Musica

'Unknown Pleasures', quel disco là delle magliette, compie 40 anni

T-shirt a parte, il primo album dei Joy Division è magico oggi come quarant’anni fa.
Giacomo Stefanini
Milan, IT
unknown pleasures joy division

Leggenda narra che il 4 giugno del 1976 i Sex Pistols, a quel punto appena agli inizi, con ancoraGlen Matlock al basso, abbiano fatto un concerto alla Lesser Free Trade Hall di Manchester. Che poi questa parte è tutta vera, ci sono le foto, ma la parte leggendaria dello show è che fra il pubblico, circa una quarantina di persone, c'erano tutte le persone che poi hanno reso la città dello Yorkshire una delle più importanti per la musica degli anni a venire.

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"Pffft, possiamo fare molto meglio di questi londinesi del cazzo": questa è l'aria che si racconta si respirasse dentro a quella stanza. C'era Tony Wilson, che fondò la Factory Records e il club The Hacienda; c'erano Howard Devoto e Pete Shelley, che pensarono che formare i Buzzcocks sarebbe stato un'ottimo modo di combattere la noia; c'erano Mark E. Smith, Una Baines, Martin Bramah e Tony Friel, probabilmente fatti come delle zucchine, che poco dopo formarono i Fall; c'era Steven Morrissey diciassettenne che studiava attentamente Johnny Rotten; e c'erano anche Bernard Sumner e Peter Hook, che uscirono da quel concerto prendendosi a gomitate a vicenda e dicendo "da domani formiamo un gruppo punk anche noi!". Chissà se telefonarono a Ian Curtis e Stephen Morris quella stessa notte. Forse sarà scritto in qualche biografia.

Fatto sta che così nacquero i Joy Division, che dedicheranno i tre anni successivi a suonare dal vivo e ad avere pessime esperienze con le etichette discografiche, perdendosi così l'esplosione del punk in cui chiunque poteva formare un gruppo con sua nonna e firmare un contratto con una major ritrovandosi a dare del "vecchio sporcaccione" ai presentatori televisivi di tutto il mondo. Ma questi tre anni di sfiga e piccoli concerti con il resto della scena mancuniana ebbero il risultato di rifinire il talento grezzo dei quattro ben oltre il canonico assalto punk. Così, dopo aver scartato il primo album registrato, Warsaw, a causa di un mixaggio che li lasciava insoddisfatti, e dopo un primo EP completamente autoprodotto che fece alzare le antenne a un po' di persone, arrivò il 1979. Tony Wilson, dopo un anno di Factory Records, si sentiva pronto a pubblicare il suo primo LP.

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Ci vollero soltanto tre weekend di aprile per registrare e mixare le dieci canzoni di Unknown Pleasures, l'album di debutto dei Joy Division che uscì il 15 giugno 1979. Eppure il processo, guidato dal produttore Martin Hannett (che aveva prodotto nel 1976 il primo EP indipendente della storia, Spiral Scratch dei Buzzcocks), fu diverso da ogni altro disco dell'epoca e il risultato inaspettato. "Erano un regalo per un produttore", ha detto Martin Hannett in proposito. "Perché non ci capivano niente. Non si mettevano a discutere". L'intuizione di Hannett fu di incoraggiare dal punto di vista sonoro la tendenza della band a usare suoni molto ben distinti, spigolosi.

Così venne fuori un disco che suonava come un pezzo di ghiaccio: premi play sulla prima traccia, "Disorder" e concentrati sui primi secondi della batteria, sul suo riverbero innaturale che arriva solo da destra e sull'attacco iperdefinito della grancassa. Gli strati si depongono l'uno sull'altro lentamente, lasciando lo spazio di alcune battute: prima il basso, poi la chitarra, poi la voce, in un crescendo che non si interrompe fino alla fine del pezzo, con quei piatti colpiti con violenza che risuonano nel vuoto, le urla di Curtis e una loop sintetico che sembra fuori controllo. È uno degli incipit più suggestivi, potenti e unici della storia della musica, e se non fosse noiosissimo e inutile leggere una recensione di un album uscito quarant'anni fa proseguirei ad analizzare Unknown Pleasures nei minimi dettagli.

Con il suo suono, con la poetica tragica dei suoi testi, con l'estetica minimalista e oscura del packaging e della band, Unknown Pleasures cambiò la faccia della musica inglese e della musica punk in generale. Quando inizia "New Dawn Fades" e vi viene da pensare a quanto questo disco così vecchio suoni ancora così nuovo, non esagerereste particolarmente affermando che gran parte della musica attuale parte proprio da lì. È un album magico, che basa il suo potere su cinque pilastri: il suo suono cavernoso, vuoto, disperato; un songwriting urgente, sincero e pop; la voce baritonale ma acerba di Ian Curtis; il suicidio di Ian Curtis avvenuto a meno di un anno dalla pubblicazione del disco, quando aveva soltanto 23 anni; la sua copertina.

A proposito della copertina: è stata realizzata su suggerimento di Bernard Sumner da Peter Saville, che si occupava di quasi tutti gli artwork della Factory, e riproduce le onde radio emesse dal pulsar PSR B1919+21, che fu il primo pulsar captato dall'uomo nel 1967 e ha un periodo di pulsazione di 1,3373 secondi. All'inizio i due scopritori, Jocelyn Bell Burnell e Antony Hewish, stupiti dalla regolarità delle pulsazioni, chiamarono l'oggetto "LGM", che sta per "Little Green Men", ad indicare che si sarebbe potuto trattare di comunicazioni aliene. Ve lo dico perché così la prossima volta che qualcuno vi chiede che cos'è quella maglietta che indossate potete rispondere con qualcosa di più di "l'ho trovata da H&M".

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