Attualità

La crisi di governo assomiglia sempre di più a 'Temptation Island'

Il triangolo tra M5S, Lega e PD regala ogni giorno tradimenti, ripensamenti, recriminazioni e odi incrociati—e nessuno sa come andrà a finire.
Leonardo Bianchi
Rome, IT
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Sergio Mattarella dopo le consultazioni del 22 agosto 2019. Grab via Twitter.

Uno dei simboli della degenerazione raggiunta dalla Prima Repubblica era il cosiddetto “manuale Cencelli”—quella sfacciata pratica di spartizione delle poltrone governative in base al peso e alle percentuali dei partiti, in un’ottica di pura lottizzazione delle istituzioni.

L’inventore di questa formula è Massimiliano Cencelli, un funzionario di lungo corso della Democrazia Cristiana che è ancora vivo. Giusto qualche giorno fa, parlando con Repubblica della crisi di governo, Cencelli si è detto “scandalizzato, disgustato, schifato: a 83 anni, mai vista una cosa del genere. La politica italiana è diventata allucinante.”

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È difficile dare ragione a un democristiano, e per giunta all'autore di quel “manuale”; ma l’unico aggettivo che mi viene in mente per gli sviluppi dell’attuale crisi politica è proprio “allucinante.”

Come noto, dopo le dimissioni di Giuseppe Conte sono rimaste sul tavolo sostanzialmente due ipotesi: o un nuovo esecutivo sostenuto da una maggioranza diversa (PD, M5S e altri), o le elezioni anticipate. Il 21 agosto sono così iniziate le consultazioni delle forze politiche minori al Quirinale; ieri toccava a quelle maggiori, e ci si aspettava una di quelle giornate “cruciali,” “decisive,” in cui si sarebbe dovuto “decidere tutto.” E invece, nonostante le esortazioni di Sergio Mattarella, nulla di tutto ciò è avvenuto.

La prima a parlare con il capo dello Stato è Giorgia Meloni, ma qui nessuna sorpresa: la leader di Fratelli d’Italia ha ribadito quanto sta dicendo da settimane, e cioè che le elezioni sono “l’unico esito possibile.” Anche da Forza Italia non sono arrivate particolari novità: Silvio Berlusconi ha detto che un governo giallo-rosso sarebbe “una presa in giro degli elettori e un tradimento delle loro volontà” e aggiunto che l’unica “maggioranza naturale” sarebbe quella del centrodestra—sebbene, piccolo dettaglio, non abbia i numeri in Parlamento.

La delegazione del Partito Democratico, guidata dal segretario Nicola Zingaretti, ha invece espresso “la disponibilità a verificare la formazione di una diversa maggioranza e l’avvio di una fase politica nuova,” specificando che “non è una scelta facile” sia per “l’eredità pesante del precedente governo,” sia per “la distanza politica dai 5 stelle.”

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La direzione del PD, tenutasi il 21 agosto, ha fissato cinque punti molto ampi (e vaghi) per trattare: l’appartenenza “leale” all’Unione Europea; il pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa; uno sviluppo basato sulla sostenibilità ambientale; un deciso cambiamento nella politica migratoria (quindi con il ripudio dei decreti sicurezza); e una svolta nelle ricette economiche e sociali.

A complicare le cose ci hanno poi pensato alcuni retroscena. Accanto a questi cinque punti di facciata, ce ne sarebbero altri tre reali: abolizione totale dei decreti sicurezza; un accordo di massima sulla manovra economica; e uno stop al taglio dei parlamentari così com’è formulato, che il M5S però considera fondamentale.

La notizia di queste tre condizioni, stando sempre alle ricostruzioni dei giornali, avrebbe generato “stupore” e “sconcerto” tra i renziani—che premono per l’accordo, anche con un “Conte-bis” (circostanza esclusa da Zingaretti)—e tra i Cinque Stelle, convinti di trovarsi di fronte a una mossa per “far saltare la trattativa.”

Da lì in poi, le consultazioni sono diventate sempre più confuse. Nel pomeriggio è arrivato il turno della Lega e di Matteo Salvini. Il ministro dell’interno, attivando la modalità comizio, prima ha ripetuto che “la via maestra è il popolo” e “nessuno dovrebbe aver del giudizio del popolo”; poi, con una sfacciataggine davvero incredibile, ha fatto sapere di non portare “rancore” e ha riaperto ai Cinque Stelle: “se qualcuno mi dice che i No diventano Sì, miglioriamo la squadra, il programma, diamoci un tempo e un obiettivo.”

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Verso le cinque di pomeriggio, è salita al colle la delegazione dei Cinque Stelle. Al termine di un lungo colloquio con Mattarella, Luigi Di Maio ha momentaneamente chiuso la finestra delle elezioni anticipate spiegando che “il voto non può essere una fuga dalle promesse fatte dagli italiani, e noi abbiamo ancora tante promesse da realizzare.”

Il capo politico del M5S ha dunque sciorinato dieci punti (molto generici) di programma—tra cui il taglio dei parlamentari, riforma del sistema bancario, un “green new deal” e la tutela dei beni “comuni”; mancava solo la pace nel mondo—che andrebbero realizzati in questa legislatura con chi ci sta. “Sono in corso delle interlocuzioni per costituire una maggioranza solida,” ha concluso senza mai nominare esplicitamente il PD.

Il presidente della Repubblica si è palesato intorno alle otto di sera, dopo essersi preso due ore per riflettere. “Nel corso delle consultazioni appena concluse mi è stato comunicato da parte di alcuni partiti politici che sono state avviate iniziative per un’intesa e mi è stata avanzata la richiesta di avere il tempo di sviluppare questo confronto,” ha detto. Per poi menzionare implicitamente anche la Lega, e quindi i famigerati “due forni”: “Anche da parte di altre forze politiche è stata rappresentata la possibilità di ulteriori verifiche.”

Mattarella ha evocato più volte anche le elezioni anticipate, “da non assumere alla leggera dopo solo un anno di legislatura”; alla fine ha però comunicato l’avvio di nuove consultazioni per martedì prossimo, specificando che servono “decisioni chiare e sollecite.”

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Dal tono piuttosto incazzoso è apparso chiaro che i partiti non gli hanno dato le garanzie che aveva chiesto, soprattutto a livello di tempistica. E anzi, il traccheggiamento è piuttosto evidente: i partiti in questione sono deboli e frastornati (il M5S rischia pure di veder obliterata la propria classe dirigente in caso di elezioni), e c’è scetticismo da entrambe le parti. Dopotutto parliamo di forze politiche che si sono letteralmente massacrate negli ultimi anni, e che sono divise su un sacco di temi.

Una parte del M5S (basta vedersi i post di Gianluigi Paragone) è orientata a ricucire con la Lega del “traditore” Salvini, o comunque non vede di buon occhio un accordo con il PD—che fino a due settimane fa, giusto per non dimenticarselo, era il “partito di Bibbiano.” Quest’ultimo è attraversato dal solito, lacerante conflitto interno: Zingaretti ha sempre mostrato di preferire il voto ma non ha il controllo dei gruppi parlamentari; Renzi, che ha i gruppi e vuole l’accordo, rappresenta una minoranza (pur agguerrita) nel partito.

La strada per l’accordo è molto, ma molto stretta. I punti di partenza del PD esigono a tutti gli effetti un'abiura del governo gialloverde, che Luigi Di Maio—in base a quanto emerge dall’intervista al Corriere della Sera di questa mattina—non sembra affatto intenzionato a fare. E non siamo nemmeno arrivati alla fase in cui si fanno i possibili nomi di un nuovo esecutivo, a partire da un nuovo presidente del consiglio.

Per il resto, mi sa che fino a martedì ci toccheranno giorni frenetici di colloqui, aperture, strappi, dirette Facebook, meme brutti e quintali di retroscena che verranno smentiti dopo 35 secondi dalla pubblicazione. Perché ormai la cosiddetta "Terza Repubblica"—quella che doveva spazzare via gli “zombi” aggrappati agli scranni e alle vecchie alchimie della politica—è ridotta a questo: una sequela impazzita di tradimenti, ripensamenti, recriminazioni e odi incrociati.

Una specie di edizione speciale di Temptation Island, insomma, ambientata nei palazzi istituzionali di Roma. E che forse è addirittura meno credibile dell’originale.

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