persone. Sognavo di avere sempre 40 euro per pagarlo. Se la passava peggio di me e la cosa non mi faceva stare bene. Se vuoi bene a qualcuno dici, c’hai un altro tipo che ti fa fare i soldi, vai, non perdere tempo con me”. Quentin scrive il mattino, tra le dieci e mezzogiorno, e poi va al lavoro. Intanto un nuovo amico, un altro ragazzo che rappa e frequenta lo studio di Cream, gli chiede di aiutarlo in un bar. Si chiama Puritano.
“A me non piacciono ‘ste cose”, racconta Quentin, “E se poi non sono forte al bar? Non mi piace che tu lo fai per me. Ma mi ha insegnato veramente il mestiere. Quando mi è venuta la cremetta mi sono tranquillizzato”, scherza. La conoscenza con Puritano è una prima conferma per Quentin, che trova in lui una nuova spalla artistica e personale. Il loro primo pezzo assieme, su beat di Cream, si chiama “Stacce”. È un classico pezzo di quartiere contemporaneo nelle cui pieghe si indovina una versione primordiale del contrasto che anima la poetica di Quentin, quella tra stasi e fuga: “Le mie strade non sono illuminate ma brillano, stelle fuori dal raccordo”, rappa Quentin, “I miei fra sono qua, non girano il mondo / Ma per viaggare ‘sta roba ti fa dopo qualche secondo”.
Quando il Dr. Cream viene messo sotto contratto da Honiro, etichetta nota per il suo lavoro di scouting tra gli esordienti italiani, Quentin resta con i piedi per terra. “Eravamo controllati un po’ indirettamente, ma dato che Ruben faceva rappare tutto il litorale [mettendolo sotto contratto] Honiro aveva sistemato tutto. E così facendo forza su di lui abbiamo caricato un paio di progetti.” Il primo è un acerbo mixtape intitolato Quaranta, il secondo un è un intero album rappato insieme a Puritano. Si chiama Thoiry.
La casa di Quentin e Cream in Bovisa è piuttosto nuova e sta in un complesso in cui, mi dice, vivono anche altri rapper. Tra di loro c’è anche Achille Lauro, cioè la persona che ascoltando “Thoiry” si è resa conto del suo potenziale dirompente. La sente anche Alessandro, che oggi è il suo manager, e nel giro di qualche giorno Quentin è su un treno per Milano. Alla fine del 2017 la sua carriera, insieme a quella di Ruben, subisce un’accelerata improvvisa e definitiva: a novembre il trionfale video del remix di “Thoiry”, a dicembre il singolo “Luna piè”, a marzo dell’anno successivo “Giovane1”.
Nel giro di tre pezzi Quentin si afferma come una botta d’energia sulla scena italiana. Diventa il-rapper-che-taglia-le-parole, quello che sfrutta la forza delle vocali per non soddisfarti mai, ma dandoti sempre un nuovo motivo per ingolosirti. Chiedo a Quentin di spiegarmi quali siano stati i suoi modelli, crescendo; le persone che hanno influenzato la sua scrittura. Parte un po’ cauto, dicendo che non si è mai interessato molto a scoprire musica e leggere libri. Tira fuori Chuck Pahlaniuk, a partire da Fight Club. Infine tira fuori il motivo per cui è uno degli artisti che possono lasciare veramente il segno sulla storia della musica di questo paese:
“È un momento particolare”, dice Quentin. “La gente vuole cose particolari e io non mi sento libero di esprimermi al 100%. Non che non lo faccia, ma ovvio che tagliare le parole, strillare, lo faccio per arrivarti. Non voglio che mi zompi, mi skippi. Ma non è la musica che voglio fare. La musica è un’armonia, un messaggio vero, non solo il colpirti. Sono più o meno tutti buoni a colpirti. Con la tecnologia, l’autotune, il computer, ci vuole poco”.
Quentin, insomma, sa benissimo che “Thoiry” ha aperto la porta della gabbia in cui lui, giovane leone, stava riposando. Ma rischia anche di richiudergliela in faccia, confinandolo in una singola modalità espressiva: la rabbia, le parole tagliate, le punchline. “Noi parliamo per dire qualcosa a qualcuno, tutti vogliamo essere qualcosa”, spiega. “Io mi sono molto sfogato per cose che ho passato. Penso di essere arrivato a molti ragazzi che hanno vissuto situazioni simili alla mia. Ma deve esserci un punto, non si tratta solo di arrivare su palchi più grossi”.
Il primo pezzo di questo Quentin40 è “Scusa ma”, un dipinto impressionista i cui colori sono spiaccicati sulla tavolozza del cloud rap. Passato e presente si confondono, esseri umani sembrano luoghi e viceversa, immagini da toccare e rimare compaiono e svaniscono: “Il testo è molto confuso, anche su internet”, spiega Quentin. “Molti pensano che all’inizio stia usando una sorta di dialetto romano: ‘Se ricordi quella foto / la mi ti volò dalle mani”, e invece no. Parlo di una foto famosa per noi quattro scemi: una mista che cadeva dalla mano ed era l’ultima canna”. Ci sono dentro un amico partito a mai più visto, il rapporto con la madre, i ricordi di Roma. Uno stabilimento di Ostia dove si andava a marinare la scuola, un molo dove farsi due canne dove oggi “non va più nessuno”.
E poi c’è “Drugona”, che è Dragona, che secondo il mito è il luogo dove Enea approdò in Italia, che è il municipio di Roma a nord di Acilia dove Quentin passava le sue giornate e costruiva la sensibilità che avrebbe tirato fuori in “Scusa ma”. Spiega: “Quando parlo di Giardinetti tutti credono che mi riferisca al quartiere di Roma, ma per noi i giardinetti sono solo un parchetto a Dragona. Un nostro culto fatto di un muretto e un parcheggio enorme. Sono posti dove non ci va nessuno. Lì ci trovavamo e stavamo tutte le sere sulle panchine”.
“Tra Dragona e Acilia sono cresciuto”, continua Quentin. “In centro non andavo mai, non conosco le strade di Roma. Da piccolo giocavo a palla, che andavo a fare a vedere i negozi col trenino? Poi ho trovato chi stava bene con me. A ballare ci andavo controvoglia. Non posso vedere due nasi che zompano e tre coltellate ogni sera. Non è piacevole, sei in un ambiente di merda in cui non vorresti mai stare. E quindi stavamo sulle panchine, sentivamo rap, canne e parlavamo. Mi sentivo un ragazzo d’altri tempi. Parlavamo e parlavamo… Pensi di perdere tanto tempo, ma poi tutti i discorsi persi tra amici portano a un punto. Certo, abbiamo fatto un po’ di schifezze. Puoi scoprirle andando a ballare e prenderci gusto, puoi scoprirle sulla panchina e dire ‘Vaffanculo, che merda, non voglio fare ‘sta vita’.”
“Luna piè, notte bu in MI / Smello in via Imbonà, sono il king-a della Bovì” comincia la strofa di “Fahrenheit”, il primo pezzo scritto a Milano di Quentin. A non essere di queste parti non è tutto subito chiaro: scena notturna in via Imbonati, annusando erba, Quentin si staglia maestoso sul suo nuovo quartiere. Ma carsharing e delivery si confondono con un incontro, un paio di guance, una ragazza a cui è tosta offrire da qualcosa. Perché dice “bè”, Quentin, che potrebbe essere “bere” ma anche, come mi spiega, “una riflessione”.
“Fahrenheit” è una canzone, spiega Quentin, che anticipa la linea che la sua musica vuole prendere. Andare oltre le parole tagliate e procedere per elisioni più forti, concettuali e lessicali, “omettere cose che vorrei arrivassero”. Anche il beat di Cream è diverso: un leggero beat in levare suggerisce un reggaeton urbano che, sul finale, si rompe in un assolo fragoroso. “Lo abbiamo fatto a quattro mani io e Cream”, spiega Quentin, che non vede l’ora di lasciarsi dietro la sua vecchia pelle artistica.
“Eravamo usciti con roba cruda, di quartiere, con cui avevamo preso l’attenzione dei puristi”, spiega. “‘Fahrenheit’ è stata un po’ un suicidio, ma non un tentativo di prendere chi ascolta reggaeton. Si trattava di andare contro le tendenze. Ad ascoltare solo ‘Giovane1’ sarei dovuto diventare il cowboy di quartiere che da lì non riesce a uscire, sempre incazzato nero”. E Quentin non è affatto incazzato, anzi. Con l’aiuto del suo manager Alessandro sembra avere un piano lucido e semplice: non essere quello che ci si aspetta il rap italiano sia nel 2018.
“Molti ragazzi vogliono una chance e il sistema è costruito per illuderli”, prosegue. “Il discorso a cui la gente crede è ‘Ragazzi, fate anche voi ‘sta cosa, il più forte verrà con noi! Comprate il mio disco, idioti, e venite a fà sk sk’. Tanti ragazzi stanno al bar e non sanno cosa fare. Sono presi in giro da una comunicazione truffaldina, da ‘sto mondo che pensi sia una maniera ed è tutt’altro. Come fa un ragazzo a sapere? La sua rabbia non la incanala in niente”.
E ancora: “Fino a vent’anni fa ci è morta la gente per avere la libertà di parola. Non voglio fare il discorso di mio nonno però, porca miseria, quelle erano persone con le palle veramente. E mò invecchiano, ma non è che non ci stanno più. Nessuno si sente fiero della musica che fa?” Se il rapper medio è casinaro, borioso e spaccone, Quentin sa insomma essere anche pensoso, umile e tenero. Nel suo rap il passato non è solo uno spauracchio da scacciare a botte di opulenza, è un arsenale di ricordi agrodolci da rievocare sfocati. La sua immagine non grida “guardatemi” ma “ascoltatemi”.
Non è a suo agio nemmeno davanti alla macchina fotografica che gli sta scattando foto mentre camminiamo per il quartiere, Quentin. “Per me è un dramma quando dobbiamo fare degli shooting, che so che non scapperò”, dice, e la stessa cosa vale quando sale su un palco: “Non è che mi faccia troppo impazzire la cosa di strillare e fare casino. Mi piace un altro tipo di musica e condivisione. Visto che io non sono così, esibirmi è stato il doppio più impegnativo. Il mio impatto dal vivo era pessimo, non mi piace essere guardato e non mi piace essere al centro dell’attenzione. Quindi è stato come per i cappuccini: anche se qualcuno crede in me non mi metto a fare una cosa se non sono sicuro di farcela”.
“Se ne va”, con Fabri Fibra, è un pezzo che nasce il 7 luglio 2018, nel backstage di un festival a Cremona. Come racconta Alessandro, fu allora che chiese a Quentin un singolo nome con cui gli sarebbe piaciuto collaborare. La risposta fu “Fibra” e lui si mise a lavorare. “Abbiamo aspettato un’estate”, ricorda Quentin, “ma avevamo deciso che sarebbe stato lui e nessun altro. Avremmo potuto aspettare per niente”. Invece il pezzo esiste ed è, ancora una volta, esattamente il contrario di quello che ci si sarebbe potuto aspettare da una canzone con Fibra.
“Se ne va” ha un beat lento e malinconico, l’erba come tema portante. Non c’è nessuna punchline, nessuna furia. Solo agrodolce stordimento e disagio le cui radici profonde possono essere rintracciate, con un salto del cervello, nella storia della letteratura. Il protagonista del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Giacomo Leopardi parlava con la Luna. Lungo il corso delle strofe le poneva una domanda senza risposta: perché la vita è così dolorosa? Solo in mezzo al deserto con un gregge di pecore come unica compagnia, il pastore trovava allora sollievo nell’immaginazione e, nello specifico, nel volo:
Forse s’avess’io l’ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
Così fa Quentin40, che da tempo guarda la sua luna piè e le parla. Le chiede un modo per mettere in ordine la sua vita e i suoi pensieri, a lei si affida perché gli illumini la strada. Ma quando non ottiene risposte ha anche lui un paio d’ali a cui affidarsi per fuggire, volare via con piume sporche di catrame, “sì ma da me, sol-“. Ode all’erba e allo stordimento, “Se ne va” si squarcia in un lamento lacerante:
Guardo la Luna, mi guarda fumare,
Poi la spengo e se ne va.
Cosa si spegne? La luna? La canna? Qualsiasi sia la risposta tutto si fa buio e Quentin resta immobile, anestetizzato, a guardare “un pezzo di sé che se ne va”. Ritorna, la Luna, come simbolo di resistenza: “Posso dare la Luna”. Sa di doverci mettere tutto sé stesso, in questa gara, per vincerla e lasciare un segno permanente sulla terra del mondo. Si trova di fronte a un bivio: “Posso andare di moda / Posso mettere a nudo, farne un ritratto”. Ed è la seconda opzione che ha scelto, in un tentativo felicemente disperato di uccidere la mediocrità prima che sia lei ad affondare le sue zanne nella gola della nuova scuola del rap italiano.
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