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Questi microcristalli sono un nuovo tassello verso l’informazione quantistica

In un nuovo articolo pubblicato su Advanced Materials, un gruppo di ricerca italiano nato dalla collaborazione tra l’Università di Firenze, l’Istituto di Fotonica e Nanotecnologie del CNR e La Sapienza ha aggiunto un tassello ulteriore verso la rivoluzione dell’informazione quantistica. L’informazione classica, su cui si basa tutto quello che conosciamo, dai computer a internet, utilizza i bit, ovvero due stati di un sistema facilmente distinguibili, come un segnale di tensione alto (1) e uno basso (0).

L’informazione quantistica si basa invece sui qubit (quantum-bit): nel mondo dei quanti un sistema che può trovarsi in uno stato 0 e 1, ha anche la possibilità di trovarsi in uno stato che sia una combinazione di questi due (ad esempio 20% nello stato 0 e 80% nello stato 1). Questo dà la possibilità di poter immagazzinare un numero di informazioni che è esponenzialmente più alto rispetto al caso classico.

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Ma uno degli ostacoli più grandi all’avvento di un’infrastruttura che si basi su questa nuova frontiera dell’informazione sta proprio nella creazione e nella conservazione di questi stati, che per la natura stessa della coerenza quantistica sulla quale si fondano, sono estremamente delicati e suscettibili al mondo esterno.

Tra i vari metodi finora sperimentati, la tecnologia dei quantum dot è una delle più promettenti. Per punto quantico si intende un’inclusione di un materiale semiconduttore all’interno di un altro semiconduttore, le cui bande differiscono in modo tale da generare un pozzo di potenziale tridimensionale che confina le cariche in una piccolissima regione di spazio. Un po’ come se scavassimo una buca nella sabbia e mettessimo al centro una biglia: questa è confinata e non può scappare a meno che non riceva una fortissima spinta esterna.

Fiale contenenti punti quantici prodotti a livello industriale. Immagine: Wikimedia Commons.

Non è finita qui: essendo confinati in uno spazio di pochi nanometri, è possibile utilizzare queste cariche come sorgenti di fotoni ad una esatta lunghezza d’onda, eccitandoli con un impulso esterno (la tecnologia dei televisori QDOT si basa proprio su questo).

Solo che in questa buca, invece di una biglia, è possibile inserire un qubit: il gruppo di ricerca, capitanato da Marco Felici del Dipartimento di Fisica della Sapienza, presenta proprio una tecnica innovativa nella fabbricazione di quantum dot, descrivendo una vera e propria ricetta per creare queste strutture quantistiche utilizzando “semplicemente” un microscopio ottico a campo vicino (SNOM) e un laser. L’idea è quella di utilizzare il microscopio per focalizzare un laser e rompere selettivamente, nel punto dove tutta l’energia converge in un punto (il fuoco aka hot spot), i legami N-H nel Ga(AsN) idrogenato.

Uno schema della fabbricazione dei QD: (a) Viene individuata la “membrana” all’interno del quale i quantum dots verranno fabbricati. Nella figuta (b) è possibile vedere una ricostruizone dell’area che verrà utilizzata nella fabbricazione, dove la parte superiore rappresenta la vista nell’immagine precedente. Nell’immagine (c) viene mostrato il processo di fabbricazione in sè, in cui il laser, accoppiato con la punta del microscopio, crea un hot-spot nel quale vengono rotti i legami N-H nel layer, generando i QD.

Questo tipo di fabbricazione consente un controllo nanometrico nella posizione del QD, oltre che una possibilità di scegliere la lunghezza d’onda di emissione, e quindi il colore, con una precisione nanometrica. “Questa tecnica raggiunge un’incertezza nella posizione minore di 100 nanometri e può essere facilmente applicata nella realizzazione di nanostrutture più complesse”, scrivono gli autori nel paper.

Il materiale utilizzato, un substrato di Ga(AsN)idrogenato può arrivare, con l’aggiunta di indio, a emettere alle lunghezze d’onda di interesse per le telecomunicazioni (1.31-1.55 µm), risultando compatibile con tutte le tecnologie e infrastrutture attualmente sviluppate. L’utilizzo dello SNOM serve invece a focalizzare il fascio luminoso su dimensioni molto inferiori al cosiddetto limite di diffrazione (ottenibile con un microscopio tradizionale), rimuovendo così l’idrogeno da una regione di pochi nanometri.

I quantum dot realizzati con questo metodo hanno mostrato quindi la capacità di emettere singoli fotoni quando eccitati con un impulso dall’esterno si parla di emissione “on demand”, a una lunghezza d’onda che può essere modificata cambiando i parametri di fabbricazione.

Lo sviluppo di questo metodo rappresenta “un significativo passo in avanti per la realizzazione di circuiti fotonici completamente integrati, utili per le future tecnologie quantistiche”, ha osservato Biccari, anche se la strada da percorrere per realizzare su larga scala i dispositivi quantistici “è ancora molto lunga”.