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Il razzismo nelle cucine dei ristoranti italiani esiste, ed è molto subdolo

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La verità è che le discriminazioni su base etnica esistono anche prima di entrare in un ristorante: esistono nella convinzione che un pizzaiolo possa essere egiziano, ma che chi ha cucinato il risotto nel ristorante stellato è sicuramente bianco.

Il razzismo nel mondo delle cucine stellate, e non, è subdolo. È così poco visibile che quando scoppia il caso mediatico dello chef che imita gli occhi a mandorla del collega australiano o del critico che dimentica di inserire in didascalia solo il nome del lavapiatti di colore, l’uno e l’altro diventano degli episodi minori, una goliardata e uno scivolone. E, in effetti, sono degli episodi minori: il problema è sempre nella sistematicità poco visibile del razzismo, quegli episodi non sono che una delle manifestazioni del problema.

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Quando sei nero, la prima frase sulla bocca di chiunque è la solita, quella che ci siamo sentiti dire prima o poi tutti, se non sai niente di questo lavoro, tornatene in Africa

La verità è che le discriminazioni su base etnica esistono anche prima di entrare in un ristorante: esistono nella convinzione che un pizzaiolo possa essere egiziano, ma che chi ha cucinato il risotto nel ristorante stellato è sicuramente bianco. Esistono quando in quello stesso locale ti aspetti che il lavapiatti sia un bangla, ma non che il sous-chef sia un nero. Perché il risotto era troppo buono e il conto troppo salato perché il merito possa essere di un africano. Nell’idea che un locale “etnico” debba sempre essere economico, ma francese e abbordabile è quasi un’offesa. La certezza di queste dinamiche è già un segnale della discriminazione che avvolge questo settore, come ogni settore considerato un prodotto della civiltà occidentale.

“C’è l’immaginario del cuoco italiano bianco”, ammette lo chef Massimo Giaquinta. Il suo Cortile Arabo è un esempio virtuoso di come etnie e culture differenti possano convivere anche quando fanno cucina locale, quella siciliana per la precisione. “I clienti sono sorpresi quando mi vedono”, dice, probabilmente perché non collegano quell’accento marcato a quel colore della pelle, “Ma alla fine è la cucina che conta, che si mangi bene”.

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Lo chef Massimo Giaquinta. Foto di Rossana Brancato per gentile concessione di Cortile Arabo.

Davanti al mare di Marzamemi, Giaquinta sembra impegnato a sovvertire quello stereotipo: nella sua cucina lavorano “due mulatti (lui e il fratello sono figli di madre keniota e padre siciliano, ndr), due migranti e due siciliani”. Uno dei pastry chef, Mutar Jallow, è gambiano, e mi sembra importante sottolinearlo.

Quando si intervistano delle persone che ce l’hanno fatta, anche se — o meglio, soprattutto se — appartengono a minoranze etniche, è piuttosto difficile avere un dialogo aperto sulle discriminazioni. La posizione raggiunta impone loro di avere un approccio diplomatico all’argomento.

Ho partecipato al campionato mondiale di pasta fresca ripiena, ero l’unico orientale

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Roberto Okabe, del milanese Finger’s, nelle sue risposte ci mette quel pizzico di equilibrio che sa di frase ben oliata. Parliamo di competizioni internazionali di cucina, se ha mai preso parte a qualcuna. “Ho partecipato al campionato mondiale di pasta fresca ripiena, ero l’unico orientale”, scrive. “Non sono stato assolutamente discriminato, anzi… sono stato fra i protagonisti!”. Ma, mi chiedo, il fatto di partecipare a un campionato mondiale di cucina ed essere l’unico orientale, non è già di per sé un segnale di discriminazione?

“Purtroppo, non ho vinto”, precisa Okabe, “Ma il mio ripieno di scampi, tofu e verza era particolare ed è stato molto apprezzato”.

Di gare di cucina parliamo anche con Massimo Giaquinta. “Ho partecipato a delle competizioni, ma non posso dire di aver mai subito discriminazioni di alcun genere”, è della stessa opinione. Gli chiedo se è riuscito mai a vincere. “No”, risponde secco.

Fare carriera in questo settore è come scalare una montagna, ma una donna è discriminata, se è nera, anche il doppio

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Chef Victoire Gouloubi. Foto per gentile concessione dell’intervistata.

La chef Victoire Gouloubi, originaria del Congo e in Italia da quasi due decenni, va controcorrente e mi sorprende con la sua franchezza. “Fare carriera in questo settore è come scalare una montagna, ma una donna è discriminata, se è nera, anche il doppio”, esordisce.

Per Gouloubi non c’è differenza tra la discriminazione dentro e quella fuori dalle cucine: “Che mi dessero della negra per strada o che mi dicessero di tornare a cucinare per le scimmie, per me era la stessa cosa”. Mi racconta di quando si è trovata di fronte scritte irripetibili sugli armadietti dello spogliatoio: “È la squadra, ti devi far rispettare”, si sentiva dire dallo chef, quasi fosse il nonnismo da vita militare. Non le è capitata spesso la “fortuna” di avere uno chef che mettesse fine a questo tipo di mobbing.

Quando sei nero, la prima frase sulla bocca di chiunque è la solita, quella che ci siamo sentiti dire prima o poi tutti, se non sai niente di questo lavoro, tornatene in Africa, «come se noi in Africa non sapessimo cosa significa cucinare, come se io avessi scoperto l’ABC del cibo qui». Le chiedo se la cucina ha il copyright europeo. “Vedono tutte le altre popolazione come indigene, gli italiani si sentono i creatori dell’alfabeto culinario e gli altri devono solo imparare da loro. Ma ogni popolo ha la propria tradizione culinaria, tant’è che il cibo è il primo linguaggio umano”, commenta Gouloubi.

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Lo chef Jiang Wenxing. Foto di Mauro Montana, per gentile concessione di MU FISH

Jiang Wenxing è lo chef cinese di Mu Fish, il locale nell’hinterland milanese a cui è approdato dopo la lunga esperienza come capo chef di Finger’s. Con lui ci addentriamo nella spinosa questione della Guida Michelin. “Alcuni mi dicono che riuscirò ad avere una stella, ma penso che ci sia ancora molto da fare prima di arrivare ad ottenerla”.

A spiegarmi cosa valuta la Guida Michelin quando ispeziona un ristorante, ci pensa Okabe: “la Michelin premia un ristorante non solo per la cucina, ma anche per la qualità del servizio, la proposta della cantina, l’atmosfera che sa creare per i suoi ospiti, e tanti altri dettagli che possono convincere un ispettore a segnalare quel ristorante meritevole di un riconoscimento così prestigioso come la stella Michelin. Quindi a prescindere dalla sua etnia o dalla sua origine geografica… Iyo insegna”.

In Italia, Iyo è l’unico ristorante giapponese, o comunque con una cucina non di tradizione italiana, ad essere stellato, e, a considerare le origini dello chef, l’unico non europeo che si sia guadagnato l’Oscar delle cucina è Tokuyoshi, il cui menù è comunque classificato come creativo. Un magro medagliere, se si considera l’alta percentuale di ristoranti a gestione straniera — rappresentano il 40% del settore nella sola città di Milano.

La Guida Michelin si avvicina alla cucina cinese da un punto di vista europeo. È più facile per un ristorante della tradizione europea ricevere una stella

Rifletto con Wenxing di questa sproporzione, è più difficile ottenere un riconoscimento di questo genere per una cucina non italiana fatta da uno chef non-bianco? WInnanzitutto, bisogna dire che la cultura è molto diversa. La Guida Michelin si avvicina alla cucina cinese da un punto di vista europeo”, spiega. Sembra quasi volermi dire che ci sono culture culinarie in cui la Guida Michelin non è tutto: in fondo, esistono intere aree geografiche non coperte da Michelin. E in questa prospettiva “è più facile per un ristorante della tradizione europea ricevere una stella” di quanto non lo sia per uno chef asiatico. È, credo, anche una conseguenza del model minority myth: gli orientali, nell’immaginario comune, sono circondati da una certa aura di genialità e dedizione (Sono dei gran lavoratori, è la descrizione più frequente dei cinesi; “Mi trovo bene con i cingalesi perché sono grandi lavoratori e sono ‘fedeli’”, mi scrive lo chef Okabe), e si trovano costretti a vivere in funzione di quell’immaginario. Qualunque cosa al di sotto delle aspettative di quello stereotipo, è considerato mediocre.

Quando sei arrivato a un certo livello, nessuno si permette di discriminarti

Lo chef Wicky Pryan. Foto per gentile concessione del ristorante Wicky’s.

Lo chef Wicky Pryan dell’omonima Wicky’s Innovative Japanese Cuisine ha prima di tutto un approccio filosofico alle discriminazioni etniche nel settore. “Per alcuni occidentali la cucina è un gioco”, mi spiega ricordando che per lui la dimensione del cibo e del sacro sono sempre andati di pari passo: ha imparato a cucinare osservando la madre che preparava i pasti ai monaci, ed è un dualismo che si è rafforzato durante la formazione giapponese.

“Quando sei arrivato a un certo livello”, continua, “Nessuno si permette di discriminarti”. Gli chiedo se non ritiene che la discriminazione nel mondo della cucina sia più sistematica: nell’impossibilità per un uomo — o una donna — nero di riuscire a fare carriera in un settore che è ancora molto maschile e molto bianco. “Devi conoscere qualcuno”, mi concede, “È un mestiere che funziona soprattutto sulla fiducia”.

In Italia ci sono pochissimi chef neri (…): “Se sono bravi, corretti, rispettano le regole, non si fanno nemici” si trovano circondati da amici bianchi, e pensano di essere intoccabili

Insomma, per non essere discriminato, devi diventare così bravo da essere intoccabile, ma si prospetta un’impresa ardua se la tua strada è sbarrata sin dalla partenza. Non è d’accordo la chef Gouloubi, “Non diventi intoccabile, ma pensi di esserlo”. “Ti spiego come sta la questione”, dice: dal suo punto di vista, in Italia ci sono pochi chef neri, e quei pochissimi la cui carriera è decollata, “se sono bravi, corretti, rispettano le regole, non si fanno nemici” si trovano circondati da amici bianchi, e pensano di essere intoccabili. In un clima di diffidenza generale verso gli immigrati, l’Italia ha bisogno di dire “Io non sono razzista”, e lo fa usando te: “Noi abbiamo la prova che ci sono persone di colore integrate, eccole qui”. Le chiedo se è un contentino, “Esattamente”, risponde. E, comunque, “ci mettono un attimo a scaricarti”.

Non è che io non abbia subito episodi razzisti nella mia vita, sono solo stato più forte di chi mi discriminava

Secondo Wicky esiste una contrapposizione tra due categorie di persone, “i razzisti (di una classe inferiore)” dei quali tanto l’opinione quanto la professionalità non conta molto, e “i colleghi (di una classe superiore) che non si perdono in futilità come i tratti somatici o il colore della pelle”. Non tutti però, gli faccio notare, hanno il privilegio di poter liquidare così velocemente il problema.
“Io non sono né nero, né bianco. Io sono marrone, il che significa che noi siamo soggetti che si trovano naturalmente a essere schiacciati tra due fazioni”, controbatte Wicky, “Penso che per sopravvivere bisogna essere molto forti. Non è che io non abbia subito episodi razzisti nella mia vita, sono solo stato più forte di chi mi discriminava”. “Per molti anni ho praticamente gestito il ristorante in cui lavoravo”, continua, “Ma, nel farlo, non mi è mai stato permesso di poter utilizzare il mio nome, quindi la mia faccia. Quando ne ho avuto la possibilità, me ne sono andato, e oggi ho un posto che posso dire davvero mio”.

Proprio per questo, secondo Gouloubi, è importante che chef di minoranze etniche si trovino a occupare ruoli di prestigio perché rende l’accesso a questo settore più equo. “Se non lo facciamo noi, chi?”.

“Anche se stellato, un nero resta sempre un nero?”, è la mia ultima domanda per Victoire. “Scrivi proprio questo, chiudilo così l’articolo”, mi dice. Ecco.

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