Abbiamo intervistato Christian Savill degli Slowdive, veterano shoegaze
Foto di Ingrid Pop, per gentile concessione di DNA Concerti

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Musica

Abbiamo intervistato Christian Savill degli Slowdive, veterano shoegaze

Ha due figli e due gatti che non vanno d'accordo, dev'essere per questo che non vede l'ora di tornare a suonare in Italia il 3 e 4 marzo.

Quando a diciassette anni ascoltai per la prima volta Just For A Day, su consiglio di un amico cui avevo raccontato tutto fiero di aver da poco ordinato il vinile di Loveless dei My Bloody Valentine, la mia vita cambiò. Nella mia adolescenza difficilmente trovava spazio musica che non andasse ad almeno 250 bpm con un cantante che più che come un uomo si esprimesse come un maialetto sardo il giorno della mattanza, per cui quanto mi sarei mai potuto interessare a dei sognatori di Reading tutti introspettivi che cantavano della brezza frescolina in un giorno di pioggia? Ci vollero ben quattro canzoni, più o meno fino ad “Erik’s Song”, perché quella lagna fatta di layer di chitarre ed eterei mugugni diventasse uno dei dischi più importanti della mia esistenza.

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Oltre ad aprirmi le porte di un nuovo mondo musicale (per quanto sia MBV che Slowdive suonino shoegaze, tra modi, idee e contestualizzazione degli uni e degli altri c’è una differenza abissale, profondissima e incolmabile), l’incontro con gli Slowdive mi fece comprendere come sensibilità e malinconia non dovessero inevitabilmente essere delle debolezze, ma potessero trasformarsi in una forza, una chiave di lettura del mondo attraverso cui apprezzare una nuova infinità di sfumature. I due album successivi che recuperai subito dopo, pur se uno splendido (Souvlaki, 1993) e uno molto bello (Pygmalion, 1995) non mi turbarono in profondità quanto il debutto del 1991, ma ormai il danno era fatto, e gli Slowdive sarebbero sempre rimasti uno dei miei gruppi preferiti.

Gli anni sono passati, non ne ho più diciassette e ho iniziato a sviluppare una consapevolezza diversa (adulta?), ma quando il quintetto ha annunciato un tour di ripresa delle attività nulla ha potuto impedirmi di macinare 400 chilometri a tratta per finire in un improbabile anfratto della campagna pordenonese e scoprire cosa fosse successo in quasi vent’anni di inattività. Altri tre anni dopo, ho avuto la possibilità di parlare con Christian Savill, una delle tre chitarre più dreamy d’Inghilterra, in occasione dell’ultima parte del loro tour mondiale a supporto di Slowdive, l’album del ritorno uscito la scorsa primavera, a ventidue anni di distanza da Pygmalion.

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Va' a vedere gli Slowdive dal vivo:
3 marzo 2018, Locomotiv club, Bologna - sold out
4 marzo 2018, Alcatraz, Milano - biglietti

Ciao Chris, grazie per aver accettato di fare quattro chiacchiere. Sarete di nuovo in Italia per altre due date a breve, che insieme a quella di settembre fanno tre nell’arco di meno di sei mesi, cosa vi spinge qui così spesso?
Fondamentalmente ci piace l’Italia. È il tipo di posto dove vogliamo andare, quando non siamo impegnati con la band. Quindi ogni proposta che ci arriva per suonare dalle vostre parti la accettiamo, indipendentemente da tutto o quasi.

Così si spiega il fatto che siate finiti a suonare alla Sagra della Musica di Azzano X (PN) un paio di estati fa, allora.
Uhm… Era quel paesino dove suonammo con le Savages?

Proprio quello.
Sì, sì, ricordo che io e Nick [Chaplin, il bassista] eravamo a zonzo per il paese e a un certo punto ci siamo detti “ok, dobbiamo andare a suonare”, ma non ne avevamo la minima intenzione, avremmo voluto rimanere seduti in un bar e fare i turisti. Ci siamo dovuti sforzare per ricordarci che non eravamo lì in vacanza.

A proposito di vacanze: che progetti avete per il medio termine? Nell’immediato immagino che il tour occupi gran parte del tempo, ma avete già pensato a cosa verrà dopo?
Beh, da quando è uscito Slowdive, a maggio, siamo stati praticamente sempre in tour. Ci siamo presi qualche pausa qua e là, ma siamo sempre stati impegnati. Abbiamo finito l’ultima tranche di date in Giappone prima di Natale, siamo rientrati per stare un po’ a casa, in famiglia, e tra un paio di settimane partiamo per l’Australia. Fino ad oggi non abbiamo avuto la possibilità di prenderci del tempo per decidere davvero cosa vogliamo fare a causa del tour. Ma va bene così, è bellissimo che dopo quasi un anno ci sia ancora gente che vuole vederci, che viene ai nostri concerti.

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Da una serie di esibizioni così intensa che tipo di riscontri state portando a casa? Com’è stato recepito il disco nuovo?
Tutto quello che abbiamo vissuto è stato splendido. Sai, avevamo un disco pronto e ne eravamo soddisfatti, ma c’era sempre quell’insicurezza di fondo, perché il fatto che piacesse a noi non significava assolutamente che sarebbe piaciuto a qualcun altro. Alla fine l’abbiamo fatto uscire, curiosi di vedere cosa sarebbe successo. Ed è piaciuto. L’album ha avuto dei riscontri quasi sempre positivi, il pubblico, dovunque abbiamo suonato, ha apprezzato il materiale nuovo e ha risposto benissimo durante i concerti. Da che abbiamo ricominciato a suonare insieme è stato tutto… [ci pensa su per un po’] non saprei, davvero, è stato tutto… Incredibile.

Buono a sapersi, dopo tutti quegli anni in cui non avete suonato insiem…
Emmett, no. Scusa, mio figlio ha tirato un calcio al gatto.

Ah. Dicevo, come siete arrivati alla conclusione di voler fare un nuovo album, dopo ventidue anni?
Beh, parte della decisione di tornare insieme fu EMMETT METTI SUBITO GIÙ IL GATTO!, parte della decisione fu che saremmo tornati una band a tutti gli effetti, non volevamo fare soltanto tour commemorativi suonando roba vecchia. L’aspetto più interessante dell’essere in una band per noi è sempre stato la parte creativa, scrivere la musica. Solo che a noi ci è voluto un sacco per fare un album, tutto qui. Parte della responsabilità va anche imputata al numero di concerti che abbiamo suonato: quando ci siamo riformati l’idea era di fare una manciata di date per vedere come sarebbe andata, pensavamo a dieci, dodici esibizioni. È andata a finire che ne abbiamo fatte più di cinquanta.

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E qual è la differenza più sensibile, per te, tra come state vivendo gli Slowdive oggi e come li vivevate all’epoca? Sia come musicisti che come persone, perché il mondo è cambiato, l’internet, la musica, bla bla bla, ma anche e soprattutto perché alla fine nel novantuno avevate vent’anni e oggi siete padri di famiglia con gatti in pericolo.
Beh, una delle cose principali l’hai già detta tu: quando cominciammo, i ragazzini eravamo noi. Eravamo dei ragazzi che suonavano. Oggi, al contrario, suoniamo per i ragazzi. Questa è stata una sorpresa, perché all’inizio non avevamo bene idea di chi si sarebbe potuto presentare ai nostri concerti dopo vent’anni, ma ci aspettavamo persone della nostra età; invece, inaspettatamente, il pubblico nelle prime file ad ogni concerto è sempre composto da ragazzi giovani, e per noi è fantastico. Ancora, oggi rispetto agli anni Novanta suoniamo davanti a molta più gente. Infine, ed è un’altra differenza sostanziale: oggi tutti hanno sempre il cellulare in mano. E questo ovviamente all’epoca non succedeva. Oggi tutti fanno foto, filmano, caricano su YouTube, eccetera eccetera. La gente vive i concerti in un modo completamente diverso da come li viveva venti, trent’anni fa.

Vero, ma anche solo rispetto a dieci o quindici. E per voi personalmente invece, cosa è cambiato?
Noi ci divertiamo ancora, ma rispetto a prima siamo molto più rilassati. Ci prendiamo il tempo che ci serve, senza la smania di dover dimostrare qualcosa a qualcuno. Questo ci permette di essere molto più tranquilli e consapevoli. Non siamo in competizione con nessuno, ci limitiamo a suonare la nostra musica e tanto ci basta. Siamo fortunati, oggi siamo nella posizione di poter decidere quando scrivere un disco, di poter scegliere se accettare una data oppure rifiutare una parte di tour. Siamo in controllo di ciò che facciamo, ed è molto bello.

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Spostandoci sulla musica: fin dal ritorno in studio dei My Bloody Valentine, è come se lo shoegaze fosse tornato in auge. Reunion, formazioni inattive da decenni che tornano in studio, solo l’anno scorso siete usciti quasi contemporaneamente con un nuovo lavoro sia voi che i Ride. Come ti spieghi questa cosa?
Sicuramente internet è una delle ragioni principali, ma non solo. C’è anche stato un numero di gruppi che, dagli anni Novanta, è diventato abbastanza famoso e che all’interno della propria musica presentava una serie di elementi shoegaze. Prendi i Beach House, o M83, che hanno dichiaratamente ammesso le proprie influenze shoegaze; a noi questo ha fatto gioco, perché i fan di questi gruppi pian piano sono risaliti alle origini di quei suoni. “Toh, vediamo un po’ chi sono questi Slowdive che facevano shoegaze”, penso sia così che i giovani hanno conosciuto noi, i Ride e tutti gli altri. È sempre stato così. Quando ero un ragazzino ascoltavo i Jesus And Mary Chain prima di sapere chi fossero gli Stooges. Fu solo appassionandomi ai primi, seguendoli, leggendo le loro interviste, che scoprii che a loro volta arrivavano dagli Stooges. Non sto paragonando gli Slowdive agli Stooges eh, non fraintendermi, gli Stooges sono una leggenda, è un esempio. Però è così che funziona, e con la pervasività di internet oggi questo effetto è ancora più accentuato.

È un discorso interessante, sei uno dei pochi artisti con cui ho parlato che nomina internet come una delle ragioni della propria fama. Quasi tutti si lamentano sempre del fatto che non si vendano più dischi, che la gente scarichi gli mp3, che internet abbia rovinato la musica e tutte queste cose, mentre non considerano mai l’aspetto che invece genera ritorno, ossia di come internet abbia permesso un’enorme diffusione della loro musica. Posto che sono vere entrambe le cose, intendiamoci.
No. No. Lascia stare il gatto. Ecco, sì, stavo proprio per dirlo: sono due facce della stessa medaglia. Solo che ho due bimbi e due gatti che stanno facendo amicizia ed è un casino. Comunque, sì, internet non è certamente l’unica ragione che ci ha permesso di suonare nel 2018, ma sarebbe ingenuo dire che non ha avuto parte in tutto questo, per quanto sia allo stesso tempo “colpevole” delle scarse vendite dei dischi e tutto il resto. Tutti possono arrivare a noi, che è un bene, ma allo stesso tempo tutti si aspettano di poter fruire della nostra musica gratis, che è un male, perché qualche soldo lo dobbiamo pur fare anche noi per andare avanti.

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C’è di buono che il vinile ormai è definitivamente tornato di moda…
Sì, sì, vinili ne vendiamo, anzi, ai concerti non ci portiamo neanche dietro i CD, vendiamo solo LP. Mi pare. Oddio, sai che non me lo ricordo. [A questo punto Chris fa una pausa e si sente l’urlo lancinante di uno dei bimbi, probabilmente a questo punto assalito dal povero gatto ormai esausto.]

Ultima domanda e poi ti lascio andare, che la situazione sembra sul punto di diventare drammatica: quando finirà il tour? E soprattutto, anche se non avete ancora un piano preciso, ci sarà un altro album?
Il tour si concluderà a fine marzo, poi ci prenderemo un po’ di pausa fino alla stagione estiva, dove suoneremo a qualche festival, ma non tanti. Anche perché a quel punto dovremo prenderci una pausa, ma dopo l’estate inizieremo a lavorare. Sì, vorremmo tutti fare un nuovo album, però non vogliamo forzare la cosa, ci prenderemo tutto il tempo necessario e lo scriveremo al momento giusto.

Senza fretta, d’altronde ci avete messo ventidue anni per scrivere questo…
No, no [ride], sicuramente stavolta non ci vorrà così tanto, tra ventidue anni saremo troppo vecchi, non abbiamo così tanto tempo a disposizione.

Andrea è uno dei Lord di Aristocrazia Webzine.

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