Questo post fa parte di Macro, la nostra serie su economia, lavoro e finanza personale in collaborazione con Hello bank! Perché come ci ha insegnato il rap, i soldi fanno girare tutto.
Forse suona come un luogo comune, ma che i musicisti non riescano più a guadagnare soldi con la loro musica è ormai un dato oggettivo e sotto gli occhi di tutti—e non sto parlando del gruppetto di vostro cugino che si è masterizzato 50 CD in cameretta, ma di band affermate nella loro scena che la domenica suonano al Reading Festival e nel resto della settimana servono le birre al pub. Moltissimi musicisti emergenti, infatti, anche se abbastanza affermati da organizzare tourneé europee, sono costretti a fare anche un altro lavoro per mantenere le spese della musica.
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In Italia negli ultimi dieci anni abbiamo assistito all’esplosione dell’hip-hop, e la sensazione generale è che il talento sia stato ripagato con una cascata di soldi sui rapper che sono riusciti a emergere. Purtroppo la realtà è un po’ diversa: per ogni Squalo, nella scena c’è anche qualcuno che si alza alle quattro del mattino per scaricare la frutta. E a volte capita anche che i due si incontrino.
MONTENERO
Montenero si è innamorato dell’hip-hop grazie a Mi Fist “ma purtroppo ho iniziato a lavorare molto prima, la mia famiglia ha un negozio di alimentari.” Fa parte del collettivo Dogo Gang da dieci anni e recentemente è uscito il suo primo album ufficiale, arrivato dopo una manciata di mixtape e featuring in dischi che hanno venduto decine di migliaia di copie.
“Ogni tanto sui forum c’è qualcuno che mi consiglia di vendere la frutta, piuttosto che fare rap,” mi dice—ma in realtà, mi spiega, questo non è il periodo giusto nemmeno per vendere la frutta. “Ultimamente con la musica non ho beccato nemmeno un euro e, anche se non rinuncerei mai a farla, è davvero un casino portare avanti tutto, ci vuole tempo per i live e per tenere i contatti, tempo che devo sacrificare per continuare a lavorare.” Mi racconta che in fondo è il lavoro a venire prima nell’ordine delle priorità, anche perché è da lì che sono arrivati una parte dei fondi per portare avanti la sua musica.
“La musica non mi permetterebbe di mantenermi e, anche se a volte l’ansia per il lavoro e le preoccupazioni sono tante, credo di avere a disposizione molti più spaccati sulla realtà a cui ispirarmi quando faccio musica,” mi dice.
Ah, il suo negozio è proprio in Viale Montenero, a Milano.
ENSI
Ensi. Foto via
In una canzone contenuta in Vendetta, il primo album solista di Ensi, c’è una barra che fa: ho scritto questo nelle camere d’albergo / agli angoli del mondo / sugli angoli dei quaderni. Mentre la cita sembra che per lui non siano passati così tanti anni—e così tanti soldi—da quando la sua azienda lo spediva in giro per il mondo a istruire i clienti.
Mi spiega che fare il rapper era il suo obiettivo già durante gli anni delle scuole superiori, ma dopo il diploma era finito a montare apparecchiature elettroniche negli ospedali insieme al fratello maggiore Raige, già membro di OneMic. Stiamo parlando degli anni intorno al 2005, il periodo in cui gli OneMic iniziavano a diventare piuttosto noti nel panorama nazionale e Ensi vinceva il 2theBeat. Nel 2006, dopo aver lavorato anche alle Olimpiadi di Torino, ha iniziato a fare il formatore in una multinazionale di apparecchiature per il taglio laser. In pratica, i clienti dell’azienda insieme ai macchinari ricevevano anche la visita di Ensi che insegnava come utilizzarli.
Ensi che parla un po’ di Vice“Quando mi sono presentato al colloquio ho spiegato al responsabile delle risorse umane che ero anche un cantante, e siccome lui non aveva ben presente che tipo di cantante fossi ho improvvisato un freestyle parlando del colloquio e del colore della sua cravatta. Gli è caduta la faccia, però hanno pensato anche che non sarebbe stato male mandarmi dai clienti,” mi ha detto. Ha lavorato in questa azienda fino al 2010, quando ha pensato che i risultati ottenuti dalla sua musica sarebbero potuti aumentare sensibilmente se avesse iniziato a dedicare al rap il 100 percento del suo tempo, anziché il 20 percento.
“Non è solo una questione di talento o di fortuna: bisogna sapersi gestire e capire cosa fare, ed è impossibile far felici coscienza, cuore e portafoglio. Nel mio caso quello che ne soffre di più è sempre il portafoglio, perché non sono mai riuscito a fare tutto per i soldi. Però vaffanculo: facevo il tecnico sulle macchine laser, oggi faccio il rapper.”
JOHNNY MARSIGLIA
La verità è che le idee migliori spuntano nel cervello delle persone sotto forma di via di fuga dalla realtà, quindi forse una vasca di champagne non è il posto più adatto in cui cercare l’ispirazione. Il titolo dell’utimo album di Johnny Marsiglia è Fantastica Illusione, ed è piuttosto esplicativo se si pensa che è stato scelto mentre il rapper era alla guida di un furgone nel traffico palermitano per una ditta di forniture industriali.
“Mi capita di dovermi appuntare molte idee mentre sono in giro, penso le rime tra me e me, senza beat,” mi ha detto Marsiglia. “‘Fuori Piove’ è nata così, mentre ero in giro per Palermo a lavorare mi sono immaginato di rappare sul pezzo di James Brown ‘ This Is A Man’s World’ e ho provato a incastrare delle terzine su una ritmica come quella. Ho messo giù 16 barre e me le sono annotate durante la giornata. Quando sono tornato a casa da Joe, il mio socio e produttore, gli ho raccontato il pezzo e la notte stessa abbiamo registrato la prima strofa.”
DANTI
Danti mentre taglia i capelli
Chi non rinuncerebbe mai al suo lavoro è Danti dei Two Fingerz, che proprio in questi giorni pubblicano il loro sesto album in studio, La Tecnica Bukowski, e che ha cominciato a fare musica più o meno parallelamente alla sua attività di parrucchiere “e all’inizio è andato sicuramente meglio il negozio, mettiamola così.”
Almeno fino al 2006, quando hanno firmato con Sony per pubblicare il primo di quelli che, a distanza di otto anni, sono già sei dischi. Il negozio è ciò che gli ha permesso di avere qualcosa da investire a fondo perso nella sua musica. “Già dal 2007 avrei potuto vivere di musica, ma sento che il negozio è una parte di me a cui non posso rinunciare, così come non potrei rinunciare alla mia musica.”
La cosa importante, mi spiega, è riuscire a creare un seguito che ti permetta di ottenere degli ingaggi, perché guadagnare con i dischi è un miraggio e, paradossalmente, lo è ancora di più quando si firma un contratto con una casa discografica. “Il negozio è praticamente autonomo, quindi io posso fare un po’ la vita da artista, ma capitano clienti che si fanno ore e ore di macchina per venire a fare gli stalker, ormai ci sono abituato e fa più strano agli altri che a me, perché quella dopotutto è casa mia.”
Ci sarebbe anche da dire che se Danti non avesse mai aperto un negozio non avrebbe mai investito nella sua musica e ora probabilmente non esisterebbe Fedez, ma questa è una mia teoria che non è il caso di approfondire.
MISTAMAN
Mistaman mentre pensa alle ferie
Chi invece ha un debito di 160 giorni di ferie con la sua azienda è Mistaman, e li ha accumulati tutti per colpa della musica. Lavora come designer in un’azienda giapponese ma ha studiato scienze politiche, quindi un pochino puoi crederci quando ti racconti che scienze politiche ti apre un sacco di strade. Ha iniziato a fare musica nel 1995, in modo amatoriale, senza grandi spese da sostenere ma anche senza ricavi. Appena ha iniziato a lavorare, nel 2000, è riuscito a rendere la sua musica più autonoma e più simile a come se la immaginava.
“Lavorare mi permette di avere un contatto con la realtà e di garantirmi un’altra fonte di realizzazione, sia umana che economica. Sono convinto che se l’unico modo di relizzarmi fosse la musica finirei inevitabilmente per farne di più brutta. Il lavoro è un modo di rendere più puro ciò che faccio, di mantenere la musica un mezzo di espressione senza avere l’ansia di doverla vendere assolutamente,” mi ha detto.
Mentre parliamo sembra convinto che, se decidesse di farlo, potrebbe iniziare a vivere esclusivamente di rap, impegnando molto più tempo ed energie, “ma sarebbe un po’ come passare da una fattoria di campagna a un allevamento di McDonald’s, la qualità non sarebbe la stessa.”
MARUEGO
“La gente mi diceva, ‘Tu lavori, ma si vede che non è la cosa che ti piace fare’. Facevo il macellaio, mi tagliavo sempre le mani, ero sempre pieno di sangue, lavoravo male… mi era sparito il sorriso. Così ho deciso di puntare alla musica,” mi ha detto Maruego, che prima di sfondare come rapper si è fatto un po’ di anni a lavorare 14 ore al giorno come macellaio.
Quando ha capito che non avrebbe retto ancora molto ha deciso di piegare ancora la testa e lavorare in silenzio, per mettere da parte un po’ di soldi e licenziarsi: “Ho preso quei 1500 euro e sono andato con il mio videomaker in Marocco per registrare due video,” mi ha raccontato. “Nel giro di tre giorni dall’uscita del secondo video ancora non se li era cagati nessuno e io stavo per rassegnarmi all’idea di tornare a fare il macellaio, perché avevo già speso tutti i soldi. Avrei continuato tranquillamente a lavorare e mi sarei sistemato, avrei iniziato a pagare un mutuo, un po’ come tutti.”
Per sua fortuna il quarto giorno il video è passato sotto gli occhi di Gué Pequeno, e la musica è diventata qualcosa di più che una distrazione.
WAREZ
Warez rappresenta (vernici)
Warez è un rapper di Milano e il suo ultimo progetto è Kaiseki, un album ispirato alla cucina giapponese. Nel tempo libero, oltre al rap, gli piace lavorare come rappresentante di vernici in una grande catena del fai da te.
“Per un lungo periodo mi sono dedicato unicamente alla musica e insieme a dei soci abbiamo fondato un’etichetta indipendente. In quel periodo mi ricordo che ero sempre alla ricerca di un nuovo lavoro per far sì che l’etichetta potesse sopravvivere, infatti alla fine ho dovuto trovare un lavoro serio.” Da un anno circa lavora come addetto vendite e, dopo aver chiuso l’etichetta, è sicuramente il lavoro che gli permette di pagare le bollette.
MECNA
Mecna. Fotovia
Chi è riuscito a sintetizzare meglio un concetto che aleggia tra tutti i rapper-lavoratori con cui ho parlato è stato Mecna, che dopo anni di lavoro come grafico alle dipendenze di qualcuno ha deciso di licenziarsi e mettersi in proprio, senza rinunciare al suo lavoro: “Avere tante cose da fare mi aiuta a farle tutte, mi rende più attivo. Ho sempre pensato che il lavoro fosse un’assicurazione sulla propria musica, un modo di evitare la preoccupazione per il guadagno. Se non ci fosse la musica vivrei ugualmente, e questo mi aiuta ad essere rilassato nel farla.”
“Non voglio vivere con la paranoia del cazzo devo suonare o non arrivo a fine mese. Il lavoro mi permette di non dover suonare per forza quando non ne ho voglia, e credo che questa sia una cosa molto importante.”
FRANK SICILIANO
Come Mecna, anche Frank Siciliano si è messo in proprio: tre anni fa ha fondato il suo studio Frame24, che si occupa di produzioni video. Nonostante sia sulla scena da ormai vent’anni, il suo primo album solista, L’Ultima Notte Assieme, è uscito solo qualche mese fa. “Forse ciò che non ti restituisce abbastanza soldi per vivere può mantenere i connotati di una passione, anche se la si affronta in maniera professionale,” mi ha detto.
Conciliare le due cose non è facile, “perché può capitare che un cliente voglia una modifica all’ultimo momento, magari mezz’ora prima di salire sul palco, ma per fortuna con i miei soci siamo riusciti a creare una nostra rete interna, che mi permette di avere la serenità mentale necessaria per fare un concerto.”
Come per molti rapper con cui ho parlato, anche per Frank la musica deve restare musica, mai diventare un lavoro. Me l’ha spiegato in due parole: “Il lavoro ti aiuta a catalizzare l’ansia, a farti capire quali sono le cose per cui vale la pena andare in sbattimento, e la musica non è una di queste.”
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