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L’opzione nucleare: sono stato a un rave tra le rovine di Chernobyl

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“È per proteggerti da non so cosa,” dice la guida passandoci una tuta bianca. Mentre le infiliamocerchiamo tutti di nasconderci dietro il bus.

Tutto intorno a noi, in mezzo agli alberi, ci sono enormi edifici dell’epoca sovietica. Sono vuoti, ma pieni degli effetti personali degli ex residenti di questa città. Si tratta di Pripyat, che un tempo ospitava 50mila persone. Oggi, zero.

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Dal centro della piazza della città abbandonata partono fasci di luce colorata che rimbalzano tra le case. Sta per cominciare una festa.

Valeriy Korshunov, artista multimediale di Kiev, sta facendo il soundcheck con Artefact, la ‘scultura digitale’ protagonista di questa serata nella Zona di Alienazione di Chernobyl.

L’esplosione del Reattore numero quattro all’una e 23 del mattino del 26 aprile 1986 ha liberato nell’atmosfera dell’Est Europa una quantità di materiale radioattivo quattro volte superiore a quello delle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki messe insieme.

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Verso la città abbandonata, centro del disastro nucleare peggiore della storia.

Prima di quel giorno Pripyat era considerata una città modello e, per alcuni cittadini sovietici, un bel posto in cui vivere. Era un nuovo insediamento creato apposta per i lavoratori dell’impianto nucleare.

Chernobyl era considerato un gioiello nella corona dell’URRS—una dimostrazione della volontà di creare energia nucleare pulita e sicura. E anche la cittadina doveva rispecchiare questa idea, con un supermercato pieno di cibi rari, una pista di pattinaggio, una piscina e un luna park per i figli dei lavoratori.

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Dentro la Zona di Alienazione.

Dopo l’esplosione, da Mosca silenzio. Fu un operativo di un impianto nucleare svedese—a migliaia di chilometri di distanza—a dare l’allarme sulle misurazioni Geiger. Agli abitanti di Pripyat si disse che non avevano nulla di cui preoccuparsi e loro andarono avanti normalmente fino a quando, 36 ore dopo, le autorità decisero di evacuare la città in due ore. Ma a quel punto Priyat era già stata intossicata dalle radiazioni più pericolose mai rilasciate nella storia dell’umanità.

Secondo l’OMS, ci sarebbero fino a 4mila morti correlate al disastro, oltre alla diffusione di disabilità e difetti del feto.

Avvicinandoci ad Artefact incontriamo la ruota panoramica. Doveva aprire quattro giorni dopo l’esplosione, ma è immobile da più di 32 anni. È diventata quasi un’immagine distopica.

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Il luna park abbandonato dentro la Zona di Alienazione di Chernobyl. Foto via Unsplash.

“Mi sembra di stare sul set di un film,” dico a uno dei miei compagni. “Sì, ha senso. È a questo posto che molti film si ispirano.”

Dietro la ruota panoramica ci sono delle macchinine per autoscontri congelate e una giostra. Un ragazzo la spinge. Si sente un rumore di ferraglia mentre questa comincia a girare lentamente. I piccoli sedili dipinti di rosso sfilano davanti a noi. Mi pare di vedere della polvere uscire dai vecchi ingranaggi, e mi allontano.

È mattina quando arriviamo nella “Zona”, seguendo il corso del Dnepr da Kiev. Mentre la foresta si fa più fitta e la neve sui rami più pesante, dei cartelli mettono in guardia da orsi e lupi.

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Un crocefisso solitario fuori da un edificio sovietico.

Alla fine troviamo un passaggio tra gli alberi. Abbiamo davanti un muro. Degli uomini in tenuta militare ci dicono di scendere dal bus e mostrare i documenti.

Di fianco al checkpoint c’è una chiesa, con all’ingresso una croce d’oro e un’immagine della Madonna. Guardo dentro. La chiesa è piena di legname. La luce entra da una finestra colorata a forma di tramonto. Nelle settimane successive all’esplosione, gli esegeti biblici avevano indicato l’Apocalisse di Giovanni e in particolare la profezia della stella Assenzio (Chernobyl, in ucraino) che sarebbe caduta dal cielo e avrebbe avvelenato il mondo.

Ma gli organizzatori di Artefact insistono che la zona è sicura. Dopo l’esplosione ci sono voluti un milione e mezzo di lavoratori, i cosiddetti liquidatori, e più di sei mesi per chiudere il reattore in una struttura enorme chiamata Sarcofago. Con l’aiuto dell’Unione Europea, il Sarcofago è stato completato a maggio (anche se dovrà essere rimpiazzato tra 100 anni).

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Misurazioni Geiger nella Zona di Alienazione.

Nel corso della conferenza stampa che si tiene a un centinaio di metri dal reattore, la curatrice di Artefact Svitlana Korshunov dice: “Benvenuti nella Zona di Alienazione. Il mondo conosce questo luogo per la tragedia che vi è stata. Ma noi siamo venuti qui per cambiare la storia di Chernobyl.”

Il principale tema per gli organizzatori di Artefact sono le fake news—e non solo perché è stato il termine chiave del 2018.

“La tragedia di Chernobyl è stata non solo una catastrofe per le radiazioni, ma anche per l’informazione,” mi dice Valeriy Korshunov. Spiega che almeno altre cinque generazioni di ucraini soffriranno le conseguenze dell’incidente, secondo gli scienziati. “Speriamo che l’attivazione di Artefact spingerà a ripensare a come è stata gestita l’informazione ai tempi della tragedia.”

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Parte dell’edificio che ospita il reattore, ora chiuso nel sarcofago.

Da Mosca, dopo la tragedia, ci fu silenzio radio fino al 28 aprile, quando il politburo fece una dichiarazione di 15 secondi al radiogiornale della sera. “C’è stato un incidente alla centrale nucleare di Chernobyl.” Diceva che era stata fornita assistenza e che era stata creata una commissione d’indagine.

Pochi giorni dopo Moscow News, una pubblicazione autorizzata dal politburo, scrisse di una “nube tossica di anti-sovietismo” e si scagliò contro una “campagna premeditata e bene orchestrata” che voleva “coprire atti criminali militari da parte degli USA e della NATO contro la pace e la sicurezza.”

“Uno dei principali obiettivi di Artefact a Pripyat è far pensare a come un’informazione può essere manipolata, nascosta o distorta,” dice Korshunov. “Perché queste possono essere le conseguenze.”

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Luci verdi danzano per la città abbandonata.

L’installazione in sé è spettacolare. Una folla danza su beat elettronici che escono dagli amplificatori trasportati nella piazza principale di Pripyat. La luce crea disegni strani sulle case fantasma. Due schermi rimandano visual ispirati al classico di Tarkovskij Stalker: uscito nel 1979 e ambientato in una zona misteriosa, sembrava quasi aver presagito la futura tragedia.

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Il primo rave post nucleare dentro Pripyat.

“Mi sembra di essere a Glastonbury alle quattro del mattino,” mi dice un amico. “Tranne che per…” ci guardiamo intorno. Oltre la piazza, vediamo i militari. Qualcuno ondeggia seguendo il ritmo. Un paio di abitanti della zona si avvicinano e offrono una bottiglia di vodka, ma si prendono una ramanzina. La temperatura scende decisamente—ora ci sono meno sei gradi, ma la musica fa vibrare la piazza, le luci illuminano le cucine, le camere e i salotti che non saranno usati mai più.

Quando torno in albergo mi lavo gli stivali nella doccia, e la notte sogno una ruota panoramica piena di bambini coperti di polvere, e il rombo della musica elettronica.

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