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Musica

NAAFI è il lato promiscuo e opportunista della club music messicana

Il collettivo di Città del Messico, oltre a rivoluzionare l'idea di dance latinoamericana, trae il massimo profitto dal capitalismo dell'industria musicale.

Da sinistra a destra: Alberto Bustamente, Lao, Tomás Davo. Per concessione di NAAFI.

Seguire NAAFI su Instagram vuol dire imbattersi prevalentemente in foto dei carismatici dodici membri del collettivo/etichetta di Città del Messico, tutti con una strana fascinazione per gli oggetti inanimati. Un'immagine promo di un evento con Mykki Blanco, lo scorso aprile, consisteva in un tavolo ricoperto di ombretti, rossetti, fard e pennelli, mentre racchette da tennis, spremiagrumi portatili, e scarichi della doccia metallici costituiscono a loro volta l'advertisement del loro show mensile sulla londinese NTS. Poi naturalmente c'è l'infinita mole di merchandise e oggestica firmati NAAFI: ben oltre le semplici t-shirt, ma pure adesivi, biglietti da visita, accendini, buste per l'erba, bracciali, coperte, borse e teli da mare. Questa identità visiva autoreferenziale è diventata una firma tanto quanto la scelta di campionare suoni della club music locale messicana e della più vasta America Latina, includento il reggaeton, cumbiaton, perreo, tribal e qualsiasi altra combinatione sperimentale di tutte le sonorità passano per la testa ai suddetti guaglioni.

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Ho fatto il mio incontro con NAAFI in un ristorante di Austin, durante SXSW di quest'anno. Il co-fondatore Alberto Bustamante—che fa il DJ con il nome di Mexican Jihad—mi ha spiegato che il loro immaginario visivo è una risposta a questa era così serratamente virtuale. "All'inizio, quando abbiamo iniziato a ricevere le prime coperture mediatiche sul progetto, tutti arrivavano a noi tramite Internet. Volevo distaccarmi da questa visione percezione, e tornare a una dimensione fisica della musica. Così gran parte delle immagini che vedi di NAAFI sono foto di oggetti reali, o situazioni reali da noi create."

NAAFI è nata come upgrade di una serie di feste in casa fatte a notte fonda, che i suoi membri tenevano nel 2010. Era più una scusa per loro di suonare le loro tracce tra amici, in una città dominata da export americani come EDM, house e techno. Adesso sono tutti passati a una fase più professionale, e si ritrovano a suonare in club, musei, festival locali e internazionali. NAAFI conserva un'enfasi estremamente attuale, e ogni loro evento/release è un soundclash di vibrazioni genuine, frutto del lavoro intellettuale ma soprattutto fisico di questo gruppo di ragazzi. Oltre a contribuire dal punto di vista musicale, Alberto—ex studente di architettura—cura le grafiche e il design comunicativo, Tomás Davo gestisce le attività quotidiane dell'etichetta, mentre Lauro Robles suona e produce sotto il nome di Lao e si occupa dell'A&R. Per la nostra conversazione ad Austin, i tre hanno invitato il loro manager Mariel Calderón, a fare da rappresentate del gruppo (Paul Marmota, il quarto fondatore, non era pervenuto, mentre Zutzut, un DJ con base a Monterrey, si è presentato inaspettatamente al nostro tavolo e ha iniziato a parlare).

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"Collaborare è una strategia di sopravvivenza per continuare a far crescere i nostri progetti con le risorse che ci troviamo di fronte, e si tratta quasi sempre di rapporti umani," spiega Davó. Qua sotto, tutti e cinque i membri NAAFI mi parlano del potere del lavoro di gruppo che si infiltra nell'industria musicale capitalista, e degli effetti distruttivi dei relativi modelli di business, che Alberto definisce "promiscui e opportunisti."

Noisey: Com'è nato NAAFI?
Alberto: È iniziato tutto nell'estate 2010. Originariamente era una festa bimensile che in genere tenevamo in diverse zone della città. L'idea era di dare spazio e voce a talenti e sonorità poco valorizzate, da Città del Messico, ma pure da altre parti del paese e del mondo. Non esistevano luoghi o eventi che fossero in linea con le nostre esigenze del momento, così ce li volevamo creare da soli.

Lao: Abbiamo iniziato con le feste in casa nostra. Vivevamo insieme, e a volte non uscivamo neanche la sera perché aspettavamo che la gente arrivasse all'after da noi, perché ci interessava solo mettere la nostra musica per i nostri amici. Ora, quasi sei anni dopo, il senso è sempre quello. Quando metto una traccia è perché voglio che i miei amici la ballino.

Alberto: Abbiamo cominciato a crescere organicamente, sviluppando un network tra artisti da tutte le parti del Messico, fino a quando non abbiamo deciso di formalizzarci e diventare una label. Ora come ora lavoriamo molto come ufficio di produzione, e ci affianchiamo alle istituzioni culturali e ai musei.

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Come vi siete conosciuti?
Tomás: Io e Alberto proveniamo dalla stessa regione, ma non ci siamo mai conosciuti. Si è trasferito a Città del Messico per studi un anno prima di me, e ci siamo conosciuti tramite un amico dell'Università. Lao invece è proprio di Città del Messico; ci siamo conosciuti tramite Internet.

Lao: Avevo un blog che usavo per ripostare la musica fica di tutto il paese e un po' di tutto il mondo. Mi sa che abbiamo iniziato a lavorare insieme dopo la terza festa NAAFI. NAAFI è nata come un'interazione nella vita reale tra persone fisiche con una stessa esigenza, una festa che succedeva davvero nel mondo reale. Certo, Soundcloud e le piattaforme che supportavano il blogging come il mio, hanno fatto da collante.

Che scena elettronica c'era a Città del Messico in quegli anni?
Tomás: Quando Lao ha iniziato a star dietro al suo blog e noi alle nostre feste, non c'era nessuna scena di cui potessimo andare davvero fieri. Quindi entrambi i nostri progetti sono nati per questa mancanza. Adesso sembra che l'industria in Messico abbia fatto un upgrade… adesso una scena per noi c'è.

Alberto: Siamo stati coinvolti in diversi piani dell'industria locale: ci sono producer e DJ, ma abbiamo anche lavorato come promoter e giornalisti musicali. Così ci siamo fortificati. Ora ci sono più mezzi di comunicazione e scene che stanno nascendo, ma quando abbiamo inizia noi, l'ambiente era molto più arido in questo senso.

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Qual era la club music più diffusa in città?
Lao: L'elettronica era considerata qualcosa di nuovo, ma aveva lo stesso uno stigma del pretenzioso, anche se già a inizio anni Duemila la scena era bella attiva e faceva uscire roba fica e più sperimentale. A fine anni Duemile e inizio 2010, dopo la fase indie-dance con i Justice, Ratatat, Chromeo etc, il mercato ha iniziato a ruotare più attorno all'elettronica perché i DJ erano più facilmente bookabili delle band, così come era più semplice organizzare feste o club night, che concerti. È stato allora che i club hanno iniziato a specializzarsi in generi specifici, come house, disco, tech-house e minimal techno. Per non parlare della scena rave o psy-trance messicana, che sono abbastanza certo non abbia nulla da invidiare a ogni altra scena europea o nordamericana.

Tomás: Era la scena più grande, prima dell'EDM.

Lao: Il modello è quello americano, la stessa cultura esportata al mercato messicano. Dopo l'espolosione dei festival di musica elettronica, è diventato più facile trovare negozi che vendessero piatti, cuffie o strumentazione varia.

Alberto: L'EDM sarà anche scontata e commerciale, ma la sua diffusione sta a indicare che esiste un'intera generazione che sta venendo su consumando solo musica elettronica. Per la nostra generazione, è stata una scelta; la musica elettronica andava cercata, non ne eri mai veramente circondato come ora. Sicuro non è il massimo della vita, ma l'EDM ha preparato la gente anche a nuovi tipi di elettronica e club music.

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Lao: C'è voluto poco per far venir voglia alla gente di sperimentare al di fuori dalle sonorità mainstream. Ora c'è una nutritissima scena juke/footwork, vedi Ten Toes Turbo, e un bel po' di altre label. C'è quella che chiamano Rhythm and Bass, praticamente R&B reintepretata spinta dai nostri amici di Finesse Records, di Monterrey.

Ci sono mai stati suoni particolari, magari poco considerati, su cui avete voluto puntare?
Lao: Be', il boom della tribal di un paio di anni fa è stato solo un rapido accenno a ciò che stava davvero succedendo in quell'ambito. La vera tribal aveva tutt'altro contesto e ambientazione; è una scena costituita quasi esclusivamente da DJ, sia qui negli Stati Uniti che vicino al confine. Non è neanche più una roba da ballare… sono quasi sempre ragazzini minorenni mega sbronzi che fanno scena.

Zutzut: Non ci sono neanche così tanti vocals o vocalist. Negli anni del boom i producer dicevano a questi ragazzini, "Sì, lo faremo assieme a un vocalist," e così finivano per produrre musica per le radio. La vera tribal non è così. È molto più cruda e hardcore.

Lao: E direi la stessa cosa anche per il perreo. È qualcosa di molto diverso dal reggaeton.

Zutzut: Credo che nel reggaeton ci siano più MC, producer, e tutto quel corredo che conosciamo. Perreo e cumbiaton sono più cultura bootleg. È più arte del djing, poca produzione originale.

Lao: Alcune tracce non sono neanche tracce ma prove per DJ da mixare dal vivo.

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Zutzut: Si potrebbe fare la stessa distinzione tra hip-hop e Jersey club. I producer Jersey club droppano tracce hip hop, ma a loro modo.

Alberto: È musica giovane fatta da gente ancora più giovane, e spesso per vie illegali. Non ha alcun riconoscimento mediatico. Non la suonano in radio.

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Volete diffondere queste realtà anche al di fuori del Messico?
Alberto: Più che campionare il genere ed esportarlo, ci interessano i diversi modi di interpretare anche a parole queste sonorità. Per esempio, quando parli di perreo finisci sempre in conversazione sulla divisione di classe, machismo, violenza e sicurezza nei club.

Tomás: E questa cosa che sta dicendo Alberto può capitare individualmente, come adesso, ma anche alle feste, quando la musica è comunque mixata assieme ad altri generi e stili, e c'è un'enorme confluenza di generi. La gente partecipa a queste conversazioni con grande trasporto.

Lao: La club music è mondiale. Non c'è bisogno di esportarla o di spingerla oltremodo, va solo presentata. Questi generi per me sono stilisticamente più affini alla techno, nei club si usano dei ritmi che nel complesso suonano per quello che sono: club music.

Zutzut: Molte di queste scene non hanno bisogno di essere "recuperate." Certo, a noi piace invitare molti artisti del genere a suonare di fronte a diversi tipi di pubblico, ma a un sacco di questi ragazzini Tribal diciamo, "Sai che abbiamo suonato la tua musica in Europa?" e loro "Ah ok." La gente che fa reggaeton ha una scena super forte a cui fare riferimento, e non ha bisogno di altro.

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Lao: La gente dice, "Oh, stai mixando elettronica con questi vocals di Panama" ma se ci pensi un attimo, già negli anni Novanta c'era chi lo faceva, e anche meglio di adesso. I primi ad aver sfornato mixtape reggaeton, prendevano una melodia house anni Novanta a caso e ci droppavano sopra i beat jamaicani in loop sulla traccia. Noi facciamo più o meno lo stesso, ma con materiale diverso e generalmente più nuovo, ma l'assetto era stato già stabilito. Puoi mettere drum reggaeton su qualsiasi traccia del mondo. Fa la differenza la traccia che scegli… è quella a diventare una firma. Perché hai scelto proprio questa combinazione e ci hai creato su questo ponte?

Quando avete fondato NAAFI, c'erano altri artisti che volevano ricreare questo vostro stesso modello?
Lao: Conosci la band "Molotov"? Hanno mollato la loro label dopo il secondo album uscito, perché hanno capito di non averne più bisogno. Hanno suonato in giro per circa vent'anni, ed erano famosissimi. Alla fine hanno fatto solo bene a starsene per conto proprio, produrre la loro musica, stamparsi i CD da soli e venderli fuori dai concerti.

Tomás: In verità siamo abbastanza ingenui. Io e Alberto stiamo ancora sperimentando e cercando di comprendere a fondo la vera natura dell'industria musicale. Sembra che neanche l'industria abbia idea di come muoversi, perciò non esiste né è mai esistito un modello specifico che ci ha guidati.

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Mariel: E credo che una cosa molto importante sul successo di NAAFI sia insito nel team stess; non ci sono solo persone che fanno musica, ma persone che curano ogni minimo dettaglio di quello che c'è davanti e dietro le quinte di questo processo. Art direction, network, comunicazione, stampa, distribuzione, feste… tutto quello che serve per stare sul pezzo e in contatto con il resto del mondo.

Lao: Ne ho parlato anche ad alcune lezioni che ho dato qualche tempo fa, erano consigli che davo a producer e musicisti su come far funzionare le cose—più o meno—qui in Messico. Alla fine l'industria ti aiuta anche, se te la sai costruire appropriatamente attorno.

Alberto: Siamo promiscui e opportunisti.

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Da sinistra a destra: Lao, Tomás Davo, Alberto Bustamente, Zutzut, e Pepper Kilo. Foto di Jesse DeFlorio.

Avete collaborato assieme ad altri collettivi di club music sperimentale come NON e Teklife. Che processo c'è secondo voi dietro a questo gemellaggio tra crew mentalmente affini?
Alberto: Credo sia la nostra risposta comune al capitalismo. Collaborare è una strategia vitale per permettere ai nostri progetti di crescere con le risorse che ci ritroviamo davanti, quindi quasi sempre rapporti umani. Vediamo la collaborazione come tassello fondamentale per l'esistenza e la sussistenza nell'economia di mercato. Lo vediamo a diversi livelli di consumo e produzione, non solo di musica, ma anche di cibo e vestiario.

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Zutzut: Ci sentiamo un sacco affini ai ragazzi di NON per quanto riguarda principalmente le sonorità, ma anche perché si trovano in una situazione molto simile alla nostra quotidianità. Le loro lotte sono le stesse nostre, o comunque sono molto simili.

Lao: Quello che abbiamo in comune con NON e con molte altre label è il lavoro sull'identità. Cerchiamo di sradicare questa estetica kitsch del Messico ad esempio; in città non c'è nessuno con questo cappello o con queste huaraches. Credo che Teklife, NON, e molte altri progetti da tutto il mondo stiano lavorando a una propria identità avvalendosi di modalità e strumenti più rispettosi del contesto in cui si trovano, e che anzi lo riflettano appieno ma in forma contemporanea.

Alberto: Molte delle persone coinvolte con NAAFI non sono ragazzi comuni. Molti di noi sono strani forte, alcuni nerd, altri non sono di Città del Messico. C'è gente da Ciudad Juarez, Chihuahua, Monterrey, Oaxaca. E adesso abbiamo espanso NAAFI affinché includa realtà non necessariamente messicane. Stiamo lavorando con Lechuga Zafiro che è dell'Uruguay, Imaabs da Santiago del Cile, Füete Billëte da Porto Rico, e con Zakmatic, che viene da Las Vegas ma è stabile a L.A. da un bel po'.

In cosa pensate che stia la forza del far parte di una crew allargata da un punto di vista economico?
Tomás: Trae profitto dal capitalismo, e lo fa nel migliore dei modi. È abbastanza ovvio che il capitalismo sia ad uso e consumo del mondo occidentale, e chiunque riesca a vivere secondo le sue regole ma non sia occidentale si trova di fronte all'altra faccia della medaglia.

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Alberto: È più una risposta al capitalismo, intesa come "Che altra scelta abbiamo?" Dobbiamo flirtare e negoziare con i brand continuamente nelle nostre vite, ma non ci capita mai di avere accesso a quelle infrastrutture dall'interno. È come un'illusione anche solo l'idea che esistano, o che a qualcuno sia data la possibilità di entrarci. In fin dei conti è più istinto di sopravvivenza, e come riesci a produrre stando nei tuoi stessi confini.

Lao: A fine anni Novanta c'è stata questa nuova tendenza a colpevolizzare gli artisti e tutti i ragazzini che volevano far soldi con la musica, perché siginificava capitalizzare arte che sarebbe dovuta essere libera e gratuita. Ad esempio, anche se studiavo in questa scuola di cinema super posh, tutti i miei compagni di corso dicevano, "Sono un artista che non riuscirà mai a vivere del mio lavoro." Falso, perché riesci benissimo a farlo quando ci sono i genitori a pagarti l'affitto. Alla fine, se necessito di fare qualcosa che in passato non avevo pensato di finire a fare, cerco perlomeno di metterci impegno e passione. Credo sia un modo intelligente di sfruttare quello che chiamiamo capitalismo. Credo sia più distruttiva usarlo da infilitrati.

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So che siete resident in un museo. Per le feste tendente a scegliere veri club, spazi abbandonati, o cosa?
Zutzut: I posti cambiano sempre, ed è una componente fondamentale ormai delle feste NAAFI.

Lao: Come ha detto prima Alberto, NAAFI è promiscua e opportunista. Abbiamo accettato di fare questa cosa al museo solo per approfittare dell'opportunità che ci è stata data. Possiamo benissimo suonare in un club posh fighetto e devastarlo completamente, di modo che ci pensino due volte prima di richiamarci.

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Alberto: E questa promiscuità si presta a qualsiasi cosa, dalle gallerie a…

Tomás: … all'Art Basel di Miami.

Zutzut: Ed ecco che arrivano tutti gli agguerriti del giro underground a dirci, "NAAFI non è più la stessa." E io rispondo, "Zio, vuoi che me ne stia a suonare in un appartamento tutto il tempo?"

Lao: Ma una volta che finisci a una nostra festa, fidati che l'atmosfera sarà sempre la stessa.

Alberto, a cosa pensavi quando hai iniziato a delineare l'immaginario visivo di NAAFI?
Alberto: All'inizio, quando abbiamo iniziato a ricevere le prime coperture mediatiche sul progetto, tutti arrivavano a noi tramite Internet. Volevo distaccarmi da questa visione percezione, e tornare a una dimensione fisica della musica. Così gran parte delle immagini che vedi di NAAFI sono foto di oggetti reali, o situazioni reali da noi create. Ho deciso di smettere di usare il computer per generare immagini, e al loro posto ho usato fotografie di oggetti che potevo recuperare per strada, o come parte di un'economia informale. Certe volte ci creiamo i nostri personali oggetti brandizzati, vedi tutti quelli nelle cover di Radio NAAFI.

Trattiamo ogni festa o release o comunicazione che dobbiamo fare, come una campagna visiva diversa. È anche molto onesto come approccio, se rimane nei circuiti delle possibilità di cui disponiamo: per un po' i nostri flyer si focalizzavano più sul processo creativo che sul risultato finale. Ci piaceva mostrare come eravamo arrivati all'immagine, più che l'immagine. Recentemente qualcuno ha paragonato la nostra arte alle forme di render di PC Music, ma è davvero l'esatto contrario.

L'idea di limitazione—e di superamento della stessa—può fare da giusta metafora per l'intero collettivo?
Alberto: Di opportunità, sì.

Tomás: Lavoriamo con persone che non vorremo mai limitare.

Alberto: Devi credere tanto in te stesso.

Tomás: È questo ciò che serve per entrare in NAAFI: non devi vergognarti di essere te stesso.

Lao: È anche un'enorme avventura. Alla fine, quando saremo tutti vecchi, avremo percorso questa bellissima curva di apprendimento, che è un vero e proprio processo di crescita. Stavo dicendo ad alcuni ragazzi che fanno jungle che se ti sbatti come un pazzo, cerchi di farti intervistare, fai mixtape, promuovi le release e i feature più volte al mese, finisci a non fare un corretto uso del capitalismo. Ti bruci in partenza tutte le carte potenti che hai, e quando sarà il momento adatto sarai a secco.

Tomás: È molto facile essere visti come "novità" in Messico, ma quello che vogliamo davvero è che non ci si dimentichi di noi così in fretta. Non devono essere tre anni, ma cinquanta. Gli artisti dovrebbero avere diritto a pagarsi le bollette con i soldi della musica che fanno, fino alla fine del loro giorni.

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