Música

La prima canzone del primo disco dei Radiohead aveva previsto tutto

A Thom Yorke dava fastidio l’idea di essere una rock star ancora prima di diventare una rock star. “Mi faccio crescere i capelli / Voglio essere, voglio essere, voglio essere Jim Morrison” sputa con derisione in “Anyone Can Play Guitar”, un pezzo grunge-pop sprezzante e spinoso sul primo album dei Radiohead Pablo Honey. 25 anni dopo, quella posa combattiva e distaccata, come se la band avesse paura di farsi coinvolgere completamente dalle emozioni delle sue canzoni, è la prima caratteristica degna di nota dell’album. L’altra sono le sue dinamiche maliziose e nervose; canzoni come “Ripcord” e “Prove Yourself” esplodono improvvisamente con chitarre ululanti e iperdistorte perché, ehi, erano gli anni Novanta e lo facevano tutti. Pablo Honey conquista perché ora sappiamo che la band che l’ha creato sarebbe diventata qualcosa di straordinario meno di cinque anni dopo. C’era un indizio che faceva presagire quella trasformazione e, ironia della sorte, lo si trovava subito dopo aver premuto play sul disco.

“You” è quel tipo di canzone con cui dovrebbe iniziare ogni primo album di ogni gruppo rock, un intro drammatico alla pari di “Good Times Bad Times” dei Led Zeppelin, “Jenny Was a Friend of Mine” dei Killers o Lil Wayne che entra volando in Tha Carter II (sì, Lil Wayne è un gruppo rock). Rockeggia con più sicurezza rispetto al resto di Pablo Honey e il testo di Yorke, per quanto se lo si legge sembri una poesia scritta alle superiori, colpisce più forte delle sue critiche alle radio rock. Per questo bisogna ringraziare il tempo in 6/8, con quell’andamento ondeggiante che si sente nel valzer e nel folk quando si conta “1-2-3 1-2-3” invece di “1-2-3-4”. Questo ritmo è piuttosto comune ma acquista una certa fluida aggressività quando sposato alle chitarre distorte (vedi anche “Hexagram” dei Deftones). Anche la struttura di “You” è inusuale, e lascia esplodere i suoi versi tersi e brevi in jam strumentali sempre diverse. Poi c’è quel momento di climax quando Yorke improvvisamente si lascia andare a un lungo grido, molto efficace perché appare dal nulla. È evidente fin da un ascolto superficiale di “You” che anche da giovani i Radiohead erano in grado di riarrangiare una semplice canzone rock e renderla qualcosa di più avvincente di quanto potesse fare una band media. Ma è la composizione più profonda di “You” che indica la direzione che avrebbero preso i Radiohead, dato che qui per la prima volta usano i trucchi che avrebbero fatto propri negli anni successivi.

Videos by VICE

Il tentacolare riff centrale di Ed O’Brien suona strano, come un sorriso troppo largo. Si avviluppa attorno a una settima in Mi dominante, un accordo dissonante grazie all’inclusione di un tritono ma anche allegro perché è comunque un accordo maggiore. Inoltre, la progressione principale va da Mi maggiore a Mi minore in successione, il che significa che in termini musicologici oggettivi “You” fa ping-pong tra felicità e tristezza nel giro di pochi secondi. Questo mitiga il vago melodramma del testo di Yorke grazie a quel particolare inquietante giubilo associato all’interscambio modale e, se c’è una cosa che i Radiohead sanno fare, è comunicare una profonda malinconia tramite il modo mixolidio. Questa angustia viene frullata completamente grazie a una di quelle acrobazie ritmiche che sarebbero presto diventate il segno distintivo dei Radiohead. Ogni misura di “You” si conclude con una battuta che è di un beat più corta delle altre, finendo leggermente prima di quando il nostro orecchio se l’aspettasse. Più avanti canzoni come “Morning Bell” e “2+2=5” giocano con altri tempi leggermente fuori-schema senza renderli troppo espliciti.

Questi trucchetti di composizione, proprio come il resto di Pablo Honey, sono applicati più per vantarsi di saperli fare che per un vero motivo artistico, ma i Radiohead avrebbero poi imparato a gestirli al meglio nel resto della loro carriera. Per esempio, “Airbag” da OK Computer cattura l’esperienza di quasi-morte del suo protagonista con una melodia dall’andamento imprevedibile, mentre “15 Step” da In Rainbows trasforma il suo groove sobbalzante in 5/4 in un’espressione di ansia romantica. “Everything in Its Right Place” fa uso sia di interscambio modale che di tempi dispari, ed è forse una delle canzoni più particolari dei Radiohead. Questo tipo di direzioni artistoidi si sono viste per la prima volta in “You”, e il fatto che la band abbai continuato a fare queste scelte oltre due decenni dopo dimostra che la canzone è stata una gran bella mossa d’apertura. “You” è un po’ prog ma anche sentita, enorme ma ferita, e queste qualità sono diventate parte integrante del catalogo dei Radiohead da qui in poi. A volte è davvero buona la prima.

È anche interessante notare che l’unica canzone di Pablo Honey in grado di gareggiare con “You” in quanto a sofisticazione sia quella che chiude l’album. Con i suoi versi bossa-krautrock dall’andazzo cool e una melodia forte e malinconica, “Blow Out” è così tanto più stratificata delle canzoni che la precedono da sembrare fuori luogo. I Radiohead hanno continuato a scavare in quei solchi jazz-rock fino ad Amnesiac nel 2001. Anche allora, “Blow Out” è sabotata da queste chitarre impazienti, che dimostrano che la band non aveva ancora capito bene come mantenere un mood unico. Ma lei, insieme a “You”, rappresenta una cornice di preveggenza in un album in cui la band sguinzaglia la propria grandezza soltanto in brevi sprazzi. Non può essere una coincidenza che queste due canzoni, insieme a “Creep”, siano rimaste le uniche tracce di Pablo Honey sopravvissute in rare apparizioni nella setlist live dei Radiohead anche nel nuovo millennio. Forse “You” è speciale anche per loro.

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Noisey Canada.

Segui Noisey su Instagram e Facebook.