Le donne guadagnano meno degli uomini, ma non nel senso che crediamo
Illustrazione di Luigi Argiuolo.

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Italia

Le donne guadagnano meno degli uomini, ma non nel senso che crediamo

Il gender pay gap esiste, ok. Ma cosa significa di preciso?

Ogni tanto, e ultimamente per fortuna con sempre maggiore insistenza, si torna a parlare del fatto che le donne guadagnano meno degli uomini. Si chiama gender pay gap, o differenziale salariale di genere, e qualunque sia l'indagine presa a riferimento, i dati mostrano che ad oggi non esiste paese al mondo in cui sia stato eliminato. Ripeto: è un dato di fatto che in nessuna parte del mondo sia stata raggiunta la parità salariale.

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Ma in cosa consiste esattamente il gender pay gap? È quando un uomo e una donna hanno le stesse competenze, fanno lo stesso lavoro per lo stesso numero di ore, e l'uomo viene pagato di più? No, non solo. Certo, casi del genere esistono—anche in contesti come quello hollywoodiano, dove ci si immagina che le donne siano abbastanza ricche, potenti e famose da non correre rischi—ma molto spesso in queste situazioni la differenza salariale di genere ricade nell'ambito della discriminazione, ed è illegale.

La questione però è ben più ampia, complessa e sommersa, non si limita soltanto ai casi di ingiustizia più evidente, e non risparmia nessun settore. "[Per gender pay gap] si intende la differenza di retribuzione media oraria tra uomini e donne," spiega Luisa Rosti, professoressa di economia di genere all’università di Pavia. Quindi non si tratta esclusivamente del frutto della discriminazione che vedrebbe due individui identici in tutto e per tutto ricevere una paga diversa perché uno è maschio e una è femmina; ma della differenza di reddito media tra uomini e donne.

"Se gli uomini [nel mondo del lavoro] avessero un’età media di 40 anni e le donne di 20," prosegue Rosti, "non sarebbe strano che una persona più giovane guadagnasse meno di una con maggiore anzianità di servizio.” Così come non è strano che persone con titoli di studio diversi abbiano stipendi diversi. La differenza di paga oraria è però un dato statistico (solitamente calcolato da istituti e agenzie nazionali o internazionali) che racchiude in sé un quadro complesso: ci dice che la popolazione maschile e quella femminile guadagnano in media cifre diverse, partecipano al mondo del lavoro in modi diversi e vengono trattate in maniera diversa. Cerchiamo di capire perché.

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La divisione del lavoro e la "scelta" delle donne

Secondo l'esperienza comune, ma anche secondo i dati, le donne e gli uomini usano le loro giornate in maniera spesso diversa, e questo ha ripercussioni sui rispettivi redditi. “Mentre gli uomini passano più tempo delle donne nel lavoro di mercato, le donne ne passano molto più nel lavoro familiare [per la cura della casa e della famiglia], che non è retribuito,” osserva Rosti. Secondo i dati HESTU relativi a 15 paesi europei, in totale—tra mercato, casa e famiglia—le donne lavorano più ore degli uomini, soprattutto in Italia.

Ma non soffermiamoci sul fatto che questi dati rispecchiano il persistere di una divisione tradizionale dei compiti tra uomini e donne; e accantoniamo per un attimo anche il dato Istat secondo il quale il 60 percento del lavoro part-time femminile in Italia è involontario—ovvero le donne accettano i part-time perché non riescono a trovare lavori full-time. Quello che vediamo è che le donne guadagnano meno degli uomini perché lavorano meno ore per il mercato, dato che spesso portano a scuola i figli, puliscono la casa, si prendono cura degli anziani—rinunciando magari alle possibilità di promozione.

Le donne fanno cose "da femmine"

Se una donna sceglie di studiare per diventare maestra e un uomo sceglie ingegneria elettronica, non è sorprendente che poi uno guadagni più dell’altra. Le donne sono oltre la metà dei laureati in Italia, ma rappresentano "l’80 percento delle iscritte a facoltà considerate ‘da femmina’ [ovvero linguistiche, psicologiche e indirizzate all'insegnamento] e il 30 percento delle iscritte a quelle ‘da maschio’ [ovvero scientifiche],” fa notare Rosti.

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E gli stereotipi di genere non influenzano solo gli studi, ma anche la divisione del lavoro (dove le donne costituiscono il 48 percento degli occupati): "Nella categoria Istat dei ‘lavandai, stiratori a mano ed assimilati’, le donne sono l’80 percento. Se prendiamo le professioni qualificate nei servizi sanitari, come quelle di assistente alla poltrona o massaggiatrice, le donne sono oltre l’80 percento,” osserva Rosti. Che aggiunge: "‘Le donne non capiscono il computer’, l’hai mai sentita questa? Tra i tecnici informatici, l’84 percento sono uomini."

Il soffitto di cristallo

Il problema più evidente è che maggiori sono il potere, il prestigio e la retribuzione di una posizione lavorativa, più il numero di donne che la occupano diminuisce: è il fenomeno del ‘soffitto di cristallo’.

Facciamo un esempio nel settore dell’insegnamento, dove le donne sono la maggioranza. Mettiamo che alle donne piaccia davvero insegnare più che agli uomini, e diamo per scontata una parità di formazione a riguardo. Rosti fa notare che mentre nella scuola pre-primaria gli insegnanti sono quasi tutte donne, salendo di livello la percentuale si inverte. “Le donne sono la maggioranza dei laureati, e hanno voti più alti degli uomini al momento della laurea—in una professione in cui essere bravi a scuola non dovrebbe essere proprio irrilevante,” commenta. “Eppure già tra i ricercatori diventano una minoranza [non raggiungono il 50 percento]; al livello di professore associato la quota cala ancora; e scende addirittura al 20 percento nella posizione apicale dell’insegnamento, quella di professore ordinario,” spiega Rosti.

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La psicologia della discriminazione di genere

Gli psicologi sociali e cognitivisti hanno dimostrato ampiamente che l’influenza dello stereotipo di genere porta a sottovalutare le competenze della donna e a sopravvalutare quelle dell’uomo in un possibile ruolo dirigenziale. Uno degli esperimenti più celebri è stato quello condotto già vent'anni fa da due ricercatori americani, Biernat e Kobrynowicz, sui processi di assunzioni e promozioni lavorative. “[Con questo esperimento] si voleva verificare lo stereotipo think manager, think male—che un buon capo deve essere maschio e che le donne non sanno comandare, che sono più portate alla comprensione ma non sono razionali, che si fanno condizionare dai sentimenti, che gli uomini sono più logici,” spiega Rosti. “Di fronte allo stesso curriculum, le competenze sono valutate il doppio per Mario e la metà per Maria.” Allo stesso modo, nella competizione per la posizione di segretaria, sono gli uomini a essere risultati penalizzati.

Ecco dunque che a parità di altre condizioni corrisponde una disparità di trattamento. Va da sé quali ripercussioni possa avere tutto questo: “Se pensiamo a una cattedra universitaria, chiunque si sieda a quella cattedra prende la somma di denaro prevista per essa," spiega Rosti. "Ma questo non esclude che per una donna ottenere quella cattedra sia molto più difficile.”

La situazione italiana

Dando una prima occhiata alle statistiche Eurostat sulla differenza grezza di paga oraria tra uomini e donne, sembrerebbe che l'Italia abbia un gender pay gap del 6 percento, molto inferiore alla media europea del 16 percento. Peccato che non sia proprio così. “[Questo dato] dipende dal fatto che l’Italia ha una partecipazione femminile minima al mercato del lavoro,” commenta Rosti.

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Il dato Eurostat, continua, è quindi irreale poiché mette a confronto "due aggregati, uno dei quali vede una partecipazione molto più limitata rispetto al totale delle donne. In Italia abbiamo circa 8 milioni di casalinghe." E se al mercato del lavoro partecipano soltanto le persone con un reddito più alto, il gender gap si riduce. Per questo motivo, per agevolare una corretta interpretazione dei dati grezzi, l'Eurostat prende in considerazione anche il numero delle ore lavorate e del tasso di occupazione. Il dato elaborato si chiama differenziale totale, e quello italiano è del 43 percento, contro il 37 percento europeo.

"Questi problemi non esistono più"

I risultati di un questionario compilato dai top manager del nostro paese mostrano una grande consapevolezza delle differenze di genere tra chi guida le aziende. “Tre quarti dei manager, uomini e donne, affermano che ci sono disparità e la sensazione diffusa è che gli altri paesi abbiano politiche più efficaci sul tema,” dice Rosti. Ma fuori dagli uffici dirigenziali le convinzioni sono altre. Un’indagine sul gender pay gap dell’ISFOL rivela che uomini e donne non la pensano allo stesso modo: “Le donne attribuiscono questa differenza [di retribuzione] al numero di ore lavorate: fanno assenze per maternità e cura dei familiari, e sono meno disponibili a fare straordinari,” commenta Rosti. “Quello che mi sconcerta è che tra gli uomini c’è un 25 percento che dice che sono problemi ormai superati. Significa che no, non c’è tutta questa consapevolezza."

Cosa può e deve cambiare

Si parla tanto delle nuove leggi approvate in Islanda e in Germania per raggiungere la parità salariale tra uomini e donne, ma anche in Italia qualcosa potrebbe effettivamente muoversi. Se non altro, le ingiustizie potrebbero cominciare a venire allo scoperto. Dal 2017 è infatti entrata in vigore nel nostro paese la direttiva europea sulla non financial disclosure, che chiede alle maggiori aziende italiane di comunicare i dati relativi alla diversità del personale. Secondo Rosti, la resistenza che però persiste nel diffondere queste informazioni è basata sulla confusione tra discriminazione illegale tout court e differenziale.

“La maggior parte delle persone non vogliono discriminare. Quello che non hanno capito è che il portato dello stereotipo è tale per cui la discriminazione è inconsapevole,” spiega Rosti. E proprio riconoscere e riparare le ingiustizie è il primo doveroso passo, ma il lavoro non finisce qui. Se il sistema non permette alle donne di raggiungere certe posizioni, se la cultura limita le loro aspirazioni in certi settori, se l’azione degli stereotipi ostacola lo sviluppo del loro talento, è necessario mettere in atto politiche adeguate in questo senso. Ne va del capitale umano di una società, che è anche la principale risorsa delle nostre economie moderne.

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