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Musica

Ho imparato ad amare la drum and bass in un giorno solo

Prova anche tu la playlist che mi ha fatto superare quasi tutti i miei pregiudizi. Quasi.

A cosa pensi quando pensi alla drum and bass? Io pensavo a sudore, bianchi con i dreadlock sporchi, magliette marroni, denti gialli, il vago odore di saliva mescolata a fango, tipi di nome Kevin, la parola "strippo", Chewbecca, tabacco Virginia giallo, muffa, lenzuola impregnate di deodorante, cittadine di campagna, alloggi per studenti, il film Snatch ed erba di pessima qualità. Ora, però, sono un uomo nuovo.

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Qualche tempo fa ho deciso che se devo scrivere di musica elettronica per lavoro, cosa che faccio, allora devo accogliere l'inaccoglibile tra le mie orecchie. Mi sono detto che non avrei potuto permettermi di passare il resto della mia vita con la testa sotto la sabbia, scartando a priori interi generi musicali senza battere ciglio come un quattordicenne rancoroso e vecchio dentro. Ho dovuto imparare ad amare aggrotech, dubstep e neurofunk perché altrimenti scansare il raggacore o l'handbag house o il cybergrind sarebbe stato come un critico culinario a cui non piacciono le melanzane o l'anice stellato, o un critico d'arte che "non capisce tutto l'interesse" per i quadri a olio o le sculture. È per questo che ho deciso di tentare di farmi piacere la drum and bass.

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Armato di quattro lattine di Burn, un pacco famiglia di salatini e un enorme senso di apprensione, mi sono approntato ad ascoltare l'intera Top 50 dei dischi drum and bass secondo Jockey Slut. Perché proprio quella classifica? Perché avevo una vecchia copia della rivista di fronte a me e una connessione internet, e la missione che mi ero assegnato era già talmente arbitraria che un ulteriore elemento di arbitrarietà non avrebbe fatto la differenza. E poi sembrava anche abbastanza ben fatta. Ho riconosciuto nomi come DJ Krust e Peshay dagli aggiornamenti di stato su Facebook postati da gente con cui andavo a scuola e che ha subito la trasformazione da normale studente a entità chiamata Spirit Inthesky, e se andava bene per Woody Warlock andava bene anche per me. Ho finito per innamorarmi? Lo scoprirete continuando a leggere. Se volete provarci anche voi, la playlist è qua sotto.

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Le cose sono iniziate in modo abbastanza normale con la tranquilla "Pulp Fiction" di Alex Reece, che suona… be', drum and bass. Quel tipo di drum and bass con quei sassofoni super pacchiani—quel tipo di drum and bass che mi fa sempre venire in mente negozi di dischi pessimi e gente che va matta per Spaced. Quello, però, è un problema mio. Non posso incolpare Alex Reece di questa cosa. Non è colpa sua che io mi porti in testa questi paragoni poco lusinghieri, questi schemi limitanti, queste associazioni infelici. Per cui l'ho riascoltata, meglio. L'ho riascoltata cinque volte e, pur non avendo avuto alcuna Grande Epifania, mi sono ritrovato a pensare: "oh, non è niente male, anzi, si ascolta volentieri". E, se esiste un complimento più alto per un disco, io non lo conosco.

Per un po' le tracce sono andate e venute—"Shadow Boxing" di Nasty Habits è stata molto piacevole, "Acid Track" di Dilinja mi ha spaventato in senso positivo—e seppur parte di me abbia continuato a pensare che sarebbe stato meglio ascoltare disco polacca o una "Behind the Waterfall" di David Lanz & Paul Speer, un'altra piccola, piccolissima parte mi ha suggerito che forse non avevo capito per nulla la drum and bass. Che fosse così? No, impossibile. Non mi posso essere sbagliato. Vero?

Be', invece sì. Avevo torto. Per anni mi sono detto che la drum and bass era una riserva musicale per quel tipo di persona che non sarei mai voluto diventare. Non appena sentivo le parole "drum and bass" e "party" usate in congiunzione l'una all'altra mi veniva l'orticaria, ero terrorizzato da quello che pensavo sarebbe successo in quei rave—e venivano sempre chiamati "rave", una parola che mi ha sempre dato i brividi. Mi immaginavo stanze che emanavano un odore talmente intenso da essere percepibile dallo spazio, piene di uomini scheletrici in tuta in preda alle convulsioni ballando canzoni della colonna sonora di Ali G in da USAiii. Quando cercavo di immaginarmi il futuro peggiore, mi immaginavo uno stivale Cyberdog che pestava una canna mal rollata per l'eternità. In una serata chiamata SkrewFayce.

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Che gran mucchio di stronzate. Che modo infantile di vedere il mondo e le altre persone e i loro svaghi e piaceri. Quanto narcisismo e quanta indifferenza. Mentre mi scolavo la mia bella lattina di acqua e zucchero energizzante ("Burn è il carburante per chi vive nel presente e segue le proprie passioni, non importa se grandi o piccole!") ed entravo nel terzo ascolto di fila di "Nico" di Ed Rush, sono quasi scoppiato a piangere grosse e pesanti lacrime di rimorso alla taurina. Mi ero sempre negato così tanto piacere, impedito a me stesso di esplorare nuove profondità musicali, inibendo di fatto la mia stessa crescita artistica per mantenere una supposta reputazione online. Quanto tempo sprecato.

Con il passare delle tracce, questi attacchi veloci e furiosi di devastazione a 160bpm, formule magiche intricate captate da un altro universo, un universo dove il goffo e rigido incedere a 4/4 della house e della techno è visto con sospetto, mi sono sentito cadere sempre più in profondità nella tana del Bianconiglio. Mi sono ritrovato a ingozzarmi di video di vecchie feste su YouTube, a ricercare ossessivamente flyer e poster, a rotolare nei fogli di plastica che avvolgevano i pacchi di cassette comprati d'istinto. All'improvviso indosso un bomber Metalheadz e sto dicendo a Goldie quanto lo ammiro. Vado al pub con LTJ Bukem e i ragazzi di 4 Hero e lì condividiamo un sacchettone di patatine e le nostre opinioni sui dischi Reinforced.

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Dall'assalto metallico di "Circles" di Adam F (dal sapore stranamente natalizio) fino alla velocità e leggerezza da colibrì di "Bambaata" di Shy FX, fino all'atmosfera sognante da wine bar di "How You Make Me Feel" di Marcus Intalex e alla pesantezza di "Heat" di Wax Doctor, stavo scoprendo una gemma dopo l'altra, contento come un bambino di vivere in un'epoca dove da una traccia può scaturire un banchetto musicale da sette ore. Essendo abituato al sopramenzionato senso di rigidità su cui si fondano le nicchie a cui sono abituato, è stata una vera delizia ritrovarmi a muovere la testa ascoltando qualcosa di mutante e riflessivo, angolare e spesso profondamente strano. Certo, ci sono stati momenti in cui il pensiero di un'altra linea di basso sporca e sfilacciata mi ha quasi spinto a cercare rifugio in un mix di Marcel Dettmann e sì, magari c'era qualche sassofono di troppo nella lista di Jockey Slut—tutti sanno che il sassofono è lo strumento del diavolo—ma ho resistito e sono arrivato a riconoscere i miei torti passati, come ascoltatore e come persona.

In un solo giorno sono stato costretto a ripensare tutto quello che credevo di sapere sulla mia relazione con e verso una forma d'arte. E sono anche riuscito a finire tutta quella Burn. Sono andato a letto con un forte mal di stomaco ma molto, molto felice.