Difficilmente potrà mai esistere un titolo più grunge de “la nebbia del Monte Rainier”. È quasi sconvolgente, nella sua semplicità. Il vulcano quiescente che dall’alto dei suoi quattromila metri osserva Seattle, aspettando il momento giusto per eruttare su un’area abitata da quasi quattro milioni di persone, è insieme uno dei luoghi più belli e più pericolosi dell’intero continente nordamericano. Esattamente come la scena musicale nata alle sue pendici, coacervo di belli e dannati, che dopo trent’anni di carriera si riscoprono più dannati che belli – quelli che ci sono arrivati.
Rainier Fog è in tutto e per tutto un album degli Alice In Catene: la doppia voce di DuVall e Cantrell, la chitarra di Cantrell, il doom and gloom del nordovest. Sintetizzato, arrangiato, apparecchiato in un album che riesce a non puzzare di stantio ma a profumare di invecchiato. Poi chi dovesse aspettarsi la dirompenza di Dirt oggi rimarrebbe deluso, perché l’urgenza di “Them Bones” è qualcosa che può uscirti solo a venticinque anni, non certo oltre i cinquanta, ma la buona notizia è che “The One You Know” apre le danze con il piglio giusto. E poi se davvero nel 2018 ti aspetti un nuovo Dirt, beh, un po’ cretino lo sei.
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La chitarra del biondone più metallone di Seattle prende in prestito addirittura il sound acidulo di certo post-metal per le prime plettrate con cui dare il La ad un album che, non avendo nulla da aggiungere ai trenta e più anni di carriera passati, si ritaglia il suo spazio con gran classe. La title track poi è una bomba: un perenne midtempo, ripulito e precisino come solo una canzone scritta, prodotta e registrata da artisti maturi può essere, che al suo interno ha tutto quello che il rock alternativo novantiano richiede. Un ritornello tutto da cantare, un sound che acchiappa come se l’epoca delle grandi rockstar non fosse mai tramontata, un arpeggino a metà che scioglie i cuori più sensibili, ora e sempre sotto lo strato caldo e accogliente della flanella a quadri. E poi gli umori tristi del grunge, che ci ricordano di quanto la vita sia triste e di come i bei tempi andati fossero sempre e comunque meglio, anche se poi di fatto non stavamo bene nemmeno quando i bei tempi andati li stavamo vivendo.
Messo in chiaro dopo appena due pezzi come gli Alice In Chains siano e saranno per sempre gli Alice In Chains, Rainier Fog procede e scorre senza nessuna sorpresa: la ballad simil-”Down In A Hole” (“Fly”), il crescendo di “Maybe” che tenta di richiamare “Rooster”, e via così. Perché i limiti di Cantrell e compagni sono anche i loro pregi migliori: quei tre o quattro formati-canzone tipici che si tirano dietro da tutta la vita e niente altro, ma nessuno li fa bene come loro. Quei rimandi bluesy che DuVall è riuscito a mantenere del retaggio di Staley, quel gusto pazzesco per le melodie nonostante l’impianto più heavy di tutto il grunge, quella inconfondibile tristezza di fondo, sono ancora le ragioni migliori per ascoltare un album degli AIC, oggi come nel 1992.
A tutti voi che non avete mai smesso di andare in giro coi camicioni da tagliaboschi, gli Alice In Chains sono ancora qui a spiegarvi come fare le coccole al buco nero che vi portate dentro.
Have another go my friend
You see I can’t feel anymore
While you question just who the hell am I
Is this all I am?
Given all I can?
Is this all I am?
‘Till the end of time, never knowing why
TRACKLIST:
1. The One You Know
2. Rainier Fog
3. Red Giant
4. Fly
5. Drone
6. Deaf Ears Blind Eyes
7. Maybe
8. So Far Under
9. Never Fade
10. All I Am