Criminalità milanese foto
Luciano Lutring con Elsa Pasini, primi anni ’60, Archivio privato. Tutte le foto per gentile concessione di CLP Relazioni Pubbliche.

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L'evoluzione della criminalità milanese in foto

Attraverso foto, documenti e reperti storici una mostra racconta la criminalità milanese dal dopoguerra agli anni Ottanta.

Se ci si immagina la Milano del dopoguerra, una delle prime cose che viene in mente è sicuramente il suo ambiente criminale: la Ligera con i suoi protagonisti, le bische e il mitra di Luciano Turning, Enzo Barbieri e Renato Vallanzasca.

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In questi giorni, tutto ciò è oggetto di una mostra: MILANO E LA MALA. Storia criminale della città, dalla rapina di via Osoppo a Vallanzasca. Attraverso immagini d’epoca, reperti storici e documenti che raffigurano gli episodi e i volti più importanti di quegli anni, la mostra (ospitata a Palazzo Morando) si propone di tracciare l’evoluzione della malavita milanese dalla fine degli anni Quaranta al 1984. Ho parlato con Luciano Galli, curatore della mostra, di cosa è rimasto della Milano di allora, del rapporto tra criminali e forze dell’ordine e del rischio di glorificare la criminalità.

VICE: Da dove nasce la mostra e con quale intento?
Stefano Galli: La mostra nasce da lontano. È parte di un progetto di mostre che facciamo tutti gli anni a Milano, tramite cui raccontiamo una parte di storia della città da angolature diverse. Erano diversi anni che ragionavamo su un progetto che raccontasse la parte sotterranea di Milano: gli affari criminali, la malavita e tutto quel mondo di sotto attorno al quale ruotano, in maniera del tutto inconsapevole, molte relazioni sociali e civili che determinano la vita di tutti i giorni dei cittadini.

La parte della criminalità è, non so bene perché, quella che gli storici fanno fatica ad affrontare, e prorvare a metterla in scena attraverso immagini, reperti e documenti può aiutare i milanesi a capire meglio Milano e come è cambiata.

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Rapina di via Osoppo, 1958. Archivi Farabola.

Per farlo avete selezionato più di 100 immagini: come siete arrivati a queste e come poi le avete selezionate?
Siamo partiti dai quotidiani, soprattutto locali. Perlopiù quelli di fronte impronta milanese, che nel corso di decenni hanno documentato le vicende criminali della città. Da lì, la ricerca si è allargata perché di volta in volta i contesti ci portavano ad indagare sugli archivi, anche privati. Ho visto circa 18mila foto, parlando solo di quelle del periodo di cui si occupa la mostra. Da lì, facendo una cernita in senso qualitativo e di contenuto, siamo lentamente arrivati alle 170 che sono esposte in mostra.

Beppe Piroddi e Odile Rodin, 1967. Archivi Farabola.

La mostra parte dal 1945 e si interrompe nel 1984. Ci sono davvero un prima e dopo netti nella criminalità milanese? Esistono legami tra la criminalità di allora e quella di oggi?
Più che dei legami, c’è una cesura. Il 1984 è l'anno in cui viene arrestato Angelo Epamimonda, detto “il Tebano”. È lui l’ultimo esponente di una certa forma di malavita, e in un certo senso anche il trait d’union con quello che verrà dopo.

Da quel momento in poi, sarà una criminalità sempre più silenziosa e sotterranea. Sarà il momento delle realtà organizzate che gestiscono gli appalti, che gestiscono i rapporti infiltrandosi anche nelle istituzioni, che gestiscono il grande mercato della droga. Quindi in questo senso sì, ci sono un prima e un dopo molto netti e proseguire il racconto avrebbe voluto dire aprire un’altra storia—una storia che non è neanche più milanese, in quanto arrivano le criminalità del sud e i gruppi criminali dell’est, con approcci al crimine molto più professionali e manageriali.

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Angelo Epaminonda portato in questura, 1984, Archivio Fotogramma

Una delle grosse differenze tra quel mondo e quello di oggi, che emerge anche nella mostra, è il rapporto di rispetto tra criminali e forze dell’ordine.
Assolutamente. La città era più piccola e la scena criminale molto più circoscritta, soprattutto negli anni Cinquanta. Ho parlato con la figlia del commissario Zamparelli, che a Milano era diventato una sorta di leggenda. Mi raccontava che i criminali una volta usciti di galera andavano a casa sua a chiedere una raccomandazione per trovare lavoro. Oppure la moglie dava ai criminali usciti di galera i vestiti che il marito non metteva più.

Del resto, c’era un rapporto diverso perché c’era una socialità diversa, e quindi c’era il rispetto dei ruoli ma anche una comprensione dell'alterità che si plasmava poi, una volta scontata la pena, in un aiuto che si poteva dare. C’erano persone nelle forze dell’ordine di uno spessore morale e un rigore davvero incredibile. Penso a Nardone, a Zamparelli, ad Achille Serra, al questore Pagnozzi—erano persone che godevano di un rapporto di rispetto profondo. Moltissimi poliziotti con cui ho parlato mi hanno detto che per tutta la loro vita non hanno mai ricevuto una minaccia e non hanno mai girato armati, che non si sono mai preoccupati della loro incolumità.

Renato Vallanzasca arrestato dopo una rapina, 1972. Archivio Fotogramma.

Non c’è il rischio di vedere la Milano di quegli anni, e con essa la sua criminalità, attraverso le lenti della nostalgia?
Certo. Il tempo stempera tutto, e ovviamente si tende a ricordare soltanto alcuni lati di quello che è successo. Detto ciò, credo che la nostalgia per la Milano di allora sia presente perché era una città fortemente connotata in termini sociali. Molti quartieri che oggi sono glamour hanno perso molta della propria identità. ma nel dopoguerra avevano una fortissima connotazione non solo urbanistica ma proprio sociale. Quindi se penso ad Isola, a Garibaldi o anche a Porta Genova, erano fortemente connotati in termini malavitosi. ma in questo caso posso dire anche in termini positivi: c’era tutta una socialità che ruotava attorno a quella che era espressione di quella zona.

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Per quanto riguarda invece il rischio di romanticizzare la criminalità di quegli anni, secondo lei è reale? Lo ha tenuto in conto nell'organizzazione della mostra?
Sì, il rischio c’è sempre. Io credo di averlo scongiurato innanzitutto perché il mio intento era quello di raccontare la città, e la storia del suo crimine serve questo scopo. Non avevo alcun intento di glorificare i criminali: per quanto agissero in un contesto diverso, erano e rimangono criminali efferati.

Inoltre, ho costruito un rapporto fortissimo con alcuni uomini della polizia, che mi hanno aiutato a reperire i documenti e fare in modo che potessero essere esposti.

Francis Turatello, anni Settanta. Archivio privato.

Tra le varie biografie dei protagonisti della mostra, ce n'è una che la ha colpita particolarmente?
Sì, una storia che ho seguito anche da ragazzino che mi ha colpito molto è quella della banda di Epamimonda, i cosiddetti “indiani”. Credo che sia il punto più terribile della storia della città, imperversavano questi tizi che avevano il compito di prendere gli scalpi di chi in città osava opporsi loro. I poliziotti mi hanno raccontato storie incredibili a opera di questi malavitosi, che non erano neanche più criminali ma pazzi in preda spesso ad abuso di droga e che commettevano i delitti più scellerati. Credo questa sia la parte che colpisce di più anche i visitatori della mostra.

Milano e la Mala sarà in mostra a Palazzo Morando, a Milano, fino all’11 febbraio. Altre foto sotto.

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Il Pussy Cat, anni ’70, Centro Apice – Università degli Studi Milano

Ezio Barbieri in tribunale, 1949. Archivi Farabola.

Controlli di polizia in piazza Duomo, 1957. Archivio Giancolombo.

Il Questore Vincenzo Agnesina nel suo ufficio, 1948. Archivio Giancolombo.

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