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Musica

Nell'era dello streaming, i musicisti devono ragionare come imprenditori?

Ci siamo immaginati un futuro in cui i musicisti sono ricchissimi e agiscono solo in base alle statistiche fornite dal servizio streaming che hanno scelto di utilizzare.

Immagine di Paul Raffaele

Lo streaming è il futuro della musica. È un argomento scottante, ma la conclusione è più che scontata. Molti, in particolare gli artisti, sostengono che lo streaming digitale promuova una visione della musica mercificata, mentre i suoi difensori lo vedono come rinascita di un'industria poco avvezza ai cambiamenti. Però ecco, non c'è dubbio che qualcosa sta succedendo. L'arrivo di Apple Music a giugno è stato l'ennesimo colpo di grazia, questa volta definitivo, per le vendite. Spotify adesso vale 8.5 miliardi di dollari. Eppure, anche se lo streaming è diventato il modello d'industria dominante, i servizi che lo riguardano devono affrontare il problema della sua redditività a lungo termine. Non è ancora ben chiaro se il numero di contribuenti è sufficientemente alto—né se lo sarà mai—per far fruttare economicamente i servizif esistenti. Questo modello è diventato più che fruibile dalle compagnie di streaming, ma può diventare sostenibile anche dagli artisti (e relative label)? Come previsto, nessuna delle compagnie di servizi streaming ha ancora trovato una risposta a queste domande.

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Dalla prospettiva di un PR, è all'ultima domanda che chi si occupa di servizi streaming deve rispondere prima che può. Il pagamento all'artista, se non è il nodo fondamentale della questione finanziaria, è sicuramente al centro di quella etica. Molti musicisti se la prendono con la dialettica di queste compagnie, che vogliono far credere a tutti costi ci siano dietro progetti aggregativi, di costruzione di comunità, quando di fatto avviene l'esatto contrario. Il recente appello di Taylor Swift ad Apple Music al pagamento degli artisti per lo stream delle canzoni nella sua versione di prova, è stata un'ottima mossa, ma negli ultimi anni altri appelli di questo tipo hanno avuto un'accoglienza tutt'altro che buona. Damon Krukowski dei Galaxie 500, nel 2012, ha scritto che la sua band aveva ricevuto 21 centesimi per 7800 riproduzioni streaming di una canzone su Pandora e ne sarebbero serviti altri 312000 per arrivare a guadagnare tanto quanto avrebbero concesso le royalties derivate dalla vendita di un LP. Pochi mesi fa, Aloe Blacc ha rivelato di aver tirato su meno di quattromila dollari su Pandora, per la collaborazione con Avicii nella mega hit estiva del 2013 “Wake Me Up!”. È essenziale che le compagnie di streaming siano trasparenti nei loro reali intenti, e dichiarino se stanno a fianco dei musicisti o meno.

“Parliamo un sacco di consumatori che non capiscono necessariamente i benefici dello streaming, ma qui c'è da fare vera e propria educazione all'interno della comunità degli artisti," ha detto Joe Armenia, responsabile delle relazioni pubbliche tra artisti e label di Rdio. "Non possiamo sottovalutare l'importanza di far capire certe cose agli artisti."

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Per intortarseli a dovere, le aziende in competizione devono dimostrare agli artisti di far parte di un piano, di un progetto a lungo termine. E in un sistema in cui gran parte dei servizi pagano meno di un centesimo a riproduzione, tutto ciò serve almeno a trasmettere ai musicisti che l'interesse nei loro confronti va oltre il valore monetario. Senza troppa sorpresa, c'è da dire che è la tecnologia alla base di questi piani: le compagnie di streaming hanno cominciato perlomeno a garantire agli artisti un accesso diretto a dati e setup per permettere loro di analizzarli senza intermediari.

“Nella comunità degli artisti, ce ne sono già alcuni che colgono l'importanza di usare e accedere ai dati," sostiene Chris Phillips, responsabile della produzione di Pandora. "C'è una bella fetta dell'industria musicale che però non ci arriva." Dentro Pandora, Phillips è stato a capo della Pandora Artist Music Platform, un programma di analytics lanciato lo scorso ottobre dopo anni e anni di lavorazione. I musicisti possono usarlo per informarsi sul reale numero di ascoltatori, senza limitarsi alle sole riproduzioni, ma andando a ricercare la loro provenienza geografica, che social usano, playlist, e qualsiasi altro dato utile, tutto confezionato in report dall'interfaccia user-friendly e alla portata di tutti. Possono usare questi dati per pianificare tour nelle aree a più alta concentrazione di fan, scegliere setlist ad hoc sulle basi di quali sono le canzoni più popolari, interagire con i fan su piattaforme social etc. I principali servizi di streaming hanno tutte piattaforme simili, sia a livello di operazioni che di lavoro. Le possibilità sono decisamente allettanti, ma lo è ancora di più la retorica utilizzata dalle aziende a questi scopi: vogliono vendere gli analytics ai musicisti esattamente come potrebbe fare un grosso marchio di analytics a un'azienda priva di inventiva. Suggeriscono di usare gli analytics per costruire una strategia, esattamente come farebbe una startup.

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“Ultimamente, ci piacerebbe davvero molto se la prima cosa fatta da un musicista appena alzato la mattina fosse loggarsi su Pandora e dare un'occhiata ad AMP," ha detto il cofondatore di Pandora, Tim Westergren a VentureBeat quando AMP è stato lanciato lo scorso ottobre. Per lui gli artisti si dovrebbero comportare come vere e proprie aziende che prendono decisioni in base a dati analitici—pensando come le startup che vogliono "tamponare" il problema della scarsa popolarità della loro musica. Gli artisti in genere guardano solo il lato pop e sfarzoso del lavoro che fanno, ma quando si trovano faccia a faccia con la realtà dei fatti in forma di dati analitici, si apre una dimensione tutta nuova. Se sapessi esattamente cosa piace a una determinata audience, in un determinato posto, con una determinata demograficità, non cominceresti a calibrare la tua musica di conseguenza?

Attualmente i servizi di streaming sostengono di devolvere dal cinquanta al settanta percento dei loro ingressi ai diritti d'autore, sia verso le label che alle royalty di distributori come SoundExchange. Solo una piccola parte di questi soldi però arriva davvero agli artisti. Perciò, se da una parte questi ultimi hanno ragione quando dicono che non vedono sufficienti compensi economici per la loro musica, dall'altra è anche vero che il modello di business in questione non ha mai avuto incrementi monetari degni di nota, specie per i servizi di streaming. Il più grande problema dietro a realtà del genere—i pochi soldi che fanno questi servizi—non è di semplice soluzione. L'intera industria musicale ha visto scemare i profitti di anno in anno per quindici anni, ed è molto probabile che gran parte di queste perdite non verranno mai recuperate.

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“L'economia è diversa” ha concluso Chris Becherer, capo della produzione di Rdio. “Stiamo ancora introducendo il modello a un sacco di persone. Ci vorrà un po' per portare le royalties a fare quello che faceva la gente ai vecchi tempi." Il modello di streaming in sé detiene parte di questa responsabilità. Il free download illegale, fiorito negli anni pre-streaming, è nel DNA di molte aziende. Ulteriori tagli da cui trarre profitto sono i "freemium", tier supportati dagli annunci pubblicitari che offrono Spotify e tutte le altre catene. Sono stati iper criticati dai servizi a pagamento, ma questi ribattono che, considerando che gli ascoltatori sono abituati a prezzi bassissimi o semplicemente inesistenti, per la musica, è molto difficile spingerli a pagare senza prendersi dei rischi. Tuttavia, se il modello continua a permettere ai consumatori di pagare pochissimo per accedere ai servizi, i soldi non basteranno mai a nessuno.

Questo crea dei problemi—ma se fossimo in un'industria più rosea, un'"opportunità"—per i servizi streaming, che se volessero apportare maggior valore agli artisti sottoforma di royalties e diritti d'autore, non potrebbero. È qui che entra in gioco la retorica per cui gli artisti vengono visti come utenti aziendali che usufruiscono dei dati di un servizio streaming. In teoria, sono gli artisti a supplementare i pagamenti per le royalties dal valore più basso, un po' come un autista Uber compensa le proprie tariffe con il valore aggiunto della flessibilità su orari e prezzi del lavoro stesso. Invece di fare musica e venire pagati e basta, gli artisti qui diventano partecipanti attivi nell'utilizzo del servizio, che potenzialmente autogenera il valore economico di cui hanno bisogno

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“Sarebbe magnifico che i dati originati dagli streaming venissero forniti direttamente agli artisti," ammette Simon White, che gestisce Phoenix e Hudson Mohawke, "Credo che l'estrapolazione di questi dati diventerà parte fondante dei giri di affari che ci serviranno per andare avanti. Riuscire a inquadrare chi e dove sta ascoltando la tua musica, oltre che comunicare con queste persone in via diretta, sono grandi e potenti strumenti per noi—in particolare se parliamo di musica che non passa necessariamente dai mass media. Invito tutte le aziende di streaming ad aprire i loro portali e a permettere il libero accesso agli artisti."

Musica e tecnologia sono diventati sempre più un tutt'uno, specialmente ora che stanno fiorendo le startup focalizzate sull'industria musicale e i suoi dati analitici. Aziende come Semetric (acquistata dalla Apple a gennaio) e Next Big Sound (comprata da Pandora a maggio dopo una previa collaborazione con Spotify) offrono l'accesso alle pubbliche interazioni, ai dati su vendite, concerti e riproduzioni streaming che possono fornire informazioni mai rivelate prima sulle singole performance e sulla reazione degli ascoltatori. Questi dati sono presentati agli artisti su apposite piattaforme di software come Pandora AMP.

“Se sai quando, dove e in che contesto i tuoi fan stanno ascoltando la tua musica, allora puoi regalare alla gente un'esperienza magnifica al momento giusto, nel luogo giusto," ha specificato il portavoce di Spotify Graham James.

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Spotify / Screenshot

Sono stati molti gli artisti a saltare e bordo: secondo i dati di Pandora, migliaia di act, dai primi in classifica alle band indie, hanno rivendicato la propria identità su AMP. Rdio offre servizi simili ai suoi iscritti, mentre SoundCloud ha dichiarato di avere oltre ventimila partecipanti al proprio progetto On SoundCloud. Ma non ci sono solo aziende che forniscono agli artisti questi dati e li usano per garantire loro un seguito più mirato, sul versante label esistono casi come 300 Entertainment, che usa gli accessi ai dati sulla musica di Twitter come strumento per lavorare alla produzione di nuovi artisti, e ha reso popolare gente come Migos con l’ausilio di queste tattiche social innovative.

Se da un lato non si può negare che ci sia da parte dell’industria una certa spinta all’uso di questi dati, il loro effettivo valore resta difficile da quantificare per gli artisti. Per chi ha ancora qualche difficoltà a far convivere musica e tecnologia, è abbastanza complesso capire in che modo certe informazioni possano aiutarci, ora e in futuro. Ma quanto dovremmo lasciarci influenzare da dei software di analytics sviluppati da compagnie che di base vogliono soprattutto aumentare i loro profitti? “È la morte” ci dice Thomas Arsenault, musicalmente conosciuto come Mas Ysa, quando gli chiediamo se ha mai studiato i numeri per aiutare la propria carriera.

“Forse sbaglio a pensarla così, ma non leggo i commenti né mi preoccupo dei like che prendo o simili. Non leggo nemmeno le interviste. Non voglio sapere chi pensa cosa di qualcosa. Non sono molto famoso, per cui forse dovrei. Penso sia importante fare roba del genere se vuoi essere un professionista nel 2015. Io non so come fare.” In questa prospettiva, i dati regnano, e aiutano a compiere decisioni migliori. Idealmente per i servizi di streaming, gli artisti che sono stati educati. Idealmente, gli artisti allenati all’uso dei servizi di streaming dovrebbero essere in grado di “far sposare arte e scienza”, come dice Phillips di Pandora, attingere alle risorse a lungo termine fornite dalla tecnologia e, in definitiva, guadagnare di più. Questo renderebbe anche gli artisti più attivi sulle suddette piattaforme, incrementando il bacino culturale e quello di utenza dei vari servizi, aumentando così i guadagni di tutti. Man mano che gli artisti diventano utenti dei servizi di streaming, diventano sempre meno responsabili delle percentuali di guadagno che riescono a ottenere da loro.

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Questo funziona anche al conterio: una band brava a usare i dati per scegliere che strada intraprendere sarebbe in grado di trovare scorciatoie innovative per la fama e il successo, mentre una che non usa gli analytics o li usa male, si troverà nei guai e con meno soldi di quelli che che avrebbe guadagnato da un accordo sulle royalty più vantaggioso. Certo, se all’orizzonte non c’è nessun accordo più vantaggioso, rivolgersi a una piattaforma di streaming sembra la migliore opzione.

Ma c'è dell'altro. Sensibilizzare gli artisti sul potenziale valore degli analytics non significa solo introdurre loro qualcosa di nuovo. Vuol dire anche portare gli artisti ad accettare i benefici di tali dati come rappresentazione dello stato effettivo le cose. Avvicinare gli artisti ai servizi di streaming, rendendoli dipendenti l'uno dall'altro. Questa dipendenza reciproca sembra essere ciò che perseguono gli stessi servizi—ed è da questo che dipende il successo del mercato dello streaming.

Consideriamo che i database dipendono dalle modalità operative delle singole aziende; gli analytics di Spotify non saranno mai quelli di Rhapsody, né tantomeno quelli di Pandora. Le band dovrebbero quindi adattare le loro canzoni in base ai canoni del servizio? In un recente saggio, il musicista e professore Mike Errico, teme che il principale rischio di questo ingranaggio sia tirare su generazioni di musicisti furbi, che si dedicano a produrre tracce poco più lunghe di trenta secondi, giusto per farsi pagare dal servizio. "Spotify di fatto incentiva questo tipo di cambiamento formale della traccia," così che i musicisti sono quasi spinti a non approfittare dell'ambiguità del sistema di cui dispongono, ma limitarsi a comporre pezzi da trenta secondi giusto per accaparrarsi quei pochi spicci in più.

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La tecnologia musicale ha da sempre dettato legge per quanto riguarda la lunghezza delle tracce, basti pensare alle limitazioni dei primi strumenti di registrazione: 78 giri, poi 45, che potevano contenere dai tre ai cinque minuti massimo di musica. Se un band non aveva un 45 giri, semplicemente non finiva in radio, compromettendo la sua potenziale popolarità solo per questioni di durata di un singolo. È uno dei principali motivi per cui gran parte delle hit da radio sono lunghe meno di quattro minuti, un sistema che è rimasto ancorato molto a lungo, incurante delle evoluzioni tecnologiche. Se gli artisti, in passato, hanno dovuto affrontare i limiti tecnologici dei loro tempi, perché adesso, non possono adeguarsi agli standard attuali e garantirsi un ingresso economico col minimo sforzo? Se le nuove tecnologie (malgrado le loro pretese liberatorie) continuano a supportare le limitazioni che determinano forma e lunghezza delle canzoni, perché non trarne vantaggio?

Cosa ne sarebbe di Spotify? Abbiamo visto cosa succede a una band che prova a fregare il piano tariffario di Spotify, quando i Vulfpeck hanno caricato un album interamente muto, “Sleepify,” sul portale, e chiesto ai fan di attivare lo streaming mentre dormivano. La band ha raccolto ventimila dollari prima che Spotify si rendesse conto di cosa stava succedendo e bannasse l'album. "Se Spotify ci dovesse mai dare questi soldi, li useremmo per un tour," hanno detto. Questa è solo una zona d'ombra, dato che i Vulfpeck, apparentemente, non hanno fatto altro che attenersi alle regole di Spotify; mentre d'altra parte è lo stesso Spotify che decide quali sono queste regole. In conclusione abbiamo quindi il servizio streaming che cerca di controllare l'intero mercato musicale e di dettarne le leggi, diffondendo il messaggio che se le band non si piegano ad esse, la loro visibilità evapora in tempi record.

Apple Music / Foto concessa da Apple

Niente meno che un fiero sostenitore dei diritti degli artisti come David Byrne ha recentemente dichiarato che i musicisti sono imprenditori. Byrne ha anche detto che la cooperazione e la trasparenza sono le chiavi per un sistema migliore e ha notato come persone provenienti da qualunque ambiente del music business stiano lavorando tenendo bene a mente questi principi. E fino a un certo punto, ciò potrebbe anche funzionare: un recente articolo pubblicato dal New York Times sostiene che, in base al reddito e alle statistiche riguardanti l’occupazione, i musicisti stanno finanziariamente meglio nell’era del post-Napster, soprattutto grazie a un incasso nettamente più elevato per quanto riguarda i live (qualcosa che i servizi streaming potrebbero aumentare ulteriormente). Ma esistono anche trappole per le band che si aspettano di comportarsi come piccole aziende focalizzate sull’ottimizzazione economica. Ciò non cambia il fatto che esse dipendano comunque da compagnie più grosse in cerca di profitto, che hanno invero poche ragioni di aiutare gli artisti più del minimo necessario, di cambiare veramente le cose. Ciò conferma d’altra parte la gerarchia in cui un pugno di potenti corporazioni possono controllare la distribuzione e l’utenza, praticamente il modo in cui l’industria musicale ha sempre operato. E se, da artista, sei in grado di trascendere tale gerarchia, il risultato è Tidal. Ma così facendo rimani comunque all’interno del sistema.

A questo punto, i dati possono essere usati come una distrazione. Possono fare sembrare più varie e grandi le opportunità offerte, quando in realtà sono solo leggermente meno ristrette di prima. Adottare gli analytics è una scelta, ma una compagnia che costringe gli artisti ad adottarli come una fonte di reddito economicamente significativa, automaticamente la nega. E gli analytics non risolveranno le lacune del sistema—la mancanza di trasparenza, le gerarchie consolidate, le radicate discordie—che hanno creato problemi per anni. Potrebbero essere parte di un nuovo modello di industria musicale, che metta meno enfasi sulla compravendita di artisti e sulle pratiche di business e più sulla trasformazioni dei flussi di informazione in flussi di denaro. Questo è il grande obiettivo che si prefiggono oggi le compagnie di streaming, e sostengono che ci sono molto vicine. E chi lo sa? Magari in venticinque anni saremo qui a parlare del momento in cui il Dylan della nostra generazione sarà prima di tutto uno stratega.

L’ideale a lungo assunto è che ci dovrebbe essere una separazione tra il perseguimento dell’arte e il perseguimento del guadagno commerciale. Ma gli artisti vogliono essere pagati per la loro arte, e i servizi di streaming vogliono che gli artisti adottino le pratiche commerciali. Negoziare questi obiettivi apparentemente in contrasto dipenderà dalla conquista di un numero sempre maggiore di subscribers, dal patteggiare compromessi significativi fra le molte parti in gioco, e dall’essere realistici a proposito di quanto i dati dicono. E questo se le cose vanno come previsto; gli ascoltatori potrebbero anche decidere, da questo momento in poi, di volere ascoltare solo musica dal vivo e mandare a puttane l’intero progetto per tutti quanti.

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