Il termine “slipstream” non è molto noto, ma la sua storia e il suo significato sono utili per ripercorrere l’epopea di uno dei dischi più importanti degli ultimi vent’anni, Kid A dei Radiohead, nonché quella della critica musicale. La parola venne coniata da Bruce Sterling sulle pagine del magazine “Science Fiction Eye” nel 1989, per introdurre “un tipo di scrittura che ti fa semplicemente sentire molto strano, in quel modo che solo la vita nel tardo ventesimo secolo può farti sentire, se sei una persona di una certa sensibilità”.
Sterling è annoverato tra i principali fondatori del movimento cyberpunk ma con “slipstream” ha definito un tipo di scrittura fantastica dai tratti strani e surreali, contrapposta alla realtà quotidiana. Un tipo di narrativa diventata che spinge la letteratura oltre la sua stessa superficie, una terra di mezzo delimitata da una parte dalla fantascienza e dall’altra dal mainstream più rassicurante.
Videos by VICE
A vent’anni di distanza, niente incarna meglio questa definizione della storia di Kid A dei Radiohead. Tanto che rivivere il processo attraverso cui l’iconico disco prese vita permette di ripercorrere tanto alcune questioni legate alla musica quanto riflettere sul linguaggio che la descrive: quello della critica musicale.
In questa storia, oltre a Thom Yorke, Jonny Greenwood, Colin Greenwood, Ed O’Brien e Philip Selway, i protagonisti vengono infatti da quell’altro mondo di mezzo, compreso tra blog e riviste indipendenti, che vent’anni fa ha cambiato giornalismo ed editoria. Per la precisione, vengono dalla rete, un pianeta che nel 2000 era ancora ben poco esplorato.
A vent’anni di distanza, niente incarna meglio il concetto di slipstream rispetto alla storia di Kid A dei Radiohead
Tra questi, ci sono Ryan Schreiber e Brent DiCrescenzo, due ragazzotti americani appena usciti dai rispettivi college. Schreiber, in particolare, è colui che fonda nel 1995 la webzine indipendente Turntable, a Minneapolis, nel Minnesota, che la trasformerà in Pitchfork Media grazie al trasloco degli uffici a Chicago e infine darà vita a Pitchfork. Nerd della tecnologia e appassionato di web radio, Schreiber aveva le idee chiare sin dal primo giorno: voleva ristabilire un rapporto diretto, schietto e persino cazzone con i lettori più giovani.
Il fatto è che un tempo chi si occupava di recensioni era tendenzialmente un compositore o musicologo, mentre il nuovo corso rese al contrario più libera e indipendente la voce giornalistica e il tone of voice di una testata, composta da critici che non avevano la minima intenzione di ergersi a paladini della verità sulla partitura, la grammatica musicale o il lessico della notazione. Per molti versi, si tratta di una svolta epocale, perché sin dallo storico Melody Maker, fondato nel 1926 nel Regno Unito, la vera rivoluzione che la critica musicale instaura è quella del dialogo con la middle-class e non solo, quindi, con un pubblico più colto e ricco,
A metà del secolo scorso, la rapida ascesa di testate come New Musical Express (NME), e successivamente Rolling Stone e SPIN negli Stati Uniti, conferma che la critica musicale è una tipologia giornalistica e una professione ben definite: da Lester Bengs fino ad arrivare a Simon Reynolds, la carta stampata cementifica un nuovo senso d’appartenenza tra il lettore e la voce dell’autore, prima ancora che con la testata per cui scrive. Motivo per cui, in uno scenario ancora in gestazione, trasformato dall’arrivo della rete tra la fine dei Novanta e l’inizio del nuovo secolo, farsi strada con una neonata webzine si trasforma davvero in un’impresa: sono le forumzone a dominare e gli articoli che si commentano sono sempre e solo quelli del magazine comprato in edicola.
Ryan Schreiber crede però fermamente che la forza comunicativa di internet sia il nuovo, grande punto di svolta per la musica e la critica musicale: nel 1998, appena due anni e mezzo dopo l’esordio di Pitchfork in rete, decide di rimpolpare la redazione e di avviarsi per una strada più istrionica. Brent DiCrescenzo, uno studente all’epoca poco più che ventenne, risponde a quella chiamata che, senza saperlo, avrebbe rappresentato il futuro di questo mestiere dal punto di vista del linguaggio e del metodo.
Tra gli articoli più particolari della “nuova critica musicale”, quello in cui DiCrescenzo immaginò di intrattenere uno scambio di email con Gesù per discutere di quanto facesse schifo Cobra and Phases Group Play Voltage in the Milky Night degli Stereolab.
“La sua voce era già molto ben sviluppata, e totalmente diversa da quella di chiunque altro”, ricorda Schreiber. È questo il motivo che lo spinse a fare di DiCrescenzo uno dei contributor più assidui e, progressivamente, lo star writer della redazione: qualcuno capace di spodestare la logica delle compagnie editoriali tradizionali e creare un vero e proprio nuovo vocabolario della critica musicale.
Pitchfork comincia a farsi conoscere davvero e afferma il suo originale linguaggio, trainato dalla conversational review, la recensione di un disco giostrata come un dialogo con il lettore o, in alcuni casi, con l’artista stesso. Tra le punte più particolari di questo filone, DiCrescenzo immaginò di intrattenere uno scambio di email con Gesù per discutere di quanto facesse schifo Cobra and Phases Group Play Voltage in the Milky Night degli Stereolab—che silurò con un sonoro 3.4 su 10—, si immaginò ad un contest per DJ a gareggiare contro i Basement Jaxx e fece la paternale a Moby, asserendo che Play fosse, letteralmente, “rock col preservativo”—capito il personaggio?
Si trattava di un espediente che metteva sullo stesso piano scrittore e lettore, in grado di suscitare più spaesamento di quanto non riuscisse, almeno all’inizio, a costituirsi come inversione di rotta rispetto a un giornalismo troppo “colto”. “I lettori non erano sicuri che le nostre recensioni fossero sincere o, al contrario, intrise di ironia,” precisa Schreiber, “il che andava bene: non lo sapevamo realmente neanche noi. [Pitchfork] non si faceva leggere come un magazine scritto da chi entrava in club esclusivi per frequentare gli Interpol. Era piuttosto dedicato alle persone rimaste fuori dal club a prendere in giro chi era entrato.”
Proprio a Di Crescenzo viene affidata, nell’autunno del 2000, la recensione di Kid A dei Radiohead, un album che trasudava l’evoluzione che l’entrata nel nuovo millennio voleva significare. Non a caso, è stato uno dei primi grandi album che la gente ha sperimentato online, dal buzz sui forum online ai leak su Napster che l’hanno preceduto, per non parlare, ovviamente, della fattura stessa del disco: tutto faceva presagire a una storia diversa dal resto—volendo portare il ragionamento all’estremo, si è trattato anche di un evento che ha inconsciamente anticipato la musica in streaming.
Kid A dei Radiohead è stato uno dei primi grandi album che la gente ha sperimentato online, dal buzz sui forum online ai leak su Napster che l’hanno preceduto.
Schreiber ci andò giù forte sin dal primo momento e dalle prime notizie, tra smentite e riservatezza assoluta, in uno dei climax promozionali più anomali della storia recente—soprattutto considerando che i Radiohead, dopo Ok Computer, si chiusero in studio senza far trapelare alcun indizio su cosa avrebbero fatto della loro carriera, rifiutando espressamente di realizzare una campagna promozionale per il nuovo disco.
Da fanatico della band britannica, Schreiber calcola nel minimo dettaglio il lancio di quella che sarebbe diventata la review più controversa e chiacchierata della storia della rete: la settimana precedente al 2 Ottobre 2000 ogni sezione di Pitchfork spinge contenuti che anticipano Kid A, vengono inoltre contattati siti dedicati e forumzone dei Radiohead per annunciare la recensione, e il voto finale al disco recita un perentorio 10/10. Si tratta di un modus operandi senza precedenti, specie considerando che è rivolto a una formazione attiva da meno di dieci anni, a sottolineare che, se qualcosa è di valore, lo si può declamare a gran voce, a prescindere dalla caratura e dal peso specifico del progetto.
DiCrescenzo reperisce il disco a spizzichi e bocconi, tramite programmi peer-to-peer come Limewire e Napster, destreggiandosi fra rip di live registrati artigianalmente da utenti in giro per il mondo e leak semi-ufficiali reperiti per miracolo, senza conoscere con certezza i titoli effettivi—perché ai tempi i promo delle major non arrivavano nemmeno, nelle piccole webzine. Steven Hyden, nel suo appena edito This Isn’t Happening: Radiohead’s ‘Kid A’ and the Beginning of the 21st Century, sottolinea significativamente che la pubblicazione online di una recensione nel giorno stesso dell’uscita di un album era di fatto un’innovazione radicale, soprattutto se confrontata con le tempistiche della carta stampata.
“Ricordo quel giorno come un compleanno. Il traffico sul sito era schizzato letteralmente fuori controllo”, dice Schreiber nelle testimonianze raccolte dall’autore del saggio appena citato. E poi c’è l’articolo vero e proprio, un pezzo che rappresentava in tutto e per tutto una steccata a quello che la critica musicale del ventesimo secolo era diventata alla fine degli anni Novanta: soffocante e formale, riservata e talvolta irritante per quanto arretrata.
“Kid A rende il rock and roll infantile: confrontarlo con altri album è come paragonare il blu di un acquario a quello di una carta da parati. […] suona come un cervello annebbiato che cerca di ricordare un rapimento alieno.”
DiCrescenzo propone il suo solito stile, ma stavolta si porta verso un limite ancora più estremo, nonché congeniale a quello che Pitchfork stava cercando. “Non avevo mai visto una stella cadente prima d’ora”: questa è la frase d’apertura che racconta Kid A dei Radiohead, mentre Brent DiCrescenzo spiazza tutti e parte in quarta a raccontare la sera del 22 Giugno dello stesso anno.
È in Piazza Santa Croce, a Firenze e insieme ad amici in vacanza in Italia, si trova a un concerto che fa parte proprio dell’ultimo tour di Ok, Computer e sul finale vengono suonate per la prima volta dal vivo diverse demo di Kid A e, addirittura, di Amnesiac. Tra rimandi a Michelangelo, i sampietrini e racconti di italiani ubriachi che invocano “Criep”, la sentenza è consegnata presto alla storia: “Kid A rende il rock and roll infantile: confrontarlo con altri album è come paragonare il blu di un acquario a quello di una carta da parati. […] suona come un cervello annebbiato che cerca di ricordare un rapimento alieno. L’esperienza e le emozioni legate all’ascolto del disco sono come assistere alla nascita di un bambino nato morto e allo stesso tempo avere la possibilità di vederlo giocare nell’aldilà su Imax.”
“È un album di scintillanti paradossi. È cacofonico ma tranquillo, sperimentale ma familiare, straniero ma simile a un grembo materno, spazioso ma viscerale, strutturato ma vaporoso, sa dì risveglio ma è onirico, sembra infinito ma dura 48 minuti”. E conclude affermando che Kid A “è il suono di una band, e del suo leader, che perde la fiducia, si distrugge, e successivamente ricostruisce un’entità perfetta. In altre parole, i Radiohead odiavano essere Radiohead, ma si sono ritrovati con il disco più ideale e naturale dei Radiohead.”
La recensione tramortisce e spaventa una scena, quella del giornalismo online “fatto in casa”, che non si rendeva conto di poter arrivare a certe vette, segnando un punto di non ritorno e dando il via a una escalation che ha lasciato l’editoria cartacea classica con il fiato sempre più corto. DiCrescenzo riuscì a catturare quel momento storico in maniera perfetta, con alcuni degli espedienti lessicali e narrativi più sfacciati, assurdi e anomali di sempre.
L’iconico 10 dato a Kid A rappresentò una scelta strategica, ma soprattutto un twist definitivo nel linguaggio che avrebbe trasportato il giornalismo musicale dalla carta stampata alla rete.
L’iconico 10 dato al disco rappresentò una scelta strategica—tanto che venne spoilerato in anteprima sui forum dedicati Radiohead per alimentare l’hype e il traffico—ma soprattutto un twist definitivo nel linguaggio che avrebbe trasportato il giornalismo musicale dalla carta stampata alla rete: cinismo, ironia, flusso di coscienza, lessico mai canonizzato e libertà di utilizzare le metafore più disparate per provocare sensazioni e reazioni forti.
“Sono formule, si basano su un vocabolario stranamente canonizzato. Nessuno parla così nella vita reale,” racconta DiCrescenzo a Bilboard, in riferimento alla vecchia scuola critica, “Kid A mi ha immediatamente impressionato ed emozionato, mi ha fatto venir voglia di sfogarmi.” Schreiber rilancia: “Mi sono reso conto fin dal primo passaggio che ci avrebbe aperto al ridicolo. Sapevo anche che avrebbe fatto scalpore, ma quello che volevo era che Pitchfork fosse una voce audace, capace di sorprendere la gente. E la recensione di Brent, come era solito fare, ha totalmente superato quello standard.”
A conti fatti, possiamo quindi affermare che la differenza “tra carta e online”, fu determinante per il successo del disco stesso. Tanto che stroncature come quella di Nick Hornby sul New Yorker—«un suicidio commerciale» e «un’opera di autoerotismo che non serviva a nessuno, racconta dei Radiohead ai Radiohead»—regalano qualche dubbio proprio sul vocabolario utilizzato da Hornby e sulla sua concretezza rispetto alla materia trattata.
Su Spin, nell’edizione dell’ottobre 2000, Simon Reynolds invece scrive: “Non ci sono chitarre, non ci sono hit, non c’è futuro. Essenzialmente i Radiohead hanno tirato fuori un capolavoro post-rock”, dandogli 9 e addentrandosi molto nelle caratteristiche del disco. “Parte del fascino dei Radiohead – e di essere loro seguaci – è proprio quello di realizzare quanto loro si prendano sul serio”, continua, promuovendo però al tempo stesso i contenuti usciti sulle webzine e i blog di settore che, uniti alle suggestioni magnetiche di “Everything In Its Right Place” e “How To Disappear Completely”, segnarono definitivamente «la conclusione dell’egemonia di giornalisti privilegiati e un po’ all’antica».
Ripercorrere quel 2 Ottobre del 2000 vuol dire oggi rivivere la transizione della critica musicale verso il mondo online, il rito d’iniziazione del costume musicale del ventunesimo secolo per come lo conosciamo noi oggi.
Si trattava di un concetto quasi futurista, un’esperienza di fruizione coinvolgente e immersiva, adatta a scoprire la nuova musica attraverso un mezzo all’epoca pressoché inesplorato: il web. Pitchfork ha continuato poi a farsi strada contribuendo all’ascesa di artisti come Arcade Fire e Sufjan Stevens, passando per Junior Boys, Broken Social Scene, Clap Your Hands Say Yeah. Da allora, il “10 perfetto” si è trasformato in un cimelio prestigioso che solo una manciata di album, in vent’anni, è riuscito ad accaparrarsi: una dinamica che unisce un disco leggendario e la rivoluzione del racconto della musica, qualcosa che forse nemmeno lo slipstream più audace poteva raccontare.
Nel Gennaio del 2019, dopo 22 anni e la cessione a Condé Nast della testata, Ryan Schreiber ha lasciato Pitchfork. Brent DiCrescenzo lasciò invece nel Maggio 2006 e oggi è Managing Editor di una compagnia radiotelevisiva a Chicago. Kid A ha rappresentato, almeno in parte, l’entrata della musica discussa in rete nella coscienza pubblica. Ripercorrere quel 2 Ottobre del 2000 vuol dire oggi rivivere la transizione della critica musicale verso il mondo online, il rito d’iniziazione del costume musicale del ventunesimo secolo per come lo conosciamo noi oggi.