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Musica

Danny Brown il peso massimo

È il momento della verità per il rapper di Detroit. A chi chiedeva che fine avesse fatto il vecchio Danny, ha risposto con un album intitolato "Old"

Danny Brown tiene in mano un bicchiere di Hennessy doppio, mentre si avvia al palco su cui dovrà suonare al Rock The Bells di Los Angeles, a bordo di una di quelle macchinine da golf scrause. Ne salta fuori non appena raggiungiamo il palco, sostenendo di non averne fatto cascare neanche un goccio. “Merda da rockstar,” mugugna. Alto un metro e novanta, con una cesta di capelli crespi e sparati in aria e un dente mancante, non puoi non notarlo. Gli altri rapper camminano con rabbia, o con il petto all’infuori come se dovessero dimostrare qualcosa, ma Danny lascia ciondolare le braccia e riceve lo stesso fist bump da chiunque incroci.

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Manca poco al suo live, e sta camminando su e giù. Quando chiedo al manager se è nervoso, mi assicura di no, specificandomi che ha fatto centinaia di concerti, quest’anno, da solo e in giro per il mondo. Gli chiedo come faccia ad avere tutte quelle energie, e lui ammette che è una bella domanda. Danny si siede e guarda il pubblico, fino a quando non arriva il suo turno e in migliaia si radunano lì sotto per lui. Sorseggia il suo Hennessy, esce, si schiarisce la voce e parte il casino.

Salta da una parte all’altra del palco, lui e i suoi indomabili capelli. Calcia e si dimena scuotendo la testa e se avesse addosso una chitarra, l’avrebbe già distrutta. La folla intona: “What she won’t do / BITCH I WILL.” Un ragazzino ciccione a un certo punto urla, “Don’t let me into my zone” mentre rimane vittima del marasma da sottopalco. Dopo “Blunt After Blunt”, singolo di XXX del 2011, si rivolge a Skywlkr, il suo DJ, e con gli occhi ribaltati beve un altro po’ di Hennessy.

Si strappa la maglia di dosso e tracanna litri e litri di acqua. La maglia a maniche lunghe in pelle nera non è stata una scelta pratica. Dietro il palco, sul suo furgoncino, qualcuno mi parla dell’energia del pubblico. “È Danny Brown,” mi dice. “Non ci sono vie di mezzo per i fan di Danny. O lo ami o lo odi. È semplicemente così.”

Questa è la storia della carriera di Danny fino ad oggi: i suoi vent’anni sono stati segnati da una serie di mixtape chiamati Detroit State of Mind, usciti grazie ad accosti. Intrescava con Roc-A-Fella e la G-Unit. È finito in prigione nel 2006 per violazione di libertà vigilata, beccandosi otto mesi agli atti. Nonostante aver rinunciato alla trattazione della pena, appena uscito di lì ha venduto erba per finanziarsi Hot Soup, album del 2008 che fu la scintilla per la sua carriera. È andato avanti poi con The Hybrid, uscito nel 2010, suo primo album in studio, e infine è arrivata la firma con la Fool’s Gold Records, che ha prodotto XXX.

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Gli ci sono voluti otto anni di false partenze, ma XXX è stato l’album che lo ha trasformato da rapper locale di Detroit alla personaggio di fama internazionale. SPIN lo ha classificato miglior album hip-hop del 2011, e Pitchfork ha detto che era anche meglio di Watch The Throne. È stata una crescita meravigliosa, e quest’anno ha gestito una personalissima rubrica di moda su GQ, suonato in un tour senza soste, e firmato per l’agenzia di management di Eminem e Blink 182.

XXX è frenetico, ha energia da far invidia all’Adderall, e i frequenti punch line raccontano come è arrivato fin lì: non c’è da dire niente sulla forza dei suoi testi, ma pezzi come “Blunt After Blunt,” il singolo di cui è apparentemente stufo, mandano fuori di testa le folle. La sua arma è semplice: “I smoke blunt after blunt after blunt.”

Anche questo disco ha la sua buona dose di storie di Detroit, un marchio di produzione di Danny—tipo “Scrap or Die,” che parla di quando rubava il rame dalle case solo per mangiare. Erano facili da ignorare se affiancate a battute divertenti e al sesso. Ma Danny ha smesso. Vuole farci conoscere la verità: ci sono cose che ha visto, crescendo a Detroit, e non può fare finta di niente, le due persone che più ama, sua figlia e sua madre, sono prigioniere di quella difficile realtà che è la sua città natale mentre lui fa festa in giro per il mondo. Non ridiamo più dei blunt. In Old, sbatte in faccia a tutti questi temi, con risultati palesemente terrificanti.

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Il disco si chiama Old perché la gente continuava a chiedere che fine aveva fatto il “vecchio Danny Brown,” intendendo quello precedente a XXX. Quello che hanno ottenuto è stato un esorcismo di atroci memorie e senso di colpa per la famiglia. Ecco qualche differenza: XXX aveva un’intera canzone dedicata all cunnilingus. In Old, si parla di come Danny ha visto un cane fare un cunnilingus per volere di un Narcos. Si parla di persone colpite alla testa nelle sparatorie, e di quando a sette anni vide un tipo bruciarsi il labbro superiore fumando crack da un fornello.

“Ho incubi di continuo,” mi dice. “Sogni in cui sono nel quartiere. È il 1999, non è neanche una brutta giornata, succede che qualcuno mi spara o io vado in prigione. Un tranquillo giorno nel quartiere. Sto scontando la pena, e cerco di capire come avrei fatto a mangiare, fumare, come avrei impiegato il mio tempo. Poi mi sveglio e il mio letto è completamente fradicio di sudore, mi fumo un milione di canne per calmarmi, mi bevo un po’ di lean. Terrorizzato. Cazzo. Sono Danny Brown.”

In “Clean Up,” racconta lo stress da distanza familiare, con descrizioni dei suoi festini con droghe e sesso in camere di hotel, mentre sua figlia gli manda messaggi in cui gli scrive che gli manca. Parla di come si è comprato maglie che avrebbero potuto sfamare suo nipote per una settimana, e mi dice che può mandare ventimila dollari a sua madre in un batter d’occhio, ma si rente conto che in fondo non valgono niente se lui non è lì. E se non si occupa lui stesso di spostare sua madre da quel quartiere e di comprargli una casa, lei non lo farà. È quello il suo obiettivo: restituire a tutta la sua famiglia la vita che merita. Ma la sua famiglia è complicata, lo è sempre stata.

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“Detroit è un inferno,” mi dice. “Mio fratello è barbiere, mi taglia i capelli, ma è anche infermiere. Quando avevo vent’anni, l’altro mio fratello—il più sveglio della famiglia, è andato al college, ma noi lo abbiamo protetto e ne è uscito più che bene. Ora ha un figlio e ce la sta facendo. Mia sorella, stessa cosa, ha avuto un figlio da molto giovane. Mia sorella più grande ha sette bambini. Non è mia sorella biologica, ma mia mamma se ne prendeva cura di continuo quando sua madre andava a spacciare, poi sia lei che il padre rimasero uccisi e mamma l’adottò. Così ho sette nipoti e nipotine. La mia nipote più grande ha avuto un bambino a quattordici anni. Il mio nipote più grande, a tredici, deve già stare in carcere un anno.”

Seguono la sua musica? “Non ne sanno un cazzo della mia musica,” dice scuotendo la testa. “Non hanno internet da quelle parti.” E lui vorrebbe? Esita. “Be’, è tipo… no,” conclude. “Non mi interessa.”

In Old continua a ripetere che ha bisogno di un terapista, che lo stress della sua fama sta degenerando in depressione, che nessuno lo capisce. Ma il rap è la sua terapia, e le droghe i medicamenti. Dice che il suo consumo è moderato, che, “Le droghe non hanno su di me lo stesso effetto che hanno sugli altri.” Sia Lil Wayne che Gucci Mane si sono sottoposti a trattamenti per eccessivo uso di codeina, quest’anno. Dà dipendenza. Le memorie di Danny non vanno troppo lontano. Quanto c’è davvero sotto lo sa solo lui.

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Old, e la vita di Danny in generale, sono delineati dalla presenza e l’uso di droghe: son sempre state lì mentre cresceva, le ha vendute da giovane, e ora le usa per tirare avanti, suonare e rapportarsi col proprio passato. Quando gli chiedo se le droghe sono un problema, non ne sbaglia una. “Si, sicuramente,” dice.

L’A-side di Old (è diviso come i vinili, segno del suo attaccamento alla tradizione e alla coerenza) è il suo Illimatic, mi spiega, e la B-side ne è una celebrazione. Il paragone calza: Nas, all’apice della sua carriera, flirtava con questa immagine misteriosa facendo uscire album ogni due anni. Illmatic raccontava cosa voleva dire crescere a New York, scrivere lettere agli amici in carcere e la lotta quotidiana per stare fuori dai giri sbagliati.

Danny ha lavorato a Old per due anni, selettivo tanto per beat quanto per le parole. Con XXX diceva di aver scritto canzoni in quindici minuti, ma per Old ha impiegato mesi. È il suo album più raffinato e personale fino ad ora, e senza dubbio vedrà l’approvazione della critica, ma dividerà i suoi fan. Mi dice che sarà una prova del potere della sua carriera. “Se alla gente non piace, è finita,” dice. “È come essere un pugile. Una volta che mi hanno mandato K.O., la posso anche smettere. Mi alzerò e combatterò ancora, ma saprete tutti che sono stato messo K.O.”

Nomina spesso il padre come sua prima fonte di influenze, lo ha introdotto agli A Tribe Called Quest e al Wu-Tang Clan quando era giovane. Ha cominciato a rimare e a parlare allo stesso tempo. È un dono, e a portarlo fin qui è stato il lavoro duro, fin da giovane, con l’impegno di alimentare questa dedizione al mestiere. È sopravvissuto allo spaventoso abisso di povertà di Detroit. Per affrontarne le conseguenze, però, servirà tutta la vita.

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“Credo in Dio,” mi dice. “È lui che prego quando mi metto nei casini, e ho pregato anche per questo disco. Ogni notte, prima di addormentarmi, gli chiedo di fare sì che piaccia alla gente.”

Abbiamo parlatp per più di un’ora seduti su una panchina da picnic appena fuori dal suo furgoncino. Arriva Freddie Gibbs, gli piazza una pasticca di ecstasy in mano, e Danny la manda giù con l’Hennessy. È ancora senza maglia e sta sudando.

“Le droghe servono a qualcosa nella vita,” dice. “Tutto serve a qualcosa.”

Chiedo qual è stato il miglior momento della sua vita, o quale lo sarà.

“Non lo so,” risponde. “Questo ti fa capire quanto sia una persona triste, perché non riesco a pensare a qualcosa di felice.”

“Che ne dici di tua mamma sistemata, e tu che puoi finalmente ripensare a tutto quello che hai fatto?” chiedo.

“Si, figo.” dice. “Ma quello è il minimo. È per quello che sono stato messo al mondo.”

Fissa il vuoto. Skywlkr sta fumando il secondo cannone che si erano divisi quando abbiamo cominciato a parlare. “Non credo davvero di aver mai vissuto il momento più felice della mia vita,” mi confida. “Assurdo eh?”